Il giornalista,il mondo della produzione e i burocrati L’AMARO STIL VECCHIO Le sessioni di degustazione per la nuova edizione della guida dell’Espresso sono terminate. Contiamo di fare un bilancio sintetico di questa ennesima panoramica sul vino italiano attuale in uno dei prossimi interventi. Per il momento, a caldo, si impone una considerazione: sempre più spesso abbiamo trovato vini di grande naturalezza espressiva, privi di forzature e di eccessivi interventi di cantina. Insomma, buoni o meno buoni che fossero, vini facili da bere. I Vini d’Italia Il che fa risaltare con evidenza ancora maggiore l’elemento di artefazione che ormai è giusto associare a molti vini di quello che viene tuttora definito stile moderno. E che per noi moderno non è più. Quando, dieci/quindici anni fa, apparvero i primi vini ottenuti con tecniche di cantina spinte – rotomaceratori, osmosi inversa e altri strumenti per concentrare, aggiunta di mannoproteine, e simili – noi appassionati e critici salutammo quello che pareva un Dolce Stil Novo. Uno stile che dava finalmente vini morbidi, dolci, rotondi, pieni di frutto. Bene, anzi maluccio. A distanza di anni, il portato storico di questa “rivoluzione” è chiaroscurale, a dire poco. I migliori vini moderni possono esprimere con garbo queste caratteristiche, evitando gli eccessi più pacchiani. Ma la tecnica ha fatto nascere vini che sono a tutti gli effetti delle caricature del Grand Vin bordolese cui fanno in massima parte riferimento. Così oggi dobbiamo fare i conti con moltissimi prodotti che imitano il vino potente, estrattivo, ricco di note di rovere nuovo, in un registro però sgraziato, finto, e soprattutto – ciò che più conta – poco bevibile. Perché qui sta il punto: niente di male ad avere mini-bordolesi a 5 euro, anzi. Se il vino è fatto con cura e si propone di risultare onestamente per ciò che è, vale a dire un vinello facile da bere, con qualche innocua di legno dolce, il consumatore sa cosa compra e la differenza che passa tra questo e un grande vino (che richiede costi di produzione e quindi prezzi finali ben diversi), oppure tra questo e un vino semplice ma gustoso da uve locali. nuance Ma se ci si trova davanti a vini costruiti in cantina, rozzamente rimpinzati di materia, sovraccaricati di note dolciastre di barrique (presa male), e proposti a un costo finale sopra i 20, 30 e anche 40 euro, c’è di che alterarsi (eufemismo) un po’. Nelle nostre valutazioni consideriamo molto importante un parametro, quello del finale. La maggior parte dei vini fatti per ricalcare quel modello artificioso finiscono amari, e non ci sono santi enotecnici in paradiso (per il momento…) che riescano a dare a questi vini una chiusura naturale, lineare, non forzata, soprattutto non amara. Questo modello ci sembra che stia tramontando, e in ogni caso per noi è già vecchio. L’Amaro Stil Vecchio, appunto. I produttori più avveduti cominciano a capire che si tratta di uno schema superato. Che i vini fatti in questo modo non si bevono, al massimo si sorseggiano. Speriamo di trovarne sempre meno nel bicchiere. AUTORI E INTERPRETI È banale, ma ancora qualcuno lo ignora: l’autore non è necessariamente il soggetto più acuto e affidabile nel dare pareri sulla sua opera. Quando un’opera – sia un testo letterario, un dipinto, o più modestamente un vino – viene ultimata, licenziata, l’autore è delle voci autorevoli nell’interpretarla, non per forza la più autorevole. una Anzi. In modo curioso, si dà spesso il caso di autori che interpretano in maniera poco convincente la propria opera. Dandone una visione addirittura banale, poco capace di restituirne la complessità. Gli esempi non mancano. Tanto per stare alle citazioni colte, esistono incisioni di alcune partiture di Stravinskij, dirette dal compositore medesimo, meno brillanti rispetto a letture di altri direttori d’orchestra. Oppure, se volete fare un giro su YouTube, andate a cercare registrazioni del famoso – e