Nelle provincie di VERONA e TRENTO Il sorprendente destino enologico del Commodoro Henning Hammargren, che beveva Soave con l’arrosto. Mio litigio con Corrado Piacentini, direttore della Cantina Sociale di Soave. Vorrei avere la penna di Balzac. “Sebbene il solo vero piacere che io provi nella vita,” sospira un personaggio di Henri de Régnier, “sia il piacere di passeggiare tranquillamente lungo il Tamigi, dall’uno all’altro ponte, sotto la pioggerella, voi siete testimone di come io vi debba ringraziare, caro signore! Voi mi vedete correre furiosamente, in giro per tutta l’Europa, senza poter tornare a Londra, soltanto perché, a Londra, abita anche mia moglie. Ma è proprio per questa ragione che non un grande generale né uomo politico, non un grande scienziato né artista, poeta o musicista, nessun grande uomo, insomma, mi pare degno di ammirazione come colui che, a partire da una certa età, e cioè non troppo tardi, riesce a vivere dove e come vuole, e a fare esattamente quello che più gli piace. Degno di ammirazione perché, per ottenere questo scopo, non basta, no, il genio: occorre una buona dose di fortuna. E gli esseri umani che ci arrivano sono rarissimi: più rari dei geni. Io, per esempio, ne ho conosciuto soltanto uno...” E anch’io: uno soltanto. È il signor Henning Hammargren, commodoro della Regia Marina Svedese. Si trovava dunque il Commodoro a Roma, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, come attaché navale all’Ambasciata del suo paese. In non so quale pranzo ufficiale, una sera, con gli antipasti, venne servito del bianco Soave. Ebbene... Ho già paragonato i vini alle donne. Ebbene, col Soave, il Commodoro ebbe un vero e proprio coup de foudre. Dopo gli antipasti e il consommé furono serviti gli e, con gli , come di regola, un altro vino, un rosso leggero. Il Commodoro lo respinse energicamente. Non sapeva, allora, una parola di italiano. Allungò la sua grossa mano rosea indicando il bicchiere, che aveva davanti e dove c’era ancora un goccio di Soave: “Ancora di questo!” disse col gesto. Fu, poi, il turno degli arrosti; e, di nuovo, ma più energicamente ancora, lui ripeté lo stesso gesto: “Sempre di questo sempre!” entremets entremets Ed ecco, nella semplice e incantevole storia della vita di Henning Hammargren, entra in gioco la fortuna: quell’elemento del cui aiuto Sir Henry avrebbe avuto bisogno perché la moglie lasciasse Londra e perché lui così, vi potesse tornare. Hammargren assume, per caso un nuovo domestico in prova. Benché italiano, intelligente e servizievole, è onesto e non servile. In breve tempo, il Commodoro gli si affeziona. Lo promuove maestro di casa. E un bel giorno scopre che è nativo di... Soave. Il destino del Commodoro è segnato. Parte con la moglie (non ha figli) per una breve vacanza nella patria del suo caro vino e del suo caro “majordomo”. Trova subito che i colori dello stemma di Verona sono il giallo e il blu: gli stessi che sventolavano a poppa dei cacciatorpediniere da lui comandati, i colori svedesi. Decisamente, il Commodoro è guidato da un istinto infallibile, e continua a essere favorito dalla fortuna. Nel territorio stesso di Soave, c’è una bella proprietà in vendita, Villa Càlcera, tutta coltivata a vigne. Il Commodoro, senza esitare, la acquista. E ora, da più di vent’anni vive qui, con brevi soggiorni a Stoccolma. Vive qui, felice, e coltiva le sue vigne. E beve il suo vino: così, verrebbe voglia di concludere. Ma sarebbe una conclusione stereotipa. La realtà è sempre più complicata di come la si immagina. No, non beve il suo vino. Ho già detto che per fare un buon vino, occorrono almeno due generazioni. È un mestiere difficile. Il Commodoro “conferisce le proprie uve” alla Cantina Sociale di Soave. La Cantina Sociale gliele paga, ogni anno, secondo la quantità, al prezzo stabilito, e diffalca da questa somma le bottiglie che lui ritira per il suo uso e consumo. Soave è una delle nostre più antiche cantine sociali ed è uno dei complessi enologici più importanti non solo d’Italia ma d’Europa. Fondata nel 1930 dal dottor Luigi Zannini, ora la dirige Corrado Piacentini. Per descrivere Piacentini, dovrei avere la penna di Balzac. Espertissimo enologo, autore di studi originali e di esperienze memorabili, sia in laboratorio sia in cantina, sulla chiarificazione con bentonite di vini bianchi e rossi nella zona di Soave, Piacentini è un uomo che crede fermamente nella possibilità di pianificare, stabilizzare, programmare la produzione del vino, fino a trasformarla, quasi e senza quasi, in un’industria. Si può immaginare che razza di interlocutore, o piuttosto di antagonista, abbia trovato in me: fin dal primo momento, non ho esitato a confessargli la mia incompetenza tecnica, ma ho subito aggiunto che, per giudicare rettamente di vini, può essere utile, e talvolta addirittura indispensabile, saper conservare, malgrado e attraverso lunghe esperienze, lunghi studi enologici e lunga consuetudine colla produzione, quella freschezza di sensazioni e di impressioni che invece non manca mai proprio nei cosiddetti incompetenti, a condizione, naturalmente, che amino davvero il vino. Era, in altre parole, mettere ancora una volta l’accento sulle componenti irrazionali, imponderabili, non analizzabili, non prevedibili, effimere, ma estremamente vitali del vino. Il guaio sta nel fatto che Piacentini suscita un’immediata, istintiva simpatia. Piacciono i suoi modi bruschi e cordiali, il suo discorso chiaro, rapido, sempre diritto a uno scopo, sempre costruito secondo un senso molto preciso. Caddi rapidamente, senza accorgermene, in un tranello, che del resto non mi era stato teso. Trovando Piacentini simpatico, fui con lui troppo