Nelle provincie di SONDRIO, COMO, PAVIA La gran vergogna di scoprire la Valtellina a 62 anni. Perché in treno, se bevo rosso, bevo soltanto il Valtellina di Negri. Chi non è mai stato in Valtellina, ci vada. E ci vada subito, prima che sia troppo tardi. Non perché, qui, il paesaggio sia minacciato da pericoli più gravi e più imminenti di quelli da cui sono ormai minacciati i paesaggi di tutto il resto del mondo. Ma perché si tratta di una bellezza così straordinaria e così incredibilmente intatta, che mi pare difficile possa durare ancora a lungo, e che un caso qualunque, da un giorno all’altro, non la offuschi. Quando penso che sono arrivato a sessantadue anni senza conoscerla e che, molto probabilmente, se non fossi stato punto dallo stimolo di questo viaggio di assaggio alla ricerca di “qualche vino” genuino, sarei ancora vissuto continuando a ignorarla, mi sento invadere dalla vergogna. Conoscevo, è ovvio, i vini della Valtellina. Per antica abitudine, in treno non bevo mai altro. Il Valtellina di Negri, tra tutti i rispettabili rossi offerti dalla Compagnia Internazionale Wagons-Lits, è il solo che sia magro, scivoloso, leggero di corpo, e che, quindi, non soffre, o piuttosto soffre un po’ meno di quelli più corposi e più densi (Barolo, Chianti, ecc.), lo scuotimento continuo cui è sottoposto. Qualche altra volta, in casa di amici o in trattoria, avevo gustato un Sassella, un Grumello, un Inferno. Ma era forse conoscere un vino, berne, così, di tanto in tanto, un bicchiere? Credevo di sì, fino ad oggi, credevo ingenuamente che bastasse. Il soggiorno in Valtellina mi ha aperto gli occhi: un po’ tardi, certo, ma per sempre, e senza più nessuna possibilità di richiuderli. Appena visti i vigneti dell’Etna e del centro della Sicilia, appena gustati quei vini sul luogo, mi sembrò di capire. La verità continuò a balenarmi a Lèttere, a Lusciano, a Montalcino... Ora, dopo essere stato in Valtellina, non ho più dubbi. Riscoperta dei colori dell’infanzia. La bottiglia del Carducci e l’uva retica di Virgilio. Vigneti di “costiera” e vigneti di “òpolo”. Dopo tanto parlar di vino mi permetto un elogio delle mele. La scoperta del Piacere. Il sole violento e bruciante, il vento teso e vivo, le vette delle montagne, la lunga cresta, le pareti alte tutte roccia, più in basso la roccia che sfuma nei vigneti, quali scendenti coraggiosamente in ripidissimi pendii, quali, invece, spezzati e gradinati in terrazze l’una sull’altra, col sostegno di massicci muretti di pietra che seguono serpeggiando ora lo sporgere e ora il rientrare della costiera; più in basso ancora, dove il pendio muore, i villaggi coi loro campanili romanici o barocchi, con le loro case antiche o nuove, con le loro ville sparse e, intorno alle ville, i gruppi cupi dei piccoli parchi di sempreverdi; infine, la pianura geometrica, i filari di salici e di robinie, i frutteti, i prati verdissimi, l’Adda: ecco come appare la parte centrale della Valtellina a chi, venendo dal Sud, passato il ponte dopo Morbegno, guardi, verso sinistra, al lato esposto a sud di quel grande solco diritto, lungo in linea d’aria quasi quaranta chilometri, che va esattamente da ovest a est, e ad est, per ultimo sfondo, ha i ghiacciai dell’Adamello. Non più cieli d’un blu gendarme, non più prati d’un verde bandiera... cantava melanconicamente Corrado Govoni: e noi tutti, ormai, ci eravamo rassegnati a questa negazione fantastica: né certo bastava a correggerla, riaffermando la nostra fede infantile nell’esistenza di quei colori, l’infrequente e procurata occasione di qualche gita di villeggiatura in alta montagna. No: il verde dei prati e il blu del cielo qui in Valtellina sono di casa, quasi fissi e inalterabili, anche all’altitudine relativamente modesta del centro valle, prima e dopo la civilissima città di Sondrio. Esiste una spiegazione scientifica (ecco che l’enologo deve essere geografo e meteorologo) della costanza dei venti che regolarmente spazzano il cielo su questo canyon benedetto di Lombardia. Così accade nel Vallese, in quella parte cioè della Valle del Rodano a sua volta orientata cardinalmente da ovest a est; e anche nel Vallese, infatti, c’è il vino buono. In Valtellina, la costiera del lato nord difende dal rigore delle tramontane. La costiera del lato sud dalle nebbie e dai riflessi umidi della Val Padana. E tu pendevi tralcio tra i retici balzi odorando florindo al murmure de’ fiumi da l’alpe volgenti ceruli in fuga spume d’argento... canta il Carducci nella famosa ode Ma, altro che Carducci: A una bottiglia di Valtellina. ... quo te carmine dicam, Rhaetica? Come inneggerò a te, o uva della Rezia? Le patenti del vino di Valtellina, le troviamo addirittura in Virgilio. E in Plinio, in Strabone, in Leonardo da Vinci. I vigneti, piantati soltanto sulla costiera del lato nord, e cioè esposti a sud, e i filari, rigorosamente perpendicolari alla valle, obbediscono, fino dall’antichità, a una struttura razionale: come i filari del Brunello di Biondi-Santi al Greppo di Montalcino, ricevono, nel migliore dei sistemi possibile, tutto il possibile sole dal mattino alla sera. Quando è più basso e più debole, il sole entra d’infilata nella valle e batte il mattino sui grappoli esposti a est; il pomeriggio, sui grappoli esposti a ovest: durante le ore centrali della giornata, quando è più alto e più forte, supera le