Il sorprendente destino enologico del Commodoro Henning Hammargren, che beveva Soave con l’arrosto. Mio litigio con Corrado Piacentini, direttore della Cantina Sociale di Soave. Vorrei avere la penna di Balzac.
“Sebbene il solo vero piacere che io provi nella vita,” sospira un personaggio di Henri de Régnier, “sia il piacere di passeggiare tranquillamente lungo il Tamigi, dall’uno all’altro ponte, sotto la pioggerella, voi siete testimone di come io vi debba ringraziare, caro signore! Voi mi vedete correre furiosamente, in giro per tutta l’Europa, senza poter tornare a Londra, soltanto perché, a Londra, abita anche mia moglie. Ma è proprio per questa ragione che non un grande generale né uomo politico, non un grande scienziato né artista, poeta o musicista, nessun grande uomo, insomma, mi pare degno di ammirazione come colui che, a partire da una certa età, e cioè non troppo tardi, riesce a vivere dove e come vuole, e a fare esattamente quello che più gli piace. Degno di ammirazione perché, per ottenere questo scopo, non basta, no, il genio: occorre una buona dose di fortuna. E gli esseri umani che ci arrivano sono rarissimi: più rari dei geni. Io, per esempio, ne ho conosciuto soltanto uno...”
E anch’io: uno soltanto. È il signor Henning Hammargren, commodoro della Regia Marina Svedese.
Si trovava dunque il Commodoro a Roma, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, come attaché navale all’Ambasciata del suo paese. In non so quale pranzo ufficiale, una sera, con gli antipasti, venne servito del bianco Soave. Ebbene...
Ho già paragonato i vini alle donne. Ebbene, col Soave, il Commodoro ebbe un vero e proprio coup de foudre. Dopo gli antipasti e il consommé furono serviti gli entremets e, con gli entremets, come di regola, un altro vino, un rosso leggero. Il Commodoro lo respinse energicamente. Non sapeva, allora, una parola di italiano. Allungò la sua grossa mano rosea indicando il bicchiere, che aveva davanti e dove c’era ancora un goccio di Soave: “Ancora di questo!” disse col gesto. Fu, poi, il turno degli arrosti; e, di nuovo, ma più energicamente ancora, lui ripeté lo stesso gesto: “Sempre di questo sempre!”
Ed ecco, nella semplice e incantevole storia della vita di Henning Hammargren, entra in gioco la fortuna: quell’elemento del cui aiuto Sir Henry avrebbe avuto bisogno perché la moglie lasciasse Londra e perché lui così, vi potesse tornare. Hammargren assume, per caso un nuovo domestico in prova. Benché italiano, intelligente e servizievole, è onesto e non servile. In breve tempo, il Commodoro gli si affeziona. Lo promuove maestro di casa. E un bel giorno scopre che è nativo di... Soave. Il destino del Commodoro è segnato. Parte con la moglie (non ha figli) per una breve vacanza nella patria del suo caro vino e del suo caro “majordomo”. Trova subito che i colori dello stemma di Verona sono il giallo e il blu: gli stessi che sventolavano a poppa dei cacciatorpediniere da lui comandati, i colori svedesi. Decisamente, il Commodoro è guidato da un istinto infallibile, e continua a essere favorito dalla fortuna. Nel territorio stesso di Soave, c’è una bella proprietà in vendita, Villa Càlcera, tutta coltivata a vigne. Il Commodoro, senza esitare, la acquista. E ora, da più di vent’anni vive qui, con brevi soggiorni a Stoccolma. Vive qui, felice, e coltiva le sue vigne.
E beve il suo vino: così, verrebbe voglia di concludere. Ma sarebbe una conclusione stereotipa. La realtà è sempre più complicata di come la si immagina. No, non beve il suo vino.
Ho già detto che per fare un buon vino, occorrono almeno due generazioni. È un mestiere difficile. Il Commodoro “conferisce le proprie uve” alla Cantina Sociale di Soave. La Cantina Sociale gliele paga, ogni anno, secondo la quantità, al prezzo stabilito, e diffalca da questa somma le bottiglie che lui ritira per il suo uso e consumo. Soave è una delle nostre più antiche cantine sociali ed è uno dei complessi enologici più importanti non solo d’Italia ma d’Europa. Fondata nel 1930 dal dottor Luigi Zannini, ora la dirige Corrado Piacentini.
Per descrivere Piacentini, dovrei avere la penna di Balzac.
Espertissimo enologo, autore di studi originali e di esperienze memorabili, sia in laboratorio sia in cantina, sulla chiarificazione con bentonite di vini bianchi e rossi nella zona di Soave, Piacentini è un uomo che crede fermamente nella possibilità di pianificare, stabilizzare, programmare la produzione del vino, fino a trasformarla, quasi e senza quasi, in un’industria. Si può immaginare che razza di interlocutore, o piuttosto di antagonista, abbia trovato in me: fin dal primo momento, non ho esitato a confessargli la mia incompetenza tecnica, ma ho subito aggiunto che, per giudicare rettamente di vini, può essere utile, e talvolta addirittura indispensabile, saper conservare, malgrado e attraverso lunghe esperienze, lunghi studi enologici e lunga consuetudine colla produzione, quella freschezza di sensazioni e di impressioni che invece non manca mai proprio nei cosiddetti incompetenti, a condizione, naturalmente, che amino davvero il vino. Era, in altre parole, mettere ancora una volta l’accento sulle componenti irrazionali, imponderabili, non analizzabili, non prevedibili, effimere, ma estremamente vitali del vino. Il guaio sta nel fatto che Piacentini suscita un’immediata, istintiva simpatia. Piacciono i suoi modi bruschi e cordiali, il suo discorso chiaro, rapido, sempre diritto a uno scopo, sempre costruito secondo un senso molto preciso. Caddi rapidamente, senza accorgermene, in un tranello, che del resto non mi era stato teso. Trovando Piacentini simpatico, fui con lui troppo sincero. E, in poche battute, il contrasto divampò fragorosamente. Discutevamo a voce alta, negli immensi capannoni di cemento armato, vuoti oramai, e vuoti tutto l’anno salvo il mese della vendemmia. Discutevamo passeggiando tra le pigiadiraspatrici, le refrigeratrici, le travasatrici, le filtranti, macchine immobili, o isolate una qua e l’altra là, o serrate in lunghe file come batterie dell’antiaerea, e alcune specchianti di acciaio inossidabile, altre lucenti di minio: una colossale, al centro del tempio, come la Grosse Bertha. Discutevamo con un crescendo wagneriano, e le nostre voci cozzavano, si accavallavano e tentavano vicendevolmente di superarsi, echeggiate dalle vacuità concave e armoniche delle volte.
La Cantina Sociale di Soave è organizzata in modo perfetto. Vi si possono associare i proprietari delle zone circonvicine, e in grande maggioranza tutti quelli che, come il Commodoro, hanno messo a dimora vitigni di Gargànega e Trebbiano: le due uve bianche che, nella proporzione, rispettivamente, di 70-90% e 30-10%, sono prescritte dal disciplinare di denominazione controllata da pochi giorni in vigore (siamo nel novembre del 1968).