Per un’apologia del vino dolce:
elogio di un mondo magico e dimenticato

 
<<È

 un vinello leggero», «...un vino solo per le donne», «...un vino che non sai mai come abbinare». Da troppo tempo ostaggio di fuorvianti luoghi comuni per il suo residuo zuccherino naturale, in un paese che tradizionalmente già fatica a sopportare il vino bianco – l’unico riconosciuto come “vero” o “serio” dalla vulgata popolare, formata in larga parte da bevitori maschi, è quello rosso, considerato “virile” per la sua struttura e il suo tannino –, il vino dolce sconta un insuccesso d’immagine, e conseguentemente commerciale, incomprensibile alla luce della sua storia (millenaria), della sua grandezza espressiva (unica nel mondo dell’enologia), della sua longevità (superiore a quella di qualsiasi vino secco). 

Non c’è vino più antico di questo: il vino nasce dolce. In un’epoca così attenta alle tradizioni storiche, non è chiaro perché nessuno presti attenzione a questo vino millenario. Gli intransigenti difensori del rosso come unica razza enologica nobile scopriranno che il rosso arcaico era tutt’altro che secco: se l’ideogramma sumero gestin-hea significa “vite + sole” ovvero “uva passa” (usata come cibo, offerta divina e ingrediente nei medicinali), gestin-sa definisce che il colore del vino è rosso e le parole che lo descrivono sono inequivocabili: “buono”, “dolce”, “puro”. Il vino dolce è bontà e purezza, una coppia di epiteti in seguito mai più disgiunti da questo nettare. Presso gli Ittiti e i Traci offrire il vino dolce era una prerogativa dei re ed esisteva presso i Sumeri un ideogramma (la’l gestin-ku) che identificava un vino dolce così prezioso da essere riservato solo agli dei. Il vino “più dolce del miele” prodotto dagli Hyksos (popolazione semita che occupò l’antico Egitto) nella loro capitale Avari era rosso, come l’antico vino semitico prodotto a Lachish durante l’Età del ferro: l’iscrizione sull’orcio dice esplicitamente «vino fatto con uva passa nera». Nero come il vino che Marone d’Ismaro dona a Ulisse nel libro nono dell’Odissea

DOLCE e PURO, DIVINA BEVANDA

Come scrive Attilio Scienza, il vino dolce è l’essenza della civilizzazione europea e assaggiarlo significa risalire alle radici più profonde e ancestrali della vitivinicoltura. Per comprenderne la grandezza espressiva non si può prescindere dal colore: la sua infinita tavolozza ne misura la complessità. Diffidate di chi consiglia di trascurare il colore di un vino. Nelle tre principali fasi organolettiche il colore viene senz’altro dopo il gusto e l’olfatto, ma non c’è forma di conoscenza sensoriale senza immagine, e il vino non fa eccezione. Il colore non è un elemento accessorio, ma è carattere, evoluzione, vivezza. Il colore può dirvi molte cose di un vino: l’identità, l’età, l’integrità. Il colore porta al riconoscimento, al pari di un profumo o di un sapore. Il colore è denotazione. Tra bianchi e rossi, nel mondo dei vini dolci esiste uno spettro quasi infinito di tonalità: tra i primi c’è il giallo paglierino, il dorato, l’arancio, l’ambrato, il mogano, il marrone; tra i secondi il granato, il rubino, il porpora o com’è descritto nell’Odissea: il rubicondo, il rossastro, il vermiglio.