creste delle Orobiche, e batte di taglio su tutto il filare. I vigneti della Valtellina si dividono in “costiera” e in “òpolo”. Costiera, sono quelli sul pendio. Òpolo, quelli della pianura. Naturalmente, solo i primi danno uve pregiate. I secondi hanno servito finora a produrre un vinello da tavola, leggerino, per uso locale: in questi ultimi anni vengono regolarmente estirpati, e sostituiti da frutteti. Le mele della Valtellina, un incrocio tra la deliziosa e l’anurca, sono le più squisite che abbia mai provato. D’un rosso cupo e deciso, con la pelle spessa e lucida come cuoio, d’una polpa compatta, freschissima, giustamente acquosa e fragrante, non hanno rivali per chi, dopo cena, desidera continuare “all’infinito” con un Sassella, un Chiuro, un Fracia, un Perla Villa. Pare che la terra per i vigneti che crescono tra muretto e muretto, o tra le rocce della costiera, “l’abbiamo portata su con le gerle, andando a cercare nel fondovalle il terreno più adatto alla coltura delle vigne, misto di silice e argilla”: così scrive Paolo Monelli nel suo Se così è, la qualità eccelsa del vino non si deve al terreno, che sarebbe lo stesso dell’òpolo: ma al calore del sole, delle rocce, delle pietre che sono scaldate dal sole e che cuociono il terreno di riporto. Vero bevitore. In ogni caso, per il terreno o per il sole o per tutti e due, il vino di montagna è il migliore. Nel , il Parini narra la favola della scoperta del Piacere, che gli Dei mandano in terra per variare la sembianza degli uomini, fino allora troppo uguali l’uno all’altro. Il Piacere arriva, desiderato e gustato soltanto dagli eletti. Gli eletti “inventano” il vino. Il vino eletto da questi eletti è proprio il vino di montagna: Mezzogiorno ... allora fu il vin preposto all’onda, e il vin si elesse figlio de’ tralci più riarsi, e posti a più fervido sol, ne’ più sublimi colli dove più zolfo il suolo impingua. A parte lo zolfo, che andrebbe bene per i vini di Sicilia e di Campania, direi che il Parini non potesse non avere in mente i vini della Valtellina. La chimica incapace di strappare al vino i suoi segreti. Sorprendo Paolo Monelli in flagrante delitto di sogno. I vini della Valtellina, se da giovani si distinguono l’uno dall’altro, col tempo tendono ad assomigliarsi: allora è difficile, quasi impossibile riconoscerli anche da parte degli enologi del posto. Varia, naturalmente, la qualità, a seconda della fortuna dell’annata, delle condizioni di conservazione, e della maggiore o minore raffinatezza del produttore; in qualche caso, diciamo, anche a seconda della maggiore o minore onestà: ma in qualche caso soltanto, perché le ditte della Valtellina sono, prese in blocco, tra le più serie d’Italia. Quello che non varia è il tipo. Come definirlo? Ecco, per esempio, i caratteri organolettici del Sassella secondo il Garoglio: “Vino da arrosto di colore rosso rubino vivace, profumo caratteristico, persistente e gradevole, che diventa sempre più fine ed accentuato con l’invecchiamento; sapore caldo, asciutto, leggermente tannico. Grado alcoolico medio: 11,50%.” Salvo il grado alcoolico, più alto per il Grumello, sono esattamente gli stessi caratteri di tutti gli altri vini della Valtellina. Nominiamoli, uno dopo l’altro, almeno i principali, partendo da sotto Sondrio, e risalendo la valle verso est, fino a Tirano: Sassella, dunque; e poi Grumello; Inferno; Ponte, Chiuro e Fracia nel Valgella; Bianzone, Villa di Tirano. Ma a quanti altri vini, anche non della Valtellina, potrebbero esser affibbiati gli stessi, identici caratteri organolettici. Non parliamo, poi, dell’analisi chimica: che ha, sì, una grande importanza negativa, quando, cioè, scopre nel vino sostanze estranee, eterodosse, nocive alla salute; ma che, anche quando è completamente positiva e garantisce un vino chimicamente “perfetto”, non per questo ne garantisce la gradevolezza. Insomma, il sapore del vino è qualcosa che sfugge ad ogni analisi chimico-fisica e ad ogni descrizione di esperti. Una volta, in un articolo che scrissi sul vino di Gattinara, per dare al lettore un’idea del gusto particolarissimo e squisitissimo di certe bottiglie che avevo trovato in una vecchia pasticceria, mi abbandonai a un amalgama evocativo di una quantità di elementi: dai ghiacciai del Monte Rosa visti da Macugnaga alla luce rosea che soffondono gli antichi, bassi portici della via principale di Gattinara, i portici dove, appunto, si affaccia la vetrina della pasticceria. Monelli, per quell’articolo, mi aveva messo in berlina, accusandomi, sia pure amichevolmente ed affettuosamente, di stranezza, vanità, esibizionismo. “Anche il più modesto bevitore sa che il buon vino non si giudica al sogno.” Ora, accade che, per i vini della Valtellina, lo stesso Monelli non esita a contraddirsi e a ricorrere anche lui “al sogno”. “I celebrati vini della Valtellina” dice “mi piacciono forse più di ogni altro rosso e nobile, francese o nostrano, per tanti motivi che, messi tutti insieme, confesso, non fanno una ragione plausibile e convincente”: dopo di che, a sua volta, descrive il paesaggio, evoca luci e ombre, ricordi e melanconie, sensazioni fluttuanti. Un Sassella di cinquant’anni gli riporta il profumo “che stagnava nei salottini chiusi alla luce del giorno delle sfiorite , aliti di cipria e fiato di rose uccise dal caldo del camino”. Concludendo, il vino lo si giudica