Tentativi di tradurre in prosa la poesia del vino

QUATTRO ORE ALL’ALBA

Pochi giorni nelle Langhe, tra barbere e tormente di neve. Bloccato in autostrada per sole quattro ore, impossibile avanzare, indietreggiare, obliquare; anche scendere dalla macchina: lastre di ghiaccio a destra e a sinistra. Ma ampiamente ripagato dagli incontri, gli assaggi e le cene conviviali sul posto.


Proprio per la neve, arrivo da Roberto Conterno in un orario quasi notturno, ho appena il tempo di fare due chiacchiere sulla nuova vigna (nel vigneto Cerretta, circa tre ettari se ricordo bene) e di riassaggiare i vini: Barbera 2006 (magnifica, intensa, aggraziata), Cascina Francia 2004 (in equilibrio unico tra note scure di idrocarburi e note trasparenti di fiori), Monfortino 2001 (monumentale, definitivo, ancora embrionale, da stappare nel 4010).

E con Roberto parliamo poi del solito, rimasticatissimo tema, la difficoltà per il consumatore di distinguere tra qualità reale e qualità scimmiottata, tra vino furbo e vino vero. Come orientarsi? Cosa suggerire? Le risposte sono mille, provo a darne una. Rimanendo nel territorio – piccolo ma ambìto – dei vini che mirano al vertice delle gerarchie nazionali.


Delle molte differenze che un palato allenato può cogliere tra un vino costruito a tavolino, ammiccante, e un vino vero, ce n’è una decisiva. Lasciamo perdere i profumi, le sfumature aromatiche, il cosiddetto naso, che pure ha grande importanza. L’arco gustativo che un vino disegna è anche più rivelatore. Un vino furbo, velleitariamente ambizioso, ha un attacco perentorio, quasi arrogante. Lascia intendere chissà quali doti, chissà quale intensità. Ma nel giro di pochi secondi si affloscia su se stesso. Si spegne, si rivela una sorta di fondale teatrale, dietro al quale c’è poco o niente. Così sono molti rossi superpotenti e superboisé, che non mantengono le promesse del primo impatto gustativo. Sono insomma vini che compiacciono soltanto la parte anteriore del palato, la più facile da sedurre, e anche la più infantile.


Il vino vero segue spesso – non sempre, spesso – un tracciato del tutto diverso. Per quanto preciso, netto, il cosiddetto attacco di bocca è discreto, quasi reticente. Soltanto da centro bocca in poi rivela, in modo graduale ma sicuro, più incisività, più energia motrice, più profondità. Fino a disegnare un arco gustativo amplissimo e un finale irradiante. L’opposto del vino furbo, quindi: là un fondale di cartapesta (un guappo di cartone…), qui un esordio quasi timido, incerto, ma una progressione implacabile e un finale lungo e luminoso.

Ecco, la luminosità. Scrive Adorno in una pagina straordinaria di Minima moralia:

“La mediocrità della pagina del nascere del sole nella Sinfonia delle Alpi di Richard Strauss non viene soltanto dalla banalità degli accordi, ma dallo splendore che vorrebbe evocare. L’alba, anche quella a cui si può assistere in alta montagna, non ha nulla di pomposo, trionfale e sovrano, ma accade sempre, per così dire, in modo timido e esitante; come la speranza che un giorno le cose potranno andare meglio per tutti. Ed è proprio in questa inappariscenza di quella che sarà la luce più possente che si cela ciò che ci emoziona e che ci commuove.”

Così si esprime il vino vero, e così possiamo, da esperti o da appassionati, scoprirne e apprezzarne la vera natura.