un po’ enfatico – preludio n. 8 opera 12 di Scriabin. Ne esistono un bel po’ di varianti, e tra queste è possibile ascoltare una registrazione di Scriabin stesso, datata, pare, 1910: fatta la debita tara (cattiva qualità audio, con conseguente perdita di dettagli esecutivi), suona davvero meno incisiva e avvincente rispetto, tanto per dire, a una qualunque delle interpretazioni del leggendario Horowitz. Allo stesso modo, il produttore di vino, e l’enologo consulente, non sono forzatamente i soggetti che possono dire l’ultima parola sui loro vini. Dispiace dirlo (ma nemmeno tanto), produttori ed enologi sono talvolta degustatori poco esperti. Per esempio, possono stupirsi se il loro vino “di punta”, 400% legno nuovo, superestrattivo, extralusso, viene valutato meno di un loro vino più “da battaglia”: cioè spesso più naturale e meno pompato. A noi è capitato diverse volte di ricevere comunicazioni stupite, del tipo “ma siete sicuri di aver giudicato migliore il rosso x, d’annata, e non la riserva y?”; con il chiaro sottotesto, “certo che di vini non ne capite molto”. Ovvio, nessuno è infallibile, e anche noi possiamo fare e facciamo errori di valutazione, ci mancherebbe. Ma ogni tanto i produttori sono i primi a non capire dove – e soprattutto perché – hanno fatto bene un vino, e meno bene un altro. Ha ragione Isao Miyajima, brillante collega giapponese: in Italia, come in altri paesi viticoli, uno degli elementi che frenano la crescita qualitativa è proprio la scarsa cultura degustativa di alcuni (per tenersi sul generoso) produttori. PRÌNCIPI E CADETTI All’inizio sembra una . Dopo qualche anno di esperienze degustative, le si ripetono, formano una piccola casistica, e spingono a fare qualche riflessione. Di che si tratta? Un’azienda produce poniamo due rossi, ottenuti entrambi dalle stesse uve. Il primo è un vino ambizioso, il vertice della gamma, il fiore all’occhiello della casa; magari è una riserva, o in ogni caso ha un nome più altisonante del primo. Il secondo è il vino cadetto, di minori pretese. Meno estrattivo, meno profondo, di solito – grazie al cielo – meno costoso. curiosa eccezione curiose eccezioni L’eccezione curiosa è quando il secondo vino sembra più equilibrato, più armonioso, insomma più riuscito e piacevole da bere del primo. Anche tenendo conto delle diverse potenzialità di sviluppo tra i due prodotti. Non si può liquidare questo dato, che è decisivo, considerandolo ovvio secondo lo schema rimasticato . Perché talvolta il futuro della riserva rimane un futuro lontano e incerto, mentre il presente del vino di base è spesso molto godibile. Occhio: sto parlando di eccezioni, non di regole. Non mi sognerei di sostenere che fare vini più ambiziosi e più strutturati sia peggio che fare vini semplici. Lascio questo genere di semplificazioni ad altri. la riserva per il futuro, il vino di base per il presente Perciò, quando un critico arriva al nocciolo e deve scegliere cosa segnalare più convinto e cosa meno, in casi come questi ha due strade: barcamenarsi con gli eufemismi (“la potente e profonda riserva è pensata per dare il meglio fra qualche anno, quando rivelerà tutta la sua profondità e grandezza, dopo aver assorbito la quota di rovere attualmente un po’ in evidenza, mentre il base, più semplice, offre una più immediata bevibilità”) e lasciare in testa alla gerarchia aziendale il vino più strutturato ma meno riuscito e meno piacevole da bere, oppure dire le cose come stanno. O meglio, come se le sente: la soggettività, ovviamente, de gustibus, eccetera. ESERCIZI DI STILE Alcuni studiosi di analisi sensoriale auspicano una delle schede di assaggio. Per evitare che i lettori si confondano, per permettere una comprensione univoca e immediata dei caratteri principali di un vino: che si legga in tedesco o in spagnolo, che ci si trovi in Italia o in Cile. Descrittori codificati, eliminazione di termini soggettivi, e simili. Una sorta di regolamentazione, sulla