sincero. E, in poche battute, il contrasto divampò fragorosamente. Discutevamo a voce alta, negli immensi capannoni di cemento armato, vuoti oramai, e vuoti tutto l’anno salvo il mese della vendemmia. Discutevamo passeggiando tra le pigiadiraspatrici, le refrigeratrici, le travasatrici, le filtranti, macchine immobili, o isolate una qua e l’altra là, o serrate in lunghe file come batterie dell’antiaerea, e alcune specchianti di acciaio inossidabile, altre lucenti di minio: una colossale, al centro del tempio, come la Grosse Bertha. Discutevamo con un crescendo wagneriano, e le nostre voci cozzavano, si accavallavano e tentavano vicendevolmente di superarsi, echeggiate dalle vacuità concave e armoniche delle volte. La Cantina Sociale di Soave è organizzata in modo perfetto. Vi si possono associare i proprietari delle zone circonvicine, e in grande maggioranza tutti quelli che, come il Commodoro, hanno messo a dimora vitigni di Gargànega e Trebbiano: le due uve bianche che, nella proporzione, rispettivamente, di 70-90% e 30-10%, sono prescritte dal disciplinare di denominazione controllata da pochi giorni in vigore (siamo nel novembre del 1968). Piacentini mi mostra i suoi enodotti. Una protesta romantica. Piacentini afferma che gli sto distruggendo la vita. I veri marinai non prendono bagni di mare. A differenza di altre cantine sociali, dove accade che i soci tengono per sé le uve migliori o, peggio, le vendono alle ditte più ricche, e cioè a chi, anno per anno, le paga meglio, e poi cedono alla locale cantina sociale solo gli scarti, a Soave i cinquecento e più viticoltori associati sono, per statuto, “Questo significa che la qualità finale del nostro prodotto, categoria per categoria, è di primissima classe!” esclama. Irresistibilmente, come un Nibelungo che illustri al candido visitatore la propria fucina magica e sconfinata. Piacentini passa con me in rivista le schiere delle macchine immobili; e le accarezza con lo sguardo che le immagina mentre lente e veloci pigiano, schiacciano, emettono il succo, frullano fuori i graspi; oppure si ferma, e fissa nel vuoto, davanti a sé, il piazzale dove ogni sera, a metà ottobre, arrivano rombando centinaia di camion carichi d’uva. “Vede,” mi dice con fierezza “in soli quindici, venti minuti al massimo, dal momento che l’uva entra in quel cortile, io ho già il mosto a un chilometro da qui, nelle vasche dove viene pompato dagli enodotti.” obbligati al conferimento totale delle uve. “Come il petrolio, insomma.” “Non esattamente, dottor Soldati! L’enodotto è solo per la rapidità; meno stanno le uve all’aria, e meno si contaminano; salvo, naturalmente, nella produzione di certi tipi di vini, quando invece devono stare all’aria, ma in determinate condizioni. E questa, guardi, è la prima macchina: dove è pigiata l’uva migliore di tutte le altre, e da cui esce il fiore del fiore, il succo che farà il Soave più squisito.” Piacentini mi descrive l’intero ciclo della produzione, e mi enumera uno dopo l’altro tutti i sottoprodotti del vino. È un elenco incredibile, che per me ha addirittura qualche cosa di mostruoso: oltre vari tipi di vini, di pregio decrescente, e vari tipi di mosti, che servono, introdotti in speciali apparecchi, ad aumentare la gradazione di vini troppo deboli, ecco le grappe, ecco gli alcool, e poi i combustibili, i detersivi, i fertilizzanti, gli isolatori acustici... Capisco la razionalità economica di tutte queste invenzioni. Tuttavia, non so resistere alla tentazione di una protesta romantica. Do un’occhiata intorno, ai macchinari giganteschi e sinistramente inoperosi, e dico: Va bene, va bene. Piacentini. Ma non le pare che tutto ciò sia sproporzionato? Il vino è così poco, è quasi niente, in paragone con l’enormità di quanto lo circonda e lo trasforma. A me, scusi, sa? a me sembra che, un piccolo sforzo in più, un piccolo passo avanti, e lei, allo stesso modo degli stabilimenti tessili che un bel giorno non hanno più avuto bisogno della lana né del cotone per fabbricare stoffe, lei non avrà più bisogno dell’uva per fare il vino!” Un urlo è la risposta: “Non mi dica questo, dottor Soldati! Lei mi sta ammazzando, lei sta distruggendo la mia vita, la mia opera, tutto quello in cui ho sempre creduto di più! Ma non capisce che tutte queste enormi attrezzature sono così enormi e così... come dice lei, sproporzionate, appunto perché io devo combattere con la natura, con l’uva, che non è una materia prima che sia tutto l’anno a disposizione come, mettiamo, il ferro o il petrolio, ma che segue il ritmo delle stagioni, e matura una volta sola all’anno, almeno alle nostre latitudini, e bisogna lavorarla nel più breve tempo possibile? Non capisce che stabilimenti e macchinari di queste dimensioni e di questa modernità sono costosissimi appunto perché lavorano un solo mese in tutto l’anno, e che il problema è di sfruttarli al massimo, e di vendere la materia dei sottoprodotti, appunto per far quadrare il bilancio? Magari, fosse possibile come dice lei! Magari, si potesse ottenere il vino, lo stesso vino, senza bisogno dell’uva! Ma no, noi siamo legati a questa dura necessità.” E, improvvisamente, capisco. Il vero Commodoro è Piacentini stesso. Ma sì. Lui ha, coll’uva e col vino, l’identico rapporto di odio-amore che hanno col mare gli autentici marinai. Eh sì, chi vive navigando e facendo della navigazione il proprio mestiere e traendone il proprio guadagno, ama il mare, naturalmente, perché il mare è la sua vita: ma, allo stesso tempo, dovendolo dominare razionalmente, dovendolo combattere, avendo a che fare con lui tutto il tempo, sa benissimo che “brutta bestia” sia, il mare, e perciò, anche, lo teme, lo disprezza e lo odia. Quasi