La degustazione: gergo comico e problemi pratici

CILIEGIA MECCANICA

Nello spirito di un blog, questa non è una trattazione sistematica, ma qualche appunto sparso per riflettere. Per un critico enologico che aspiri a non essere giudicato dai lettori più giovani ed entusiasti come ampolloso, lezioso, sorpassato, o peggio comico tout court, il problema più difficile è quello del gergo, e ancora più precisamente degli aggettivi da usare per descrivere un vino. Ovvero, con termine mutuato dall’analisi sensoriale, dei cosiddetti descrittori.

Proprio l’analisi sensoriale, attraverso una mole impressionante di contributi speculativi, si accanisce nel tentare di codificare la miriade di implicazioni teoriche e pratiche del linguaggio specialistico sul vino. Di domare l’emozione, di ingabbiarla in un reticolo di disposizioni, regole, precetti, che servirebbero a rendere affidabile, addirittura “oggettivo”, l’uso delle parole per descrivere un vino. Confesso la mia ammirazione per questo approccio, frutto di studi molto seri. Un approccio che tutti dovrebbero apprezzare, non foss’altro per la diffusione del suo opposto, cioè del pattume che circola impunemente – in rete e nell’editoria tradizionale – sotto l’apparenza di una “critica” enogastronomica attendibile.


Purtroppo, ahinoi, anche una ricerca tanto encomiabile non può esaurire la complessità del linguaggio della degustazione. Che, come tutti i linguaggi, sfugge tra le dita di chi cerca di imbrigliarlo in prontuari per l’uso; per quanti studi statistici e approfondimenti scolastici ci siano alle spalle. In altre parole, anche gli esperti di analisi sensoriale, che si ritengono sopra la mischia degli improvvisatori e dei mestieranti, e anche dei giornalisti specializzati, rappresentano un punto di osservazione. Non l’unico attendibile, né tantomeno l’unico autorizzato a emettere sentenze definitive. La gamma dei differenti esiti va dunque dal rigore dei “sensorialisti” al velleitario disordine degli orecchianti, passando per la disinvoltura dei giornalisti del mestiere.


Non un linguaggio, ma una pluralità di linguaggi, quindi. A complicare le cose, la presenza nei testi cartacei e in quelli on line dell’uso di uno stesso descrittore per indicare aspetti diversi e talvolta addirittura in conflitto tra loro. Per alcuni “strutturato” indica un vino alcolico, per altri, più puntualmente, un vino ricco in estratti. Qualcuno scrive “ridotto” e intende sempre difettoso all’olfatto e al gusto, ma qualcun altro lo ritiene un termine medio intendendo, come in grammatica, suppergiù “neutro”, non connotato secondo la qualità (per esempio, “fortuna” in origine stava per “sorte”, né buona né cattiva), uno stato transitorio che non qualifica né squalifica il vino: molti vini sulle prime ridotti possono infatti in seguito liberarsi delle esitazioni iniziali e apparire del tutto nitidi, sia all’olfatto che al palato. Per alcuni “erbaceo” indica sempre e comunque un difetto, altri possono intenderlo come un descrittore non sempre negativo. Eccetera.


Quello che riesce miracolosamente ad affratellare scuole di degustazione di solito lontane tra loro anche anni luce sono i famosi – anzi famigerati – sentori di “piccoli frutti rossi” e/o di “frutti di bosco”. Mora, ribes, lampone, mirtillo, ciliegia infestano le pagine delle riviste di settore, e costituiscono un escamotage utile per descrivere pressoché ogni vino rosso, italiano, francese o ucraino che sia. Non ce ne libereremo facilmente.


Per un più saggio uso dei descrittori proporrei quindi di abolire le analogie con fiori e frutta, impiegandole solo nei casi in cui un odore di quelle classi non si imponga con violenza come evidentissimo e quasi unico protagonista della scena aromatica. E di concentrarsi invece sull’informare un lettore su elementi meno evocativi ma più utili: scrivere se un vino è corposo o magro, se è acido o morbido, se è poco o molto tannico, se è giovane o evoluto. Con buona pace della riproposizione meccanica dei soliti sentori.