proprio da questo: che aiuta, nel ricordo o nella speranza, nella riconoscenza o nel desiderio, a sognare. E non si può descrivere il gusto di un vino se non si ricorre in qualche modo al sogno. E siccome il sogno, anche se contiene infiniti elementi universali e logici, ha una struttura individuale e irrazionale, bisogna pure che ciascuno si rassegni a descrivere il gusto di un vino partendo da se stesso, riferendo le proprie sensazioni con assoluta sincerità, e confidando che gli altri, al momento buono, provino sensazioni poi non troppo diverse. dames fin de siècle Il segreto dolore del sciur Carlücio: due generi che non amano il vino. I Tona e i Negri. Le materne trepidazioni di Gian Luigi Bonissolo. Vendemmia della Alta Valtellina. Le ferie di un vecchio milanese. A Tirano, a Villa di Tirano e a Bianzone, il nome della ditta principale è “Tona”: chi fa tutto è Gian Luigi Bonissolo, figlio di Luigi Bonissolo e di Ines Tona, figlia a sua volta di Giovanni Tona, il fondatore (1892) di una delle più antiche aziende vinicole operanti in Valtellina. Bisogna però sapere che un’altra figlia dello stesso Tona sposò a sua volta il figlio di un altro produttore di vino, più giovane e commercialmente più in gamba, il sciur Nino Negri di Chiuro. L’attuale direttore e proprietario della famosa ditta Negri (il sciur Carlücio, come tutti lo chiamano in Valtellina) è dunque “nato nel vino”: e il suo pensiero più acuto è di avere due figlie sposate e sposate benissimo ma due generi non appassionati del vino e non interessati nell’azienda. Il sciur Carlücio sa che “il vino” non si improvvisa: sa che per fare un vino, per creare un tipo di vino pregiato e commerciabile, occorrono almeno due generazioni, e che si tratta di un’arte troppo delicata per poterla trasmettere, senza il rischio che decada, a persone estranee alla famiglia, a tecnici o a imprenditori, onesti e intelligenti quanto si vuole, ma non legati a noi dal “sangue” o da un’amicizia eccezionale, più forte del sangue. Dico “noi” per amore della Valtellina e del Valtellina, immedesimandomi, ormai, nello stesso sciur Carlücio. Nessuno snobismo, dunque, nelle precisazioni genealogiche sui Tona e sui Negri. In Sicilia e in Toscana, abbiamo già visto come il nerbo della produzione vinicola sia in mano agli aristocratici: e già, nel caso del Brunello, abbiamo visto come il vino nobiliti chi se ne occupa. Qui, in Valtellina, abbiamo una riprova. Il vino nobilita chi se ne occupa, perché non basta, a creare la sua eccellenza, la vita di un solo uomo: ce ne vogliono almeno due, di un padre e di un figlio, o di un suocero e di un genero, o forse anche di un maestro e di un allievo, ma di un allievo, allora, umanamente devoto al maestro. Gian Luigi Bonissolo è un devoto del padre e del nonno. Siamo addirittura davanti a tre generazioni “Tona”: e il suo Valtellina Villa, quello del ’61 come quello del ’57, ha non soltanto i crismi della tradizione autentica, ma anche la grazia indicibile e insuperabile della tradizione rispettata. Gian Luigi Bonissolo parla del suo vino quasi tremando, come una madre, che per qualche ragione non abbia niente altro al mondo, parla dell’unico figlio. Ecco, ora ti versa mezzo bicchiere del suo Perla (così lo ha chiamato) e mentre lo sorseggi ti spia, ti scruta, vorrebbe intuire le sensazioni che stai provando, prima ancora di conoscere il tuo giudizio, e prima di ricevere complimenti, che non lo soddisfano mai abbastanza. Gian Luigi Bonissolo è delicato, onesto, introverso, taciturno e timido fino all’esagerazione: per questo, forse, si appoggia al simpaticissimo, loquace, estroverso Sante Santini, commerciante in vini, un romagnolo che vive a Sondrio da tanti anni e che ama e conosce la Valtellina meglio di molti valtellinesi. Le vigne di Bonissolo-Tona sono le più a nord di tutta la zona che abbiamo descritto: le trovi dopo Tresenda, dopo la svolta a nord-est del lungo canyon. Un retrogusto più duro, più magro, più amaro sembra quasi che distingua il Villa dagli altri Valtellina, appena più meridionali; e le sue vigne crescono, a volte, su terreni ancora più impervi e ad un’altitudine ancora maggiore, delle vigne del Chiuro, del Fracia, del Grumello. La vendemmia è faticosa, lenta, difficile. Nonostante l’uso di piccole teleferiche per l’ultima parte del trasporto, e cioè del punto di raccolta in vigna fino ai camion o ai motofurgoncini che attendono sulla strada, ai confini della costiera con l’òpolo, gran parte della fatica del trasporto si fa sempre a spalle, con le vecchie gerle di vimini: e il vero lavoro è “prima”. Tra i frastagli verdegialli dei pampini e il grigio dei muretti, lentamente vediamo ondeggiare o spostarsi macchie di vivacissimi colori: gli scarlatti, i cremisi, gli arancione, i fluorescenti blu dei vendemmiatori e delle vendemmiatrici. Veniamo dalla Sicilia e dalla Toscana, dove i colori della gente che lavora nelle vigne sono il nero, il bianco, il bigio, il bruno, le “terre”. Così, qui, abbiamo un’impressione di strana allegria. È giusto? Certo, una vendemmia fa sempre festa. Ma per il resto ci inganniamo: i colori denunziano il Nord, sono gotici, retici, svizzeri, quelli, insomma, della tradizione locale; e il lavoro, caso mai, è particolarmente più duro e più delicato che non altrove. Perché si vendemmia a poco a poco, cominciando a scegliere, da vigna