falsariga delle norme introdotte dall’Unione Europea in molti campi della vita pubblica: prese elettriche, dimensioni delle zucchine, eccedenze, misure di volume, eccetera. Opinione rispettabilissima, ma siamo sicuri che quanto si guadagnerebbe in uniformità e chiarezza non si perderebbe in varietà e ricchezza espressiva? standardizzazione L’allegra anarchia critica che regna nella carta stampata e su internet ha infatti un suo valore che penso vada difeso: se nella descrizione di un vino ci si capisce poco, amen, almeno ci si può divertire a leggere la sorprendente varietà di esiti stilistici dei vari autori. Bravi, modesti o canini che siano. Prendiamo un vino a caso, per esempio un Rosso di Sciatalcino 2007 dell’azienda Castello di Mastello. Ci sono mille modi per descriverlo, dai più dimessi e burocratici ai più pretenziosi. Il che, al netto delle polemiche tra le diverse scuole di pensiero, in fondo è piacevole. Si può provare a buttare giù una prima lista di variazioni, cercando di immaginare come suonerebbe la relativa scheda a seconda degli orientamenti stilistici più conosciuti. Ecco le varianti iniziali, ma si potrebbe andare avanti per un pezzo: : colore rosso di buona intensità, limpido, profumi puliti di violetta e frutti di bosco, sapore pieno, fruttato, leggermente astringente; semplice : rosso di intensità cromatica 4,07 su scala Roentgen, pH di 3,45, acidità totale di 7,2, alcalinità delle ceneri 600.000, buona struttura polifenolica (3 grammi/litro, titolati in acido gallico), volatile nella norma, adeguata PAI finale; notarile/enotecnico : rosso dai sentori di ciliegia, grafite, viola, garofano, pepe, cardamomo, humus, hammam, romanzo rosa, pane, pasta, lepre, saldatore industriale, cacao, frutti di bosco, schiena, collo, capocollo, asciugamano (eccetera); paratattico : rosso vellutevole, fa meraviglia di sé per la magnanima e ridondante voglia di darsi; la morbidezza allarga scampanando, la campana si allunga ammorbidendo, la felpezza del palato avvince e conquista, per una luccicante presa vellutante che rimbalza amorosa sulle papille, si avvita in spirali/spiralate di crema lucida scintillante e persiste per interminabili ore di delizia vellutosa; pseudopoetico/fuori controllo : superbo rosso, di gran razza e nerbo, serbevole e carezzevole alla gustativa, di grande beva, con finale sulla vena, si abbina a cacciagione di piuma e di pelo, ma non di aculeo; anacronistico/fuori moda : per me è un vino notturno, che ricorda quelle serate di autunno in cui tutto sembra bello, ci amiamo e ridiamo, e non sappiamo perché ma non ci importa, continuiamo a ridere. Lo bevo ascoltando una cover dei Moscow Green Warriors, molto noise, trascritta liberamente per piano, bandoneón, scacciapensieri, vasca idromassaggio (acustica) e castoro impagliato (in fa); giovanilistico/pseudoliberato : bella saturazione cromatica, ridotto alla prima olfazione, attacco di bocca amilico, centro bocca boisé, grana polifenolica media, senso di verticalità, leggera scissione acida, terzo, quarto, quinto e sesto di bocca stretti, a segnalare sovraestrazione, finale da otto caudalie e mezzo gergale/ostile Eccetera eccetera. L’ESPERTO DEFINITIVO Da un paio di decenni è in corso un confronto silenzioso, ma non per questo meno acceso, nel condominio del vino italiano. Le parti in commedia sono rappresentate da due gruppi che inevitabilmente devono fronteggiarsi, soprattutto da quando i rispettivi ruoli hanno acquistato visibilità e una certa quale importanza strategica: i critici specializzati e gli enologi. O per meglio dire, sono rappresentate da critici e da enologi: la maggioranza degli individui delle due specie, sebbene biologicamente affine e insistente nel medesimo territorio, si limita a ignorarsi. alcuni alcuni Dietro la facciata ipocrita delle reciproche attestazioni di stima, il succo del confronto si riassume più crudamente nelle espressioni, molto italiote, “tu non