tutti i veri navigatori che ho conosciuto, specialmente quelli che erano arrivati ai più alti posti di comando, spingevano questo odio al punto di non avere mai, in tutta la vita, preso un bagno di mare: qualcuno, addirittura, non sapeva neanche nuotare: avrebbe sdegnato. Il match tra Piacentini e il vino, isolati dal resto del mondo. Un amore sospettoso e pieno di disprezzo. “Mi dia una bottiglia di vino stabile.” La refrigerazione e il filtraggio. Quando un bicchier d’acqua è preferibile a un Romanée-Conti. Progetto un viaggio-inchiesta alla ricerca dell’acqua genuina. Così Corrado Piacentini. Basta vederlo, osservarlo attentamente quando “assaggia”. Scruta il vino controluce, aggrotta le ciglia. Lo fa ruotare nel bicchiere. E poi lo scruta di nuovo: e controluce, e di traverso, e obliquamente, e appena a sfiorarne, con la direzione degli sguardi, la superficie. Dubita del colore, del brillio, della trasparenza. Comincia adesso a difendersi dalle insidie eventuali. Si prepara ad accusare. Ora fiuta. Un’altra volta, in altro modo, più vivacemente, fa ruotare il vino nel bicchiere, e fiuta di nuovo. Si allontana col bicchiere in mano, di qualche passo, adagio, nell’ombra, verso un cantone. Curva le massicce spalle, si isola dal resto del mondo, si raccoglie tutto intorno all’odore del vino. Il vino si conosce, dice, soprattutto all’odore. Non vi dirò, dunque, cosa fa Piacentini quando finalmente si decide ad assaggiare. Ma questa radicale “opposizione” al vino, questa smorfia di disprezzo, di allontanamento, di aborrimento, è, senza dubbio alcuno, il segno che il vino per lui non ha misteri, non è un elemento letterario, non è un’immagine o un sogno come invece è per me e per la grandissima maggioranza di tutti gli esseri umani: no, lui, il vino, lo capisce fino in fondo. E il solo guaio è proprio questo: lui capisce troppo bene il vino, e : e deduce così, da tale doppia consapevolezza, un pessimismo senza rimedio sulla possibilità di il vino al consumatore. Non che, come conclusione, si dedica all’inganno: non sarebbe l’onesto e appassionato tecnico che è; ma al silenzio, sì, e così al rassegnato abbandono alla moda, o alla corriva abitudine di considerare il cliente come colui che ha sempre ragione. capisce troppo bene che il vino è fatto in grandissima parte per quelli che non lo capiscono mai fare capire Spiego a Piacentini che, secondo me, il cliente dovrebbe essere educato. Vediamo un esempio. È il caso più comune, tra tutti i vini italiani. “Perché,” chiedo a Piacentini, “perché il Soave della Cantina Sociale è buono, fresco, leggero, appena appena abboccato al primo sorso e poi, subito, asciutto, e va bene con tutti i cibi, quasi sfumando, tanto è leggero, verso un diverso gusto secondo che ogni diversa pietanza è più o meno salata, acida, forte... ma alcuni altri Soave, come altri vini bianchi italiani, che di continuo mi succede di provare da una decina d’anni a questa parte, mi sembrano sempre troppo dolci anche se presentati come secchi, e troppo carichi, leggermente nauseabondi... ma alcuni altri Soave, come altri vini bianchi italiani di antica e provata tradizione: perché questa decadenza improvvisa?” e completo il discorso facendo i nomi delle ditte. Ma Piacentini mi interrompe con violenza: “Non dica così! Non è vero! Sono ditte serissime! Il loro vino è genuino! Lei ha torto, dottor Soldati. Ha torto.” “Eppure, senza pretendere a un solo decimo della competenza che ha lei, le giuro che il palato ce l’ho anch’io. Quei vini non sono più come trenta o quarant’anni or sono. Non sono più veramente secchi. E, per dirgliela tutta, mentre trenta o quarant’anni or sono, al ristorante Libotte, in via Crispi, a Roma, pasteggiavo regolarmente proprio con quei vini, oggi, se non ci fosse altro vino, preferirei pasteggiare con l’acqua del rubinetto, perfino se ha il cloro, come, appunto, quella di Roma. Non è possibile che io sbagli fino a questo punto! Perché, dunque? Sia sincero!” “Per risponderle con certezza, dovrei assaggiare. Può sempre trattarsi non del difetto di un vino; ma di una partita, di una cassa, di una bottiglia, di un tappo...” “Non quando il difetto è riscontrato regolarmente, in diversi locali, e per una durata di anni. Dunque, dica.” “Be’... entro certi limiti, credo di sapere a che cosa lei si riferisce. È un difetto che dipende dal consumatore. Le spiego subito. Il consumatore chiede un vino stabile.” “E cioè? Che cosa vuoi dire stabile?” “Stabile, diciamo noi enologi, stabile...” “Allora siete voi che dite : io non ho mai sentito nessun cliente, in trattoria, dire al cameriere: ‘Mi dia del vino stabile’.” stabile “Non scherzi, dottor Soldati. Il nostro cliente, quello che noi chiamiamo consumatore non è l’avventore di ristorante, ma il rivenditore dall’ingrosso al minuto, il vinaio. Però, è certo: il rivenditore chiede a noi il vino che può vendere. E lui dice proprio Il pubblico dice: limpido, chiaro, pulito, che non si intorbida col passare del tempo, per il freddo o per altre ragioni. Il pubblico, insomma, vuole questo vino, sebbene l’intorbidamento del vino sia un processo tutto naturale, e sia la prova, anzi, della sua genuinità. Sa cosa dice la gente, la grande massa dei consumatori, quando vede un po’ di polveroso in fondo alla bottiglia? ‘Via! Via! Questo è vino fatturato! Non la vede la polverina con cui è fatto?!’ Ora, perché il vino non si intorbidi, esistono due soli metodi. Il primo, iniziale, è adottato anche da noi, che abbiamo uno smercio pronto: e consiste, prima dell’imbottigliamento, nel far passare il vino entro speciali refrigeratrici, sì, quei cilindri di acciaio inossidabile che le hanno fatto orrore... Lì dentro, scendendo la temperatura, i tartrati e altre sostanze contenute nel vino cristallizzano o depositano. Così, poi, il vino può superare l’inverno e anche restare al gelo senza intorbidirsi. Il secondo metodo è attuato, oltre e dopo la refrigerazione, da quelle ditte che dice lei, e che hanno un grande smercio in tutto il mondo, anche a distanza di tempo. Perché la refrigerazione, in questo caso, non basta. Dopo qualche tempo, per altre ragioni, e in altri modi, il vino ricomincia a fermentare, a fare deposito. L’unico rimedio è, allora, non venderlo se non dopo un invecchiamento di alcuni anni, durante i quali è regolarmente filtrato e travasato a regola d’arte: in modo che, quando è finalmente messo in vendita, sia davvero .” stabile. stabile “Sì, ma la spiegazione di quel gusto rovinosamente e snaturatamente dolce?” “Non dica così. È un po’ più abboccato e basta. Si tratta di quell’inevitabile inizio di maderizzazione che noi chiamiamo e che non può non prodursi quando si fa invecchiare certi particolari vini, che invece dovrebbero essere bevuti presto.” marcatura “Ah, ma allora ho ragione io! Il vostro torto, di voi tutti enotecnici di grandi stabilimenti, è, in fondo, soltanto un grande sbaglio di calcolo nell’investire una parte del vostro capitale. Nei vostri bilanci, gli apparecchi di refrigerazione e le annate che passano con l’invecchiamento assommeranno a una bella cifra, no? Ebbene, risparmiate quei denari, e spendetene la metà in una speciale pubblicità educativa, fatta consorzialmente da tutti quanti i produttori di vino. Questa pubblicità capovolgerebbe tutto. Uno slogan tambureggiante: diffidate del vino limpido! Insomma, si tratta di insegnare al pubblico che il vino vero, genuino, buono, può anche fare depositi. E insegnare che certi vini devono essere bevuti tardi, dopo quattro, cinque, sei, dieci anni dopo la vinificazione; ma certi altri, invece, dopo un anno, due, al massimo tre. E insegnare che la natura del vino, creatura vivente, è di variare di anno in anno, di partita in partita, di bottiglia in bottiglia, anche secondo come è stato trasportato, e secondo dove il cliente stesso lo ha conservato, eccetera eccetera. Perché significa non soltanto immune da sedimenti, ma sempre eguale a se medesimo. Niente di più assurdo. Non ha mai pensato che, se il vino non cambia, cambia però il gusto del consumatore? Ammetterà questo, no? Noi possiamo cambiare e cambiamo, tutto il tempo. Che cosa serve, allora, che il vino sia di anno in anno (cosa del resto molto difficile, o forse impossibile) sempre il medesimo, quando, frattanto, è cambiato il gusto di chi lo beve? Mi pare che, addirittura, ci sia più probabilità di incontrare il gusto del consumatore proprio cambiando: e andandogli incontro, di volta in volta, per caso. Càpita, infatti, qualche volta, che un bevitore di vino voglia bere un bel bicchiere d’acqua. Perché? Non può? E le dirò di più. Càpita anche che questo bicchier d’acqua, bevuto quando si ha sete, sia preferibile a un bicchiere di Romanée-Conti. Senza contare che un vero bicchier d’acqua è, ormai, più difficile da trovare e più costoso di un bicchiere di qualunque vino pregiato. Non è acqua, più, quella che beviamo nelle nostre città. E a Mosca, e a Londra, l’acqua potabile non esiste più. Solo bottigliette di acqua minerale. Non mi dirà che è acqua. L’acqua vera si trova, ormai, soltanto in montagna, e ancora: bisogna salire su, in certi valloni alti, solitari, remoti dalla civiltà e da qualunque impianto industriale. Farò, la prossima volta, un viaggio d’inchiesta alla ricerca dell’acqua genuina. Voglio un po’ vedere, allora, che cosa troveranno da ridire, i sostenitori della pianificazione totale, come lei!” stabile Faccio la pace con Piacentini. Elogio del vino di botte. Quando l’enologo diventa uomo. Piacentini ride, e facciamo la pace. Passiamo la sera insieme. Ma prima di salutarlo, accade un piccolo episodio che finisce di rivelarmi il personaggio. Accade che assaggiamo un certo vino, non dirò quale, spillandolo dalla botte. Vedo Piacentini che si trasforma, e che, parlando del in generale, si entusiasma. La penso, l’ho sempre pensata come lui. Per la birra, è sfondare una porta aperta: l’unica birra veramente buona è quella alla spina. Così per il resinato greco. Ma anche per i nostri vini. A parità di condizioni e di qualità, il vino della botte sarà sempre superiore a quello della bottiglia. È un criterio terribilmente anticommerciale. Perché la botte comporta un grosso guaio: incignata, bisogna o ricolmarla con una quantità dello stesso vino identica a quella che ne è stata prelevata, oppure bisogna berla tutta di seguito, prima che il contatto con l’aria non guasti il vino. Ma la suprema eccellenza del vino di botte è un’ultima prova, se ce ne fosse bisogno, del carattere vivo, animalesco del vino. Si pensa al gusto della carne dei vitelli che pascolano liberamente, in confronto al gusto della carne dei vitelli chiusi ininterrottamente e crudelmente nelle stalle. La bottiglia, dunque, per certi vini, può anche significare una morte: per altri, una vita minore, una vita chiusa e raffinata e specialissima. L’amatore esclusivo di vino in bottiglia ha in qualche modo del gerontomane. Piacentini non è certo tale. Il suo amore per il vino di botte non è che la spia del suo amore per la giovinezza, e della sua giovinezza morale: perché è un amore assurdo, per un produttore di vino. L’ho paragonato a un marinaio. Adesso lo paragono a un chirurgo, che visita donne magari bellissime, e resta assolutamente indifferente, e forse addirittura le odia, quasi identificandole con i corpi che contengono quei mali che lui si appresta ad estirpare. Ciò non