IV – IL MOGANO DEL VINSANTO

Vin Santi e Vini Santi

Quando si parla di Vin Santo il pensiero va, e con ragione, al vino toscano: è il più famoso prodotto in Italia. Ma non è l’unico. Vedi il Vino Santo trentino, il Vin Santo veneto, emiliano, umbro... Pure in Toscana, ricordava Giacomo Tachis, fra i massimi conoscitori della tipologia, le variabili di produzione «sono così tante che le caratteristiche dei Vin Santi a cui danno luogo sono eterogenee, differenti, a volte addirittura opposte tra loro». Il Vin Santo proviene da uve fatte appassire – è quindi un vino dolce, diffidate dei vin santi “secchi” – ma è un passito decisamente sui generis. Le sue peculiarità, di natura squisitamente ossidativa, si realizzano nella fase successiva alla pigiatura. Un Vin Santo che voglia esser tale – toscano, veneto o piacentino che sia – prevede un lungo periodo di permanenza (anche 10-12 anni) in caratelli (piccole botticelle) solitamente sigillati (dunque senza colmature, da cui il processo di ossidazione del vino) e posti sottotetto, per esporre il liquido alle escursioni termiche: qui fermenta e invecchia a contatto con una “madre” (il deposito naturale formatosi sul fondo dei caratelli per addensamento dei lieviti) e senza alcun tipo di controllo; le rese finali sono molto basse (anche del 20%) in rapporto all’uva di partenza e al mosto ottenuto. Giocoforza, il Vin Santo è prodotto in piccole quantità, non diversamente dagli altri passiti italiani, che occupano una nicchia di mercato rispetto ai vini di maggior consumo, e i Vin Santi prodotti fuori dalla Toscana occupano una nicchia della nicchia. Assai dibattuta e lungi dall’essere risolta – ma questo è il fascino della ricerca – è la questione relativa al nome. C’è chi sostiene derivi dal greco xanthòs (giallo, biondo) in rapporto al suo colore ambrato, ma è un’ipotesi debole; più convincente, pur se leggendario, è l’episodio che vede al centro il vino di Xantos durante il Concilio di Firenze (ne parliamo più avanti). C’è poi chi riferisce il nome al periodo della Settimana Santa in cui venivano pigiate le uve appassite per la produzione dei vini “pasqualini”, che si distinguevano dai “natalini”, vinificati prima, ambedue collegati a ricorrenze religiose dunque “sante” (attualmente solo il Vino Santo trentino effettua la torchiatura delle uve durante il periodo pasquale). E c’è infine chi fa derivare il nome, con buona approssimazione del vero, dal latino sanctum, in quanto vino prodotto da enti ecclesiastici e monastici – gli unici che al tempo potevano permettersi vinificazioni di tipo “qualitativo” da grandi quantità di uva – sia per uso liturgico, sia come bevanda da consumare nelle festività. Da una regione all’altra, e da una zona all’altra di una stessa regione (Toscana docet ), la differenza tra Vin Santi è nella base ampelografica (i vitigni utilizzati, sempre autoctoni, variano da territorio a territorio) e nelle varianti di produzione: per quanto tempo e su quale supporto è effettuato l’appassimento (uve stese su graticci di bambù o di metallo, adagiate in cassette, appese su ganci, corde o reti), per quanto tempo e in quale contenitore il vino matura (caratelli di castagno e/o rovere, botti più ampie come le barrique), e se in presenza della “madre”. Nasce così uno dei vini ossidativi più nobili, dolci e densi del panorama enologico italiano, da sempre il vino dell’amicizia, dell’accoglienza e, per le sue proprietà corroboranti e medicamentose, della salubrità.