a vigna e da filare a filare, i grappoli più maturi; poi si torna sul posto a più riprese, e si scelgono gli altri grappoli, man mano che sono maturati. E il buon Bonissolo è lì che sorveglia, su e giù per le precipiti scalette di pietra e per i sentierini: ma deve, fatalmente, fidarsi dell’esperienza e della lealtà, dell’iniziativa e dell’operosità di ciascun individuo. La particolare caratteristica della confezione dei vini di Valtellina sta nel fatto, dice il Garoglio, “che le uve, anche se di prima qualità, sono tutte passate grappolo a grappolo per un’accurata scelta secondo il grado di maturazione, e per la monda degli acini guasti o immaturi che vengono buttati in vini di secondaria qualità. Molte volte si utilizza per i vini da bottiglia solo la parte superiore dei grappoli.” I camion e motofurgoncini portano le uve allo stabilimento, in mezzo ai prati e ai frutteti, alla periferia di Villa di Tirano: sullo sfondo, a poche centinaia di metri, le stesse vigne donde arrivano i carichi. E la vendemmia si conclude in un’atmosfera patriarcale: qualche operaio e qualche operaia, Bonissolo e sua moglie, e il papà della moglie, che è impiegato a Milano in non so quale ufficio, e che tutti gli anni prende le ferie alla fine di ottobre per venire “a dare una mano”. Berretto da ciclista, spolverino nero lungo fino ai piedi, affonda il forcone nei graspi svuotati e via via espulsi dalla pigiadiraspatrice, li alza, li getta in un gran mucchio lì accanto: in questa semplice fatica sembra un uomo felice. Vecchio milanese di quelli di una volta, non ha certo l’aria di uno che gli dispiace il vino! Questa sera avrà il premio del suo utile divertimento! I vigneti degli svizzeri. Il grande impianto refrigeratore del Bernina. Nel Sassorosso di Pelizzatti un sapore di lampone che ricorda il Brunello. A Tirano, il confine con la Svizzera dista un chilometro e mezzo: si passa in una valletta secondaria della Valtellina, la Val di Poschiavo, che sale fino al passo del Bernina e comunica così con l’alta Engadina e con i Grigioni. I rapporti storici, economici, umani della Valtellina con la Svizzera sono sempre stati molto stretti. La Valtellina, dal 1639, fu in potere del cantone dei Grigioni fino al 1799, quando ottenne dal Bonaparte di essere unita alla Repubblica Cisalpina. Ancora oggi, molti svizzeri, approfittando di una legge che li favorisce, sono proprietari di vigneti in Italia, e, pur che questi vigneti non si estendano oltre dieci chilometri dal confine, possono liberamente portare le uve e vinificarle senza tassa dove e come vogliono. Il Veltliner, vino famoso e consumato dovunque nella “Svizzera interna”, non è, molto probabilmente, altro che Valtellina. Ma in passato, e in tutto il secolo scorso, fino verso i primi anni del Novecento, il commercio del vino valtellinese con la Svizzera fu particolarmente intenso. Gran parte del prodotto era esportato nella Confederazione: per la Val di Poschiavo, con le slitte, ogni inverno passava il Bernina. Pare che questa gelata naturale valesse a renderlo poi, per sempre, limpido e chiaro: anticipando, in qualche modo, i nostri più moderni apparecchi di refrigerazione. Non si può, in ogni caso, non evocare la Svizzera quando si fa la conoscenza di Guido Pelizzatti, e di suo figlio Arturo, che conducono un’antichissima azienda appena fuori Sondrio, con i capannoni alla base di quella stupefacente parete di roccia tutta intarsiata di vigne e macchiata di tre immensi “sassi” rossi: da cui il nome del loro Grumello: Sassorosso. Il padre di Pelizzatti faceva il vino, e lo faceva, fin dal 1860, suo nonno: col figlio, dunque, siamo a quattro generazioni : l’optimum, direi. Anche il vino è un optimum. Per il profumo di lampone il Sassorosso si avvicina addirittura al Brunello, se pure ne resta indietro per corpo e per classe. Ma non si può, e non si deve, bere sempre un vino supremo. Classificherei dunque i Valtellina tra i più squisiti vini che possano essere bevuti anche abitualmente, a pasto. dans le métier Alto, robusto, come intagliato in un legno di pregio, il signor Guido campeggia tra le quinte dei suoi lindi, spaziosi, perfetti, modernissimi capannoni, e sul fondale dei suoi vigneti e dei suoi tre sassirossi: si direbbe una scena, una magia, se il calore del sole e la freschezza dell’aria non ci sferzassero ad ammirare lui, lo stabilimento, la montagna, le vigne e il momento della giornata con quella violenza senza pensieri, e con quell’abbandono alla gioia, che solo la realtà della vita può dare. Il signor Guido sorride, bonario, franco, tranquillo: pieno di fede in se stesso, in suo figlio, nella sua famiglia, nel suo lavoro, nel suo destino e, allo stesso tempo, pieno di fede nella “razionalità” di ogni suo atto o pensiero. Che cosa devo dire? Che lo invidio, ecco tutto: e che ho l’impressione di invidiare non un produttore di vino, ma un piccolo scienziato e un piccolo poeta. Ma poi, perché “piccolo”? Chissà se queste distinzioni valgono presso gli Dei! Chissà, a bocce ferme, se non abbia ragione lui. Volendo spiegarmi in qualche modo il profumo di lampone dei suoi vini, profumo così simile a quello non solo del Brunello ma anche di certi Gattinara, Barbaresco, Barolo, Nebbiolo, gli chiedo la composizione delle uve. Mi conferma quanto già sapevo. Il Valtellina, di regola, si compone, per un 75%, di uve raccolte