toglie che, talvolta, il chirurgo incontri una donna sana, che gli piace, oppure anche una donna malata, ma che, per lui, in quel momento, è qualche cosa di più che una paziente. Anche il celebre chirurgo, in quei casi, è uomo. E così, anche il più esperto enologo, qualche volta, ama il vino: e, allora, è un uomo anche lui. vino di botte La vana ricerca del Valpolicella di Hemingway. Da Hemingway risalgo a Betteloni. Una vigna per non fare l’impiegato. Oltre il Soave, un altro famoso vino della zona veronese è il Valpolicella. Anche questo vino ha subito le conseguenze di un’eccessiva celebrità. Non eccessiva rispetto ai suoi pregi, ma rispetto ai quantitativi che, in tutto il mondo, ne sono richiesti, e non possono in nessun modo venir soddisfatti se non con l’aggiunta di altri vini. Adesso coi disciplinari messi in vigore uno dopo l’altro, questi , oltre il 15%, non saranno più possibili, almeno sulle bottiglie fregiate della denominazione controllata. Ma sono stati possibili fino a ieri. Quale statistica potrà calcolare l’inflazione provocata da Hemingway con il suo ultimo romanzo , dove, ogni due pagine, viene scolata una bottiglia di Valpolicella? E quale Valpolicella, esattamente, beveva Hemingway nella sua stanza a Venezia? Qualche cameriere, al Gritti, dovrebbe ricordarselo. Ma il Gritti di questa stagione è chiuso; e ho pensato che la ricerca, in tali condizioni, diventava troppo complicata. Sono dunque andato sui colli della Valpolicella vedendo se mi riusciva di rintracciare non “quel vino” (ormai, dopo più di vent’anni, non sarebbe nemmeno più buono) ma “quel gusto”; leggero, scivoloso, passante, appena appena abboccato, appena appena amarognolo, che Hemingway descrive così bene e che, ancora meglio, lascia indovinare per la straordinaria quantità che il suo personaggio (ma in realtà lui stesso, identificandosi nel personaggio) ne beve, e per la facilità di berne a tutte le ore, giorno e notte, sera e mattina, anche presto, a letto, appena sveglio. tagli Across the river and beyond the trees Sono stato in tanti posti, ho provato scrupolosamente tanti vini, incominciando dai più famosi, e finendo con quelli più umili e paesani. Mi pare che, a un certo momento, Hemingway parli anche di una damigianetta che gli era stata regalata privatamente: poteva, quindi, trattarsi, oltre che del vino dell’Hotel Gritti, di qualche vino artigianale. È appena necessario che aggiunga che non ho più trovato niente che assomigli, neanche da lontano, al Valpolicella di Hemingway. Non pretendo di avere assaggiati “tutti” i Valpolicella. Sono centinaia. Ne avrò assaggiato una dozzina. Fra questi, la palma della minor dissomiglianza va a certo “Quintarelli”, di cinque anni fa, fatto a Ceré di Negrar. Sia chiaro: non dico che il Quintarelli sia il miglior Valpolicella esistente sul mercato. Dico soltanto che mi è parso il meno lontano da quello di Hemingway, il meno sprovvisto di quelle caratteristiche organolettiche, che si possono desumere dal romanzo citato. Ma in Valpolicella, alla tenuta di Pulé, nella biblioteca della vecchia villa, ho avuto la fortuna di trovare una copia delle opere, oggi rarissime, di uno scrittore di cui, forse, mi sarei dimenticato: di uno che parla del vino non con l’abbandono ebbro, avventuroso, disperato dell’eroe senza fede, come il grande scrittore americano, ma con la saggezza e con la sobrietà di un proprietario di terra e produttore di vino, che fu anche un vero poeta: Vittorio Betteloni. Proprio qui vicino, Corrubio, ancora esiste una Villa Betteloni, abitata dagli eredi diretti del poeta. I vini, dunque, da lui prodotti, non potevano essere che dei Valpolicella, o dei Bardolino. L’ , scritta nel settembre del 1876, meriterebbe di essere citata per intero. Peccato che le antologie non la includano. Ode al vino Quando tarda è la notte, e sopra il foglio langue il mio capo e il petto stanco mi chiede s’io cessar non voglio pure una volta, e a letto ridurmi finalmente, io bevo un mezzo bicchier di vino allora, che tosto mi ristora, e sveglio tuttavia mi tiene un pezzo. Sveglio mi tiene, e un lieto ardore in seno m’infonde, e di fantasmi ilari e vispi ho tosto il cervel pieno e il cuor d’entusiasmi, i quali in ozio lento e taciturno del sigaro col blando fumo io vado esalando entro il cheto e solenne aere notturno. L’ode continua per altre quattordici strofe, dove la sincerità e la modestia di una vita vissuta sotto il segno delle virtù del piccolo proprietario terriero, nell’eden sognato da un umanista borghese, diventano poesia. Dopo avere cantato le lodi del vino quale lo si consuma in varie contingenze e in vari ambienti, il Betteloni descrive brevemente la vendemmia e le opere di vinificazione e conservazione, e finalmente, con uno scatto di stupenda franchezza, ringrazia il vino, perché appunto dalla produzione del vino la sua famiglia ricava il benessere di una vita comoda, e lui la possibilità di dedicarsi alla letteratura e di sentirsi “un uomo libero”. Sì, o mio buon vino, a te che il mercatante lombardo molto apprezza, a te solo degg’io se né abbondante vitto né l’agiatezza manca ai miei cari: se non è ch’io sudi ora, in uffici ingrati, e invece a non pagati dedicar mi potei leggiadri studi: se a Destri né a Sinistri io mai non chiesi il più lieve piacere: se libero ai caduti e ai novi ascesi dir posso il mio parere, se onoranze da lor né lucri agogno, ciò a te soltanto io deggio; però t’adoro, e inneggio, o vino, al nome tuo, né mi vergogno! A casa di Giacomo Galtarossa mangio finalmente la vera “pearà”. Tra i vini do la palma all’Amarone Secco. Un matrimonio inter-regionale con l’Astibarbera. Per caso, o per continuità ideale delle tradizioni