Per un tenace pregiudizio, durissimo a morire, i bianchi romagnoli non sono molto complessi né tantomeno molto longevi. Andrebbero bevuti presto, a pochi anni dalla vendemmia, senza rischiare di trovarli moribondi in bottiglia. A onore del vero, una rilevante percentuale è statisticamente in linea con questo luogo comune. Le eccezioni si fanno tuttavia sempre più numerose e significative negli ultimi anni.
Dai ventisette milioni di quintali per ettaro e passa di un tempo, le rese si abbassano nei casi virtuosi fino a cinquanta, sessanta quintali, o giù di lì. Le tecniche di cantina si affinano. E così le vigne migliori – quelle “vocate”, si diceva un tempo – fanno sentire la loro voce più limpida.
È pienamente il caso dell’albana dei fratelli Gallegati, ricavata da una vigna di sessant’anni di età sui Monti Coralli, nelle campagne di Faenza. Qui ci si dimentica in fretta delle Albana diluite e anodine, magari un po’ dolci e un po’ frizzantine, che si vendevano e probabilmente si vendono ancora a bottiglioni. Proprio all’opposto, ci si trova davanti a un bianco di forte personalità aromatica, che intreccia profumi di matrice marina – ostrica, alga e, più specificamente, spruzzo di Mar Adriatico che ti coglie sulle labbra e in un occhio mentre stai guardando la riva su un gommone – a succose note di agrumi freschi, sambuco, erbe dell’orto. Un bianco di particolare energia, che nel finale si fa via via più marcatamente salino. «Non a caso il foraggio che proveniva dai Monti Coralli era salato, le mandrie ne andavano pazze», sottolinea Antonio Gallegati. E tutto sommato ne andiamo moderatamente pazzi anche noi.
Spruzzo di Mar Adriatico che ti coglie sulle labbra e in un occhio mentre stai guardando la riva su un gommone