dal vitigno Nebbiolo, e un 25% di uva Pignola, detta così perché i grappoli hanno, appunto, forma di pigna. L’uva Nebbiolo è anche chiamata Ciuvenasca: e non si sa se si tratta di una corruzione dialettale da “Chiavennasca”, uva di Chiavenna, la cittadina sul Mera, pochi chilometri a nord del Pian di Spagna, dove e il Mera e l’Adda sfociano nel Lario, o piuttosto di una trasformazione dell’epiteto “ciù venasca”, ossia “più vinosa”. È chiaro, in ogni caso, che il Sangioveto, o Sangiovese, con cui si fa il Brunello di Montalcino, in Toscana, non può essere un vitigno molto diverso dal Nebbiolo, con cui si fa il Nebbiolo, il Barolo, il Barbaresco, o dallo Spanna, con cui si fa il Gattinara, il Mesolone, il Lessona, il Carema, tanti altri vini del Piemonte, e, infine, dai vigneti con cui si fanno tutti i vini di Borgogna. Quando è che Garoglio ci darà una genealogia dei vitigni del mondo? Solo lui potrebbe riuscire in quest’opera affascinante, che finora gli enologi, a quanto mi consta, non hanno neppure programmato. Il Valtellina sta in botte da tre a quattro anni. Il primo anno, di regola, lo si travasa tre volte; due volte il secondo; e una volta il terzo e il quarto. Dopodiché, lo si filtra e lo si imbottiglia. Nessun filtraggio, mai, prima dell’imbottigliamento. Comincia a essere veramente bevibile, liscio, cioè limpido, passante, profumato, senza durezze, e senza più rischio che “allappi”, solo dopo qualche mese, forse è meglio dire: solo dopo un anno di bottiglia. È bene stappare la bottiglia alcune ore prima di berla, e lasciarla aperta in un ambiente normalmente riscaldato. Se fossi giovane mi offrirei come socio al sciur Carlücio. La cucina valtellinese. Visita a Teglio. La sciura Maria del Vangiùn “tüta incipriada”. Hypocrite sciur Carlücio: mon semblable, mon frère. Ma “il Signore” della Valtellina vitivinicola è, senza dubbio, il sciur Carlücio, il Carlo Negri. La sua vecchia casa, che lui ha restaurato con gusto, è proprio nel centro del paese di Chiuro, e fa un solo corpo con lo stabilimento. Dalle finestre di casa, guardando nel cortile, il sciur Carlücio vede i camioncini che arrivano dalle vigne colmi di ceste, di gerle, di cassette di uva: assiste allo scarico e al peso. Ha cantine di fermentazione e di conservazione lì sotto. L’odore del mosto culla i suoi sogni. Altre cantine ha un po’ dappertutto, nello stesso Chiuro, e nel vicino villaggio di Ponte ne ha un paio, stupende, nei sotterranei di un’antica chiesa e di un convento del secolo XV. A mezza costa, in località Fracia, ha una casa colonica in mezzo ai vigneti che è il punto più meraviglioso di questa meravigliosa vallata. Una casa, una casetta, nella sua semplicità, bella come un capolavoro di architettura arcaica. La prima idea che viene, a un letterato cittadino come me, è di trasformarla in villa, senza, però, cambiare niente di fuori, e, cambiando, all’interno, il meno possibile. “Perché non ci pensa, sciur Carlücio?” E lui ci pensa, forse, ma non si decide. È, ormai, un grosso produttore, un vero e proprio industriale: ossia “quasi” un intellettuale, diviso in due, come tutti gli intellettuali di oggi: la sua attività e la sua nostalgia artigianale non possono, e forse non devono, combinarsi e fondersi. Il suo amore per la tradizione ha qualcosa di letterario e di patetico. Invidio anche lui, ma non lo sento diverso da me: lo sento quasi fratello. Se fossi più giovane, penserei, senza per questo rinunciare a scrivere romanzi o novelle, penserei di scegliere come job, come lavoro, non più il cinema, la televisione, il giornalismo, ma proprio la produzione del vino. Se fossi più giovane, mi offrirei al sciur Carlücio in qualità di socio: potrei, almeno per cominciare, dedicarmi al lancio pubblicitario, alla parte commerciale: sebbene lui abbia dato prova di saperci fare, da sé, meglio di tutti gli altri. Ma così lui non si roderebbe più, all’idea che uno dei suoi generi è medico e l’altro avvocato. E io, che ho tre figli maschi, potrei perfino sperare che almeno uno dei tre mi continui nel vino... Sogni, fantasie, fole: è il vino che le suscita, inevitabilmente. Il sciur Carlücio mi presenta l’intera gamma della cucina valtellinese: senza provare la quale nessuno potrebbe dire di capire davvero questi formidabili vini. E sono i salami freschi del luogo, le salsicce calde; le varie bresaole, di manzo, di cervo, di capriolo, di cavallo; la polenta taragna, di grano saraceno condita col formaggio, il latte, il burro; la polenta secca, sempre di grano nero, e cotta quasi senz’acqua, tutta a grumi, come scottata, quasi un “più grosso” cuscus: qui la chiamano ; le ciambelle schiacciate, croccanti, fragili, di pane di segale, dette ; o i , specialità di Teglio, pasta fatta in casa, di grano saraceno: corte fettuccine condite con verze, cipolla, erbe, formaggio; gli , frittelle sulle quali ci vuole anche un cucchiaio di grappa, oltre tutto il resto, e che si servono come antipasto; il formaggio magro e stagionato della Valtellina, che è il formaggio più gustoso del mondo; infine le mele rosso cupe, le deliziose anurche, di cui ho già parlato. polenta a frìguli pan di sitìl pizzoccheri sciatt Dopo avere assaggiato un po’ di tutto questo, andiamo su, quasi a novecento metri di altitudine, a Teglio, l’antico paese che ha dato il nome alla vallata: Tillium era l’antico nome romano. Visitiamo