locali, o addirittura per “l’aria che tira” tra queste vigne, tra i grandi alberi di questi antichi parchi, e nelle spaziose sale di queste nobili ville, Giacomo Galtarossa, che mi ospita a Pulé, sembra che continui e prosperi in una concezione della vita che è molto simile a quella del Betteloni. Galtarossa è veronese, ed è industriale in acciai. A Verona c’è addirittura un Lungadige Galtarossa, dedicato al padre, il creatore dell’industria. Da qualche decennio il figlio vive qui, e si occupa, altrettanto seriamente che degli acciai, anche di agricoltura. Con amore e con attenzione, e col consiglio dei fratelli Savoia, enologi, produce vini cercando di migliorarne razionalmente la qualità. Tutta un’ala dell’attiguo stabilimento enologico, di nuova costruzione, è dedicata all’appassimento, in cassette sovrapposte, delle uve da cui si ricava il famoso Recioto Amarone. Sono le quattro classiche uve del Valpolicella: Corvina, Molinara, Rondinella e Rossignola o Tintarella. Recioto, da recia: ; perché una volta si faceva questo vino di lusso spremendo soltanto le orecchie, ossia la parte superiore, che è la più delicata e gustosa, di ogni grappolo. piccola orecchia A casa di Galtarossa, ho assaggiato finalmente quella salsa veronese detta , fatta di midolla di bue, mollica di pane, brodo, e pepe, molto pepe nero. L’avevo provata anche prima, per consiglio dell’amico Ravazzin. Ma è stato niente in confronto. Si usa per condire il lesso di manzo, magro e scuro, e la testina: dunque è soltanto una salsa, ma così piena, così gustosa, che trasforma il lesso in una nuova pietanza, ed è perciò degna di ribattezzarla. Che cosa c’era a colazione? Pearà. È un cibo d’eccezione, che tuttavia sconsiglio di cercare nei ristoranti e nelle trattorie, e consiglio, invece, di imparare a cucinare. Non è difficile, ci vuole soltanto una gran pazienza. Allo stesso tempo delicato e fortissimo, raffinato e sostanzioso: qualcosa come la fonduta della Val d’Aosta, o il Clam Chowder della vecchia New York, o il caviale fresco del Volga sul pane nero e imburrato. Un piatto che, da solo, è un pasto. Non bisogna assolutamente mangiare altro, né prima né dopo. E cosa bisogna bere? Dipende dal vino che trovate. Qui a Pulé, in casa Galtarossa, dopo aver declamato, per aperitivo, l’ di Betteloni, ho pensato che, tra tutti i vini che mi venivano offerti, fosse da eleggere l’Amarone Secco, e vecchio del 1961. Ma penso che, più umilmente, e volendosi decidere a “contaminare” edonisticamente con un vino di altre parti, vada benissimo una buona Barbera sicuramente genuina, di due o tre anni, come per esempio l’Astibarbera della Cantina Sociale di Asti, che non è difficile rintracciare e ordinare. Prendo così l’occasione di raccomandare questa Barbera: in Piemonte, saremo travolti da una straordinaria varietà di vini, e ci sarà, temo, il rischio che io trascuri i miei preferiti, forse troppo semplici e “poveri”. pearà Ode Giulio Ferrari, il padre dello spumante italiano. La ricetta dello champagne: cuvée, tirage, dégorgement. Una tecnica in cui si riconosce la Francia di Cartesio e di Pascal. Trentasei ore per bere una bottiglia di vino. Un gradino ogni ora. Champagne ed elettronica non vanno d’accordo. Risaliamo l’Adige e arriviamo a Trento. Andiamo subito, prima che annotti, allo stabilimento dove si fa uno dei migliori spumanti secchi d’Italia. È lo Spumante di Trento: in commercio, soffre di una spiacevole omonimia con certi vini, che, prodotti e pubblicizzati con uno dei cognomi più comuni in tutta la Val Padana, ebbero la sventura, l’anno scorso, di subire un sequestro e un processo per adulterazione. Invece, questa, di Trento, è la vecchia azienda Ferrari, controllata e mandata avanti direttamente da Bruno Lunelli e dai suoi figli: niente a che vedere con quell’altra ditta, molto più grossa e molto meno aristocratica. Partiamo, ancora una volta, dalle generazioni. Il vecchio Giulio Ferrari, fondatore della ditta di Trento, non avendo figli vendette ogni cosa al Lunelli nel 1952; ma, appunto per insegnargli il mestiere, gli restò accanto fino alla propria morte, avvenuta nel 1965, all’età di novant’anni. È una produzione tutta particolare, che richiede studi e attrezzature specialissime: imitate, anzi copiate da quelle di Reims, dove si fa lo champagne, e dove, infatti, il vecchio Ferrari, nel secolo scorso, era vissuto a lungo, imparando. La stessa legislazione che riguarda gli spumanti, in Francia come in Italia, segue norme è consta di decreti completamente diversi e più complicati di quelli della legislazione per gli altri vini. Sugli champagne sono stati scritti migliaia di volumi. Non è possibile, per un semplice “amatore” come me, addentrarsi in questa materia senza provare un senso di smarrimento. Il vitigno è esclusivamente il Pinot. Il vecchio Giulio Ferrari aveva, qui intorno a Trento, i suoi vivai: e ne rifornì mezza Europa, dalla fine dell’Ottocento fino a pochi anni fa. Per esempio: il signor Daniele Panciera, che lavora qui, nello stabilimento di Trento, fino dal 1928, ricorda benissimo di aver spedito regolarmente, fino da allora, al Conte Vistarino, nell’Oltrepò Pavese, barbatelle di Pinot. Oggi, il vitigno più importante messo a dimora nell’Oltrepò Pavese, dai Ballabio, dagli Odero, dallo stesso Vistarino, è il Pinot: ed è di questo Pinot che si riforniscono, in gran parte, anche i produttori più famosi di spumanti secchi che prosperano in Piemonte. I prosecchi di spumanti veneti si riforniscono a loro volta di uve del Trentino. In altre parole, il vecchio Ferrari di Trento potrebbe essere definito “il padre dello spumante secco italiano”. Subito dopo la vendemmia, si procede a quell’operazione che