mi freghi” e “ti ho fregato”. A un “ci hai messo del cabernet, eh? ma tanto non mi freghi” si contrappone un “pensavi davvero che fosse tutto 2008? Povero fesso, non sai che cosa ci ho schiaffato dentro”. “Se questo è tutto sangiovese io sono Lady Gaga” contro “scrivono entusiasti che il nostro Criolesco degli Aspigiani è il miglior Sangiovese in purezza dell’anno, pensa che coglioni, con tutto il montepulciano che ci abbiamo messo”. In un gioco infinito di specchi, tale atteggiamento di sospetto universale si rimpalla poi dagli uni agli altri: “So che tu usi il concentratore”; “So che tu sai che io uso il concentratore”; “So che tu sai che io so che tu usi il concentratore”, e via andare. Per quanto mi riguarda – beninteso, quando non si è in presenza di un illecito o di una scorrettezza dimostrabile – è un giochino al chiacchiericcio condominiale, al pettegolezzo astioso, alla semidelazione ambigua che da sempre non mi interessa. Mi interessa invece affinare sempre di più la capacità di distinguere il vino buono dall’ del vino buono; dato che con le tecniche moderne si può imitare tutto, perfino il totem tanto idolatrato oggi della . Uno studio infinito, una tensione perennemente incompiuta, un approfondimento che dura un’intera vita; se basta. imitazione mineralità E non basta, ovviamente. RENOIR Nello scetticismo e nel compatimento ironico degli enofili più cool, in queste settimane “quelli delle guide” sono immersi in un frullatore di assaggi degno del noto robot da cucina Bimby. Noi, dobbiamo ammetterlo ancora una volta con una punta di imbarazzo, siamo tra i reietti guidaioli, e ce ne scusiamo presso amici e parenti. Le sessioni di degustazione sono dure. Giovedì, dopo una mattinata particolarmente pesante, il mio primo desiderio era di tornare a casa e svenire sul letto. La giornata non era soltanto caldissima, aveva una qualità e direi un “peso” della luce solare sorprendenti: alle tre di pomeriggio, dopo aver accumulato calore alcolico per ore, sarebbero bastati pochi minuti al sole per rischiare l’autocombustione. Nonostante questi limiti climatici e l’evidente spossatezza, con una decisione improvvisa e contraddittoria ho deciso di non trascinarmi a casa ma di spingermi fino in centro per un bel cono. Mia moglie: “Ma come, dicevi di essere distrutto, e invece sei stato venti minuti in motorino sotto il sole” etc. Sì, ma il desiderio di riposarmi non era in contraddizione reale con quello di gustare un gelato. Questo insulso aneddoto personale introduce un tema meno insignificante a proposito di contraddizioni apparenti ma non reali. Chi fa il nostro mestiere deve essere consapevole che quasi ogni vino ha lati insondabili e soprattutto indescrivibili a parole. Che restituirne senza residui o approssimazioni la personalità, il carattere, o ciò che idealisticamente si chiamerebbe l’essenza, è impossibile. I critici passano per essere boriosi, pieni di certezze, arroganti, altezzosi, ombrosi, privi di ironia, insofferenti delle opinioni altrui, tromboneschi, sparasentenze; e diversi lo sono davvero. Non tutti però; e per fortuna. Alcuni si sforzano prima di tutto di trovare un linguaggio e dei codici per aiutare il lettore a orientarsi. Gli offrono degli strumenti, non delle verità assolute. Con una apparente contraddizione in termini, noi della guida dell’Espresso ci mettiamo tra i . presuntuosamente non presuntuosi Ho già scritto che noi consideriamo appunto strumenti sia il colpo d’occhio sintetico del punteggio, sia l’approfondimento analitico della descrizione. Il voto non è una sentenza apocalittica data una volta per tutte, il testo descrittivo non è soggettività pura. Pensando ai lettori di una guida – ripeto, pensando ai lettori di una guida, ri-ripeto, pensando ai lettori di una guida – si tratta di due aiuti diversi e complementari per fare una scelta. Ciò che conferma una distanza funzionale da un libro divulgativo, da un saggio, da un articolo, da