il Palazzo Besta, del principio del ’500, coi suoi affreschi e le sue decorazioni. E, in vetta al poggio, da cui si domina l’intera vallata da Forcola a Tresenda, la medievale “Torre de li beli miri”. Sulla via del ritorno, ci affacciamo a una casetta dove è un forno in funzione, riscaldato con le stipe, e dove due donne stanno lavorando al pan di sitìl. La più anziana è la proprietaria del forno: la sciura Maria del Vangiùn. Si lamenta col sciur Carlücio della visita improvvisa. Si vergogna di essere vista da estranei così imbrattata: sembra sporca, perché la farina di grano saraceno è terrea, bigia, scura. “Ma non fa proprio niente!” dice il Negri. “Non vede come l’è bela insci, tüta incipriada? Per faa dj chj lavùr, bisugna ess inscì.” E poi, volgendosi a me: “Vede, queste erano le parole che diceva sempre mia madre, in simili casi, alle contadine. Sporca? Non è sporca, è il suo lavoro. Come il prete, che per dire Messa, indossa i suoi paramenti. Bisugna ess inscì!” O dolcezze perdute, o memorie, di un mondo che sta per morire! Quell’ mi fa pensare non alla Bela Gigugìn, ma addirittura al Parini! incipriada Caro sciur Carlücio, bifronte custode di un tempio ormai profanato dagli altri e da te stesso, come ti somiglio. Come ti somiglio, anche se, di solito, non lo ammetto. Mie scuse agli altri vini lombardi e loro elenco. Il vino antipillola del Porta. Un elegante problema di storia enologica: l’introduzione del Pinot in Lombardia. Il mistero del Burgugnin. Avevo avvertito, che non sarei stato, e che in nessun caso avrei potuto essere, sistematico ed esauriente. Il mio viaggio alla ricerca di “qualche vino” genuino si svolge come avevo previsto. Da mesi fuori casa, e costretto per ora a trascurare le Puglie, il Lazio, la Liguria, la Sardegna, Marche e Umbria, Emilia e Romagna, Friuli e Venezia Giulia, Abruzzi e Molise, Lucania, Calabria. Se avessi voluto assaggiare “qualche vino” in ciascuna di queste regioni, sarei ancora in viaggio! e poiché nelle sei che ho visitato, non rinunciavo mai a, vino per vino, vedere veramente come stavano le cose in concreto, sono stato costretto ad assaggiare, qua e là, come capitava, disordinatamente: o piuttosto secondo un ordine segreto, e a me stesso ignoto, che seguiva il capriccio degli incontri e la suggestione dei ricordi. Per quanto riguarda la Lombardia, l’imponenza e l’eccellenza del complesso enologico valtellinese mi ha obbligato a un sacrificio ancora più grave: dovrò rinunciare a parlare degli altri due complessi enologici lombardi appena meno importanti: i vini del Bresciano e i vini dell’Oltrepò Pavese. Dirò, del Bresciano, alcuni nomi: il Retico, il Cellatica, il Gussago, il Botticino, il Moniga e il Chiaretto del Garda, e in genere tutti i vini della Riviera del Garda e quelli detti della Franciacorta, che sono prodotti nelle colline a sud del lago d’Iseo, con uve 80% un misto di Barbera, Berzamino o Barzamino nostrano, Sangiovese; e 20% un misto di Malvasia e Vernaccia Bianca. Dell’Oltrepò Pavese, i nomi sono innumerevoli. Mi limiterò a ricordare le due categorie più importanti: i rossi, che generalmente sono ricavati dalla spremitura di uve Croatina, Barbera, Bonarda, Ughetta, Maradella; e i bianchi, che originariamente erano fatti con Trebbiano, Cortese e adesso, invece, sfruttano sempre di più il Pinot. I rossi, di regola, sono densi, spessi, spumosi, quasi dolci al primo assaggio, ma poi rivelatori di un fondo gradevolmente amarognolo che, sul posto, chiamano “ammandorlato” o “mandorlato”. Uno di questi vini è il Barbacarlo, un altro il Sangue di Giuda, un altro ancora il Buttafuoco. E non dev’essere molto diverso il famoso San Colombano, prodotto sulle colline di San Colombano al Lambro, in provincia di Milano, e di Miradolo Terme, in provincia di Pavia. Lo si beve nella scodella da latte: vi lascia sopra un velo violaceo e vischioso, che fa parte del suo fascino semplice e brutale. Non c’è dubbio che il Porta, nel , quando attacca: “Varda chi, varda sta scümma,” volesse riferirsi a un vino di questo tipo, e non, come forse può sembrare da una prima lettura frettolosa, al Gattinara di cui alla strofa precedente: a meno che... A meno che il Gattinara del 1810 fosse molto diverso dal Gattinara come noi lo conosciamo e ricordiamo, e similissimo, invece, a queste odierne Barbere dell’Oltrepò. Oppure, a meno che il Porta non fosse, come tecnico di vini, altrettanto preciso e raffinato che come poeta. Preferisco la prima ipotesi che salva tutto: l’elogio del Gattinara si conclude, alla strofa precedente, con una definizione molto precisa, se non dei caratteri organolettici, almeno della classe, della qualità eccelsa: Brindes de Meneghin all’Ostaria Quest l’è un vin, l’è un vin de sciur, Ch’el pò vess bevüu magara Anch dal primm Imperadur. E nella strofa seguente si passa a , vino grossolano e violento che, addirittura, si contrappone al Gattinara: tutt’altro vino Varda chi, varda sta scümma sanguanon! cume la sfümma: la cur via dal biccèr a saltand, cume van via dal palpee brüsaa i lughèr. Quest le un vin che mett legria; l’è un poo gross, ma fà nagott; l’è olter tant püssee gustùs, pü mustùs, - pü sustanziùs; l’è un bun pader de mas’ciott. Il vino antipillola, insomma! Ma ecco, proprio nella straordinaria esattezza di questi fervidi versi del Porta, abbiamo la prova definitiva di quello che