i francesi chiamano e che consiste nel mescolare le uve, tutte dello stesso vitigno, ma in modo che la qualità risultante abbia, nella fermentazione e nella spremitura, un certo carattere di omogeneità. A marzo, è il taglio, in francese : ossia la mescolanza con altre parti di vino, sempre della stessa qualità, sempre allo scopo di ottenere un prodotto il più possibile costante e omogeneo. A maggio, la messa in bottiglie di fermentazione, in francese : previa aggiunta di zucchero e di una coltura di lieviti, che sono poi quelli che trasformano il vino in spumante. Dopodiché, il vino sta nelle bottiglie, ammassate in cataste, in cantina, per quattro anni. Ogni sei mesi di questi quattro anni si opera lo sbancamento: le cataste vengono disfatte, a una a una, e rifatte immediatamente in nuove cataste attigue, ma imprimendo a ciascuna bottiglia, durante l’operazione, una grossa scossa. Lo scopo di questa scossa è di impedire che i sedimenti, formatisi con l’accumulo delle sostanze lievitanti, si amalgamino con altri prodotti della fermentazione naturale, indurendosi e attaccandosi troppo al vetro. première cuvée assemblage tirage Dopo quattro anni, si tolgono le bottiglie dalle cataste e le si infilano nei cosiddetti , letteralmente leggii. Sono, infatti, come grossi leggii, assi sovrapposte e tutte forate da buchi a sezione elicoidale, dove le bottiglie, una per buco, sono collocate, in principio, orizzontalmente, e lasciate lì, a riposare, per quindici giorni. Dopo quindici giorni, incomincia la fase più strana e complicata della lavorazione: il cosiddetto , lo smuovimento, che riguarda sempre l’accumulo dei sedimenti e delle sostanze estranee in ciascuna bottiglia. Si tratta di preparare il , e cioè la purgatura, la liberazione di ogni bottiglia da queste materie impure. Si tratta di radunarle tutte nel collo, contro il tappo della bottiglia capovolta. Perché l’operazione abbia veramente successo, perché il vino sia, alla fine, veramente limpido, bisogna procedere con estrema pazienza e gradualità. Per una prima fase, di sedici giorni, un operaio scuote le bottiglie, a due a due, una con la destra e l’altra con la sinistra, e poi le rimette a posto in una posizione leggermente diversa: un po’ più inclinate verso il tappo, e girate di un ottavo di cerchio verso destra. Per una seconda fase, di dodici giorni, sempre le inclina più giù, e le gira di un sesto di cerchio. Per la terza fase, che è di otto giorni, le gira di un quarto di cerchio, e alla fine la bottiglia si trova quasi capovolta, in posizione verticale, pronta per il dégorgement. Ogni giorno, prima di procedere al remuage, l’operaio “pettina” le bottiglie sul pupitre con un apposito pettine di ferro che rende, contro i vetri, un suono bizzarramente squillante. Tutto il remuage, compresi gli iniziali quindici giorni di immobilità sui pupitres, e le domeniche, in cui riposano non solo gli operai ma le bottiglie, è durato due mesi esatti. pupitres remuage dégorgement È possibile riconoscere, in questa procedura così esattamente calcolata, la Francia di Cartesio e di Pascal. Non solo lo champagne e la sua fabbricazione, ma tutto quanto riguarda il vino e il modo di berlo, era, in Francia, fino a qualche tempo fa, rigorosamente codificato. Per esempio, quando si voleva bere un vino vecchio, bisognava cominciare a portarlo su dalla cantina almeno trentasei ore prima; ma l’impiego di queste trentasei ore doveva così essere suddiviso: le prime ventun’ore la bottiglia doveva compiere il tragitto necessario a salire la scala, e doveva fare “une marche à l’heure”, un gradino ogni ora, non di più. Insomma, ci doveva essere qualcuno a disposizione che, ogni ora, spostasse la bottiglia. Ventun’ore perché, nelle vecchie case di campagna francesi, la scala dalla cantina al pianterreno, dove è la camera da pranzo, consta sempre di ventun gradini. In camera da pranzo, la bottiglia doveva riposare, così com’era, né lontana dal fuoco né troppo vicina, per le successive undici ore: alla trentaduesima ora, la si stappava: dopo quattro ore, poteva esser bevuta. Calcolando che la si volesse bere col pasto del mezzogiorno, bisognava farle fare il primo gradino alla mezzanotte di due notti prima. Ma chi, oggi, anche nel caso rarissimo che non sia sprovvisto del personale necessario all’esecuzione di tutte queste manovre, ha voglia che siano eseguite? No: la lavorazione dello champagne è l’ultima isola artigianale dove lo spirito matematico dei francesi ancora presieda all’enotecnica. E questo, non solo per la mancanza del personale adatto, o perché i padroni stessi abbiano cambiato gusto: ma per la semplice ragione che oggi una quantità di calcoli e di operazioni sono eseguite da apposite macchine. L’elettronica non è che l’estremo sviluppo e l’ultima utilizzazione della matematica di Pascal e di Cartesio. E la vera stranezza, semmai, sta proprio nel fatto che, finora, tutti i tentativi di applicare l’elettronica alla produzione dello champagne, specialmente nella fase del remuage, siano stati vani. Finito il remuage, le bottiglie vengono refrigerate, sempre capovolte, così che i detriti si accumulino nel collo, in un piccolo cilindro di ghiaccio. Si fa saltare il tappo, e salta via insieme, spinto fuori dalla pressione stessa dei gas contenuti nel vino, il piccolo cilindro. Si ricolma la bottiglia con un dito dello stesso vino, versato da un’altra bottiglia, e si ritappa. A questo punto, lo spumante può essere bevuto. E va bevuto presto, di regola: non più di due anni, cioè dal momento del dégorgement. Sbaglia di grosso chi conserva bottiglie di champagne in casa propria. Lo champagne può anche invecchiare: ma, di regola, deve esser bevuto entro uno, al massimo due anni dal dégorgement: si corre il rischio, altrimenti, che ricominci a fermentare, e che si maderizzi. 