una monografia storica. Così non c’è contraddizione tra il dare giudizi, analitici o sintetici che siano, in una guida, e il sapere che la qualità più profonda di un vino si può soltanto indicare, far lampeggiare da lontano. Che il giudizio su un produttore o un vino non è e non pretende di essere un dato definitivo e incontestabile. Che insomma esiste un territorio dell’indicibile, prima del quale (molto prima) la critica onesta e modesta deve fermarsi. C’è infatti una capitale differenza tra voler “spiegare tutto” e illustrare, suggerire, offrire un punto di vista critico. “Oggi si vuole spiegare tutto. Ma se si potesse spiegare un quadro non sarebbe più arte. Vuole che le dica quali sono, per me, le due qualità dell’arte? Deve essere indescrivibile e inimitabile… l’opera d’arte deve afferrarti, avvolgerti, trasportarti”. Così Renoir.Togliete arte e mettete vino (o ancora meglio, grande vino), e l’affermazione regge altrettanto bene. O BUROCRATE Il concetto di purezza, scivolosissimo e non di rado fonte di deformazioni drammatiche nella vita dei popoli terrestri, va maneggiato con estrema cautela anche nel mondo del vino. Una cautela difficile da rintracciare tra gli appassionati o tra gli addetti ai lavori, siano essi produttori, enologi, ristoratori, distributori, facitori di fiaschi, giornalisti. Si tratta infatti di un concetto ambiguo e ambivalente. Se è facile coglierne il senso positivo quando si tratta di difendere l’identità di un vino dall’aggressione di forze speculative che mirano a snaturarlo, è molto più dubbio chiamarlo in causa come valore universale e cartina di tornasole di una pretesa autenticità contadina inverso le contaminazioni dell’industria. Il “mondo contadino”, così come lo idealizzano molti enofili e critici , è un’espressione generica e consolatoria che liquida realtà ben più complesse, contraddittorie e frammentate. à la page Prendiamo comunque per buona questa semplificazione e parliamo del mondo contadino come fosse un’entità monolitica. Nel “mondo contadino” “di un tempo” non si davano vigneti “in purezza”, così come non si davano vini in purezza come volontà, come progetto esecutivo; se non, ovviamente, nei casi di chi era tenuto per forza di cose a vinificare un paio di filari spelacchiati della stessa uva. Il principio stesso di taglio – tra vini diversi, di diversa provenienza e di diverse annate – era del tutto pacifico e non oggetto di controversie di sorta. Tali riflessioni, di una banalità quasi umiliante a scriversi, faccio da anni, in un crescendo di irritazione parallelo al crescendo di vincoli e messi in campo sia dal legislatore, sia, più gravemente, dai produttori . distinguo istessi Ne scrivo però solo oggi sulla scia di un’avvilente notizia, della quale non trovo il dispositivo ufficiale (le norme in materia sono da sempre un vanto della nostra abilità italica nelle complicazioni burocratiche) ma che pare confermata. O magari è norma attiva da anni: ma io mi fo un vanto di ignorare le bizzarrie surrealiste della legge patria in materia. Insomma: in forza di nuove disposizioni di legge non sarà più possibile riportare in etichetta un vino come proveniente da due vigneti diversi. Un vignaiolo come Beppe Rinaldi, per esempio, non potrà più fare – o quantomeno etichettare… – il Barolo Brunate-Le Coste. Probabilmente così, secondo il burocrate, farà un Barolo più “puro”. Bravo, o burocrate. IL SONNO NEL BICCHIERE Sabato sera, dopo l’ormai consueto diluvio pomeridiano, sono andato a cena con amici. Per accompagnare un piatto di cozze particolarmente grasse e saporite abbiamo aperto un rosso delizioso, il Frappato 2010 di cos, celebrata firma di quella parte della Sicilia sud-orientale che guarda in lontananza Malta e ancora più remota (ma nemmeno poi tanto; però comunque abbastanza; certo non a portata di mano; del resto il braccio di mare c’è; beh, più che un braccio; insomma così così; diciamo a ragionevole distanza) la