dicevo: per descrivere davvero un vino è indispensabile essere poeta, o almeno “tendere alla poesia”. Guarda qui, guarda sta schiuma sanguanon! come la sfuma: scorre, salta dal bicchiere come fanno le faville della carta quando brucia. Questo è un vino che mette allegria: è un po’ grosso, non importa; è altrettanto più gustoso, più mostoso, sostanzioso; è un buon padre di maschietti. Altro problema, altra questione elegante, che sottopongo agli esperti di enologia, o, piuttosto, di storia enologica, riguarda la data in cui, nell’Oltrepò Pavese, si cominciarono a piantare i vitigni del Borgogna Bianco, ossia del Pinot, importandoli dalla Francia. Nell’elenco dei vini pavesi che dà il Garoglio (pp. 321-324, Sansoni Edizioni Scientifiche, 1953) trovo che il Pinot non è neanche nominato. Del resto, mi ricordo che nel 1957 il signor Odero, nella sua villa di Casteggio, mi parlava della messa a dimora dei vitigni Pinot con un tono che faceva pensare a Seguitando la tradizione del Ballabio padre, il Ballabio figlio, attuale proprietario e direttore dell’azienda omonima, è il più raffinato produttore di quel Bianco Secco dell’Oltrepò che ha per base le uve di Pinot. E il trittico delle specialità Ballabio (lo spumante Pinot, il Clastidium, il Clastidio) costituisce, nel suo insieme, quanto di meglio si sia finora prodotto in Italia in fatto di È inteso che mi riferisco a quella categoria piuttosto ristretta di vini “artigianali e famigliari” come produzione ma, al tempo stesso, abbastanza “industriali” come organizzazione commerciale da garantire una certa continuità nel tipo e nel gusto. Quello, insomma, che si dice: una ditta piccola e seria. un’invenzione piuttosto recente. bianchi secchi. A che data possiamo far risalire l’impianto dei vitigni Pinot in Lombardia? Un altro vino celebrato dal Porta è il Bianco di Montevecchia, in Brianza, a pochi chilometri da Monza. Siamo in provincia di Como; ma non troviamo, forse, altre vigne più vicine a Milano. Dico vigne di una certa estensione. Forse a San Colombano al Lambro? Forse a Miradolo? Misurato sulla carta, in linea d’aria. Montevecchia dista dalla Madonnina 24 chilometri; San Colombano 40. Credevo, in buona fede, che il Montevecchia non esistesse più, a parte le poche bottiglie che il sciur Giuseppe Vittadini, nobile erede degli Archinto e dei Panigarola, ricavava ogni anno dai vigneti intorno al giardino e alla vecchia villa, dominatori del paese. È tra le più belle posizioni di tutta la Brianza: uno spalto altissimo, un balcone che si erge, fuori dalle nebbie, e si affaccia diritto a sud: nelle giornate di vento, si vede, dalla Cisa al Monte Rosa. Mi ricordavo di Vittadini anche per il coup de foudre che avevo avuto con Sos, un pastore bergamasco che era di guardia alla villa, il cane più bello e più buono che ho conosciuto in vita mia. Ho telefonato, dunque, al sciur Vittadini: e ho appreso che Sos è morto, vecchio di tredici anni, soltanto qualche mese fa. Adesso c’è Isca, una sua nipote o cugina. È molto simpatica anche lei, ma non da mettere a confronto con Sos: forse Isca è ancora troppo giovane, si farà. Ma il vino è identico: uno champagne nature di prim’ordine. Adesso chiedo (dieci anni fa non mi sarei sognato di chiedere) notizia dei vitigni, della composizione delle uve. È un misto di Trebbiano e di Burgugnin, dice il Carletto, custode della villa, delle vigne e delle tradizioni. Burgugnin? E che cos’è questo Burgugnin? Dopo breve inchiesta, trovo che è niente altro se non, appunto, Pinot. La scoperta rimette tutto in discussione. È difficile, infatti, che in questa “enclave”, in questo fossile vitivinicolo che è Montevecchia, ci si sia dati la pena di importare nuovi vitigni. E le rivelazioni continuano: il sciur Vittadini nomina altri due , che, come lui, continuano a produrre il Montevecchia, l’unico vino che potrebbe ambire ragionevolmente a un titolo che sembra assurdo e che non è: “il vino di Milano”. Gli altri due produttori sono il tabaccaio Pasqualino Sala e il Conte Titta Gilberti. Gilberti, naturalmente, non vende. È perfino arduo gustare il suo vino. particolari Litigo con la custode, e scopro il miglior vino da pasto di questo viaggio: realtà quasi romanzesca, è il “vino di Milano”. Alle pendici della collina di Montevecchia, andiamo alla villa dei Gilberti, detta “il Palazzetto”: sotto la villa sono le cantine, dove i mosti di autentico Montevecchia ancora fermentano, e dove ancora si conserva il vino: non solo il bianco, anche un Ma una vecchia “dona de le ciave” non lascia avvicinare: per non rinunciare all’assaggio, ho sfidato la sua ira, ed è andata a finire così: la rabbia che provavo mi ha impedito qualunque giudizio sul vino. rosé. Senonché, il Conte Titta Gilberti, avendo saputo della mia visita ostacolata e tempestosa, mi ha poi mandato da assaggiare il suo vino. È di due qualità: il bianco e il rosato. Tutti e due decisamente secchi. Il bianco, più di corpo e più alcoolico, con un effetto gradevolissimo di frizzantino. Il rosato, più lieve, delicato e armonico: con una gradazione alcoolica appena appena al di sopra di quella prescritta dalla legge per il vino in commercio: tanto, questo non lo è. Gilberti è stato molto generoso: per un paio di mesi, posso dire di avere pasteggiato, con i miei famigliari e con i frequenti ospiti ed amici, più con Montevecchia che con