IL VINO BUONO
Siete stressati dalle continue guerre di posizione nel vostro ufficio? Vorreste strangolare alcuni colleghi e – più pacatamente – avvelenarne altri? Pensate che fuori del vostro ambiente di lavoro esistano settori dove il lavoro è calma, pace, armonia tra le persone e le cose, come ad esempio quello del vino? Errore. Rasserenatevi. Anche nell’apparentemente dorato mondo del vino esistono lotte quotidiane, polemiche roventi, fazioni avverse che si combattono sanguinosamente. La guerra attuale è tra produttori “tecnologici” da un lato e produttori “naturali” o “vinoveristi” dall’altro.
Per capire meglio facciamo un passo indietro di una quarantina d’anni. Negli anni Settanta del secolo scorso le campagne erano in stato d’abbandono e si produceva (con diverse notabili eccezioni) vino in media scadente, diluito, insignificante. Il cosiddetto Rinascimento enologico italiano ha reagito creando negli anni Ottanta e Novanta vini – in soldoni – molto più concentrati, più maturi, più morbidi, insomma più immediatamente piacevoli.
Tale decisa virata ha portato con sé un aumento significativo delle tecniche viticole ed enologiche; aumento che si è tradotto, sul finire degli anni Novanta e con i primi tempi del nuovo millennio, in un uso spesso spregiudicato e molto invasivo della tecnologia. La diffusione di pratiche ipertecnologiche, soprattutto in cantina, ha causato quindi un’evidente omogeneizzazione e omologazione dei vini, che hanno cominciato a somigliarsi tutti, fossero prodotti in Lombardia, in Umbria o in Sicilia: colorati, massicci, densi e quasi sempre aiutati dalla dolcezza che porta con sé la botte di legno tostata, la famosa/famigerata barrique.
A tale visione della produzione si oppone oggi un numero crescente di vignaioli che intende tornare alla semplicità e alla naturalità di un tempo: vitigni locali (e non uve cosiddette internazionali come il cabernet, il merlot, lo chardonnay), poca o nessuna chimica, poche o nessuna manipolazione fuori dei passaggi indispensabili per arrivare a un liquido vinoso da un grappolo d’uva.
Bene quindi, c’è spazio per tutti, giusto? Manco per niente. Non soltanto questa parte del mondo produttivo si scontra violentemente con chi vuole usare tutti gli strumenti messi a disposizione dalla modernità, ma si scinde a sua volta in diverse fazioni l’una contro l’altra armate: i vinoveristi, i biologici/biodinamici, i vinnaturisti, e via andare.
In questo groviglio di polemiche, cosa può fare il semplice consumatore? Badare al sodo. Cioè all’elementare distinzione tra vino buono e vino non buono. Vini di queste due macrocategorie se ne trovano sia tra i “modernisti” sia tra i “naturalisti”. Un Cabernet moderno può benissimo essere molto buono, perché ottenuto da uve sane e vinificato senza eccessi, così come un rosso da uve tradizionali e da tecniche arcaiche può benissimo essere scadente perché puzzolente, acidulo e amaro. E viceversa, ovviamente. In questo nuovo blog di Piattoforte cercherò di aiutarvi a distinguere il vino buono dal meno buono. Senza pregiudizi e schemi universali, ma valutando caso per caso.