costa tunisina. Tale Frappato aveva tutto quello che si cerca o si dovrebbe cercare in un vino isolano: frutto delicatamente surmaturo, calore alcolico presente ma misurato, non straripante, profumi delicati di fiori appassiti (rosa), spezie dell’Oriente (Medio ed Estremo), lievissimo tocco fumé. Ma soprattutto: una bocca in cui a tenere sollevato il sapore non era la freschezza dell’acidità – modesta – quanto la freschezza della nervatura sapida; anzi, proprio salina. Una tenue ma non insignificante dote tannica completava il quadro.Bottiglia finita in mezz’ora. In questi ultimi due decenni mi sono formato una convinzione: rozza e generica quanto si vuole, ma confermata dall’osservazione empirica con una frequenza statistica per me rilevante. Nelle aree viticole meridionali è quasi sempre inutile cercare con le tecniche più moderne di dare al vino profumi di fiori freschi, di frutta fresca, o una freschezza pseudonordica nell’acidità. Peggio che mai, imbottire vini già strutturalmente potenti con masse estrattive che infagottano il palato; peggio del peggio, usare piccoli contenitori lignei che aggiungono toni dolci e ossidativi a vini che hanno già (fatte salve le debite eccezioni) una mollezza, un’indolenza sudista che li fa addormentare nel bicchiere. Per tenere svegli i vini del Mezzogiorno, e di conseguenza noi bevitori, meglio preservare il frutto dall’ossidazione, certo; ma molto meglio preservare e valorizzare – se c’è* – una bella corrente salina: tanto di elementi indolenti, confetturosi, morbidi a controbilanciare il gusto ce n’è quanti se ne vuole. (*) Un noto enologo trentino ci ha confidato tempo fa che si può benissimo dare ai vini una sfumatura di sapore salato (ha a che fare con un residuo di potassio o con altri artifizi enotecnici, non so e non mi interessa): ma questa è un’altra faccenda. PROGETTO INCOMPIUTO Meglio evitare ogni tono nostalgico e basarsi su una sana volontà di progettare. Parlare di Gino Veronelli senza retorica è infatti un esercizio di equilibrismo circense, una lacrimuccia di troppo e immergi subito te stesso e il lettore in un barile di marmellata. Quindi un solo aneddoto, non celebrativo/esornativo ma funzionale. La prima volta che incontrai il raro Gino, fine anni Ottanta, mi capitò di dire subito qualcosa di sensato nella conversazione, come quando ti riesce al primo colpo una ricetta (e le successive settantuno volte no): gli sparai tra capo e collo una citazione gaddiana. Non che ciò sia avvenuto a freddo e senza un minimo di logica associativa. Il dialogo insomma è stato: non “Buonasera, sono Gino.” “Buonasera, felice e onorato di conoscerla, scriveva Gadda così così e così.” Si è invece trattato di seguire la sua linea di pensiero su un progetto che stava accarezzando. Un progetto che Veronelli, a quanto mi risulta, purtroppo non ha mai portato a termine. Il progetto di raccogliere in un volume le più evocative citazioni sul vino della nostra letteratura. Se viceversa qualcosa è arrivato alle stampe, mi scuso per il fatto di ignorarlo, e mi auguro di ricevere notizie dettagliate – magari da parenti, amici, collaboratori – sulla pubblicazione. In quella serata Gino ricordò una frase di Mario Soldati che amava molto: “Un bicchiere d’acqua quando il corpo ha sete è come un bicchiere di vino quando ha sete l’anima. Ecco perché un pasto senza vino mi fa pensare a un bambino incapace di ridere.” Io gli proposi un memorabile passo di Gadda: “Come per un bicchiere di Barolo vecchio si ridestano a un tratto, nelle più amare anime, i sensi della condiscendenza nativa”. Si parlò di altri testi e ci furono altre considerazioni, ma non voglio farla lunga e comunque non ricordo bene ogni passaggio. Mi rivolgo invece a tutti gli editori, del settore e non, e a tutti i colleghi e appassionati di vino: proviamo a portare a termine il nobile progetto veronelliano, sia pure con qualche decennio di ritardo. Si attendono suggerimenti e proposte.