qualsiasi altra qualità di vini che avevo in cantina. Alternavamo, secondo le pietanze, il bianco e il rosato. Il bianco va bevuto moderatamente gelato. Il rosato, invece, soltanto ben fresco: se si può, fresco di cantina, di una cantina fresca, naturalmente. Ma a che pro questi consigli? Come, dove, da chi procurarsi il Montevecchia? Gilberti ne produce in quantità minima: solo per sé e per i suoi. E sono certo che paga con una rinuncia e con un sacrificio personale la generosità che dimostra agli amici e che ha dimostrato anche a me, in quest’occasione. Dopo un paio di mesi, il giudizio che adesso sto per dare sul vino di Montevecchia non è il risultato di un assaggio mio individuale ed eseguito una tantum, ma di prove e riprove collettive, di copiose bevute e di lunghe discussioni. Il Montevecchia, soprattutto il rosato, può essere definito un vino da pasto affascinante: non inferiore, nel suo genere, a nessun altro che ho gustato, da Capo Passero al Dente del Gigante, in questa scorribanda attraverso l’Italia: e, per un pasto normale, a colazione, durante un giorno lavorativo, addirittura insuperabile. Quando penso che si tratta del “vino di Milano”, mi viene da ridere. Come nella favola di quel giovane che parte di casa e gira anni l’intero mondo, alla ricerca di una sposa perfetta: e poi la trova soltanto quando ritorna: la scopre , sulla soglia della casa accanto. Era una bambina, quando lui partì: ecco perché non l’aveva notata. Adesso è addirittura da marito. Occorre aggiungere che sono, di solito, i matrimoni più riusciti? next door Viticolarmente, la posizione geografica di tutta la Brianza è quanto di meglio si possa desiderare. Ripete, su vasta scala, la posizione che ho descritto, di casa Vittadini. Si alza e si affaccia sulla pianura padana, come un immenso spalto tra un ramo e l’altro del lago di Como. Alti monti la difendono dalle tramontane. Le brume e le nebbie, che salgono dalla pianura e dai laghi, la sfiorano fruttuosamente: è chiaro, ormai, che il vino più delicato e più squisito deriva sempre da uve maturate al limite estremo delle condizioni climatiche e geoponiche necessarie alla vite. Un tempo, al tempo del Porta, la Brianza dava un gran vino. Oggi, dal muretto che circonda il giardino Vittadini, basta guardarsi intorno nelle valli e sui dossi, perché il cuore si stringa allo spettacolo dell’abbandono! Quante vigne divelte, quante invase dalla sterpaglia e quante da tempo scomparse e ora appena riconoscibili alle fila vagamente parallele di vecchi pali piegati... Milano, metropoli industriale, ignora di avere alle proprie porte questa miracolosa possibilità. Cerca, paga ed esalta i vini più lontani ed esotici. Non si rende conto che, senza dover superare eccessive difficoltà, e ricavandone uno straordinario profitto anche finanziario, potrebbe riinventare, o inventare, il suo vino. Il “vino di Milano”: perché no? Il Montevecchia Rosato, che raggiunge a malapena la gradazione di alcool complessivo 10°,66%, è prodotto con uve 40% di Schiava Meranese, 40% di Pinot Nero, 20% di Sangiovese: tutti e tre questi vitigni messi a dimora sono della terza epoca, cioè si vendemmiano piuttosto tardi. Si pigiadiraspa; e la prima fermentazione avviene senza graspi e senza bucce: ecco perché, al pari del Teròldego Rosato di Donati (vedi p. 179 e sgg.), il delicato, fascinoso colore salmone chiaro del Montevecchia Rosato è risultato di una lavorazione assolutamente naturale. Cento lire per un’etichetta di Montevecchia. E il Montevecchia dell’altro , il vecchio tabaccaio del paese? Pasqualino Sala, il vino lo fa lui, con le sue mani, e anche lui solo per sé e per i suoi amici; ma ne vende anche un piccolo quantitativo, dal banco della tabaccheria. E lo vende con un procedimento, che non è possibile immaginarne uno più contrario alla mentalità pubblicitaria, alla civiltà dei consumi, a tutto quanto, insomma, è la nostra vita e il nostro mondo. particolare Piccolo, arguto, gibbuto, con un’indomita moschetta in punta al mento, Pasqualino Sala dice: “Ecco una bottiglia di Montevecchia. È senza etichetta. Se la vuole, sono quattrocento lire. Ma se la vuole, uguale, lo stesso identico vino, in una bottiglia con l’etichetta... ecco, guardi, ecco quest’altra bottiglia... allora fa cinquecento lire, perché, sa? l’etichetta costa.” Il vino è degno di questa sublime, anacronistica riserva. Secco, secchissimo, con una punta appena percettibile di frizzantino. Il ricordo dell’uva e il sapore magro del Burgugnin. Mi spiace che il vecchio Moschettiere non disponga di un numero sufficiente di bottiglie! E, nemmeno, consiglio la visita. I primi che capitano avrebbero, forse, ancora la fortuna di trovare qualche cosa. Gli altri, poi, metterebbero in tentazione il Moschettiere... Ma no, di lui sono sicuro, sicurissimo. Sarà l’ultimo a mollare. Il Domasìno e il vino del desiderio. Tra i vini di Lombardia, vorrei ancora parlare di uno: il bianco Domasìno, prodotto in provincia di Como, in alto, a nord, sulla riva destra del lago. Vorrei, ma non posso: perché è un vino che non conosco e perché non sono mai stato a Domàso: ci sono soltanto passato, un paio di volte, in auto, sotto la pioggia, senza fermarmi. Il cuore mi dice che non sarei tradito. Ma intanto mi piace ricordare il Domasìno proprio così: il vino del desiderio, che nessun vino vero potrà mai eguagliare.