3 Cosa dire, adesso, dei pregi dello Spumante di Trento? Mi è bastato, questa mattina, vedere entrare il postino nell’ufficetto del signor Panciera, vederlo con che garbo, con che delicatezza e precisione posava la posta sulla scrivania, per capire tutto. Capire cosa? Ma sì, che Trento è la città più “reliable” d’Italia... Abbiamo già detto che questo aggettivo inglese non si può tradurre in italiano. Troppo rara, forse, da noi, la corrispondente realtà. È reliable una persona attendibile, onesta, cui si può credere, cui si può affidare quanto abbiamo di più caro e dormire tra due guanciali. Questa realtà, però, non manca a Trento: e meno che mai nell’ufficio del signor Panciera, dove c’è, anche, una segretaria piccola, magra, pallida, svelta, con due grandi occhi scuri e intelligenti, e l’espressione lievemente imbronciata... una segretaria, insomma, che trovi le sue simili solo a Wall Street o nella City. E la faccia di Bruno Lunelli e di suo figlio Gino? Fa proprio bisogno, per fidarsi, di assaggiare lo Spumante? Non fa bisogno: possiamo dormire tra due guanciali. Fa piacere, questo sì: è profumato, secchissimo, appena amarognolo: la spuma subito decresce e scompare, ma il perlage persiste. Perlage: perlaggio: le bollicine di gas, minutissime e appena visibili a occhio nudo, che continuano senza interruzione a salire dal fondo del calice fino alla superficie: caratteristica di ogni autentico champagne fatto a regola d’arte. Note Ciononostante, anche in Francia, tra centinaia di ditte produttrici di champagne, solo la Bollinger, che io sappia, garantisce direttamente il cliente sul termine ad quem, sulla data oltre cui lo champagne, del tipo più secco, comincia a maderizzarsi, ad addolcirsi, a deperire e quindi, come regola, non deve più essere consumato. Aggiungiamo che la Bollinger limita tale garanzia a “une cuvée spéciale pour les épicuriens” istituendo un tipo extralusso R.D. (Récemment Dégorgé) con una data (data di giovinezza, non di vecchiezza) che conferisce una realtà precisa a quel “récemment”. Ora, giustizia vorrebbe che questa garanzia fosse fornita da tutti i produttori di champagne secco e per tutti quanti i tipi di cuvée. Per ovvie ragioni, vi si rinuncia: la data del dégorgement, stampigliata su ogni bottiglia, condannerebbe automaticamente ad una fortissima svalutazione, e forse anche alla perdita di tutto il loro valore, quelle partite di champagne che, allo scadere del secondo anno, fossero rimaste invendute. Nell’acquisto dello champagne, dunque, possiamo soltanto “fidarci” di chi ce lo vende. 3 Il vecchio bureau liberty di monsieur Ferrari. La lunga notte dello champagne. Il metodo e la méthode. È notte ormai; e nell’antico bureau liberty del vecchio signor Ferrari, siamo solo noi: il Lunelli padre e il figlio Gino, il professor Franco De Francesco dell’Istituto Agrario Provinciale di San Michele all’Adige, Bòccoli e io. Mio figlio se ne è andato. Noi continuiamo a bere. Proviamo Spumante antico e, naturalmente, dolcificato, maderizzato, ma squisito egualmente, tanto è puro, tanto è discreto nella sua composizione. Bruno Lunelli è un entusiasta. Si diverte con una gioia infantile a fare lo Spumante come se lo facesse soltanto da ieri, e ci ha condotto in giro per le cantine illustrandoci le successive fasi della lavorazione come se tutti quegli stranissimi accorgimenti seguitassero a suscitare in lui, dopo tanti anni, una sorpresa ilare e irrefrenabile, una felicità che, da sola, è l’immagine più appropriata del profumo, del gusto, e dell’effetto del suo Spumante. Trento è “reliable”, Trento è seria negli affari: ma ciò non significa che sia triste e arida. Tutto al contrario. Trento è una città allegrissima. Non è un caso, forse, se abbiamo trovato proprio qui uno spumante secco perfetto: questo vino tecnico e, insieme, gaio, così difficile da fare e così facile, troppo facile da bere! Una sola critica. Sulle etichette dello Spumante vediamo scritto “metodo champenoise”. Ora, il francese e l’italiano sono lingue consorelle: non si possono evitare le concordanze. “Metodo” è maschile, e “champenoise” è femminile. L’errore è dovuto a uno scrupolo trentino. Hanno adoperato l’aggettivo nella esatta forma usata in Francia, ricordandosi di Cartesio nella logica ferrea della lavorazione, ma non del titolo originale del suo capolavoro: Metodo, in francese, è femminile. Bisogna che Lunelli provveda: o “metodo champenois” o “méthode champenoise”. Discours sur la méthode. L’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, Un marinaio che ama il mare. I profumi dei roveri di Slavonia. Invitati dal professor De Francesco, visitiamo l’Istituto Agrario. San Michele all’Adige è quindici chilometri a nord di Trento, sulla strada del Brennero, in una conca apertissima verso sud, e su un colle che domina la grande pianura del cosiddetto Campo Rotaliano, alla confluenza dell’Adige e del Noce. Qui sono tutti i vigneti del Teròldego. Qui, negli antichi centri abitati di Mezzocorona e Mezzolombardo, sono ancora le vecchie cantine dove si fa questo vino sublime. L’Istituto Agrario Provinciale è un modello del genere, altra manifestazione e altra prova dell’efficienza tecnica dei trentini. Consta di due complessi collegati, ma ben distinti. Il medievale Castello-Convento, dove sono le cantine, le cucine, i refettori, i dormitori per i collegiali allievi dell’Istituto; e il nuovo edificio, tutto di cristallo e cemento, dove sono le aule, i laboratori didattici, e, in un’ala separata, la vasta, attrezzatissima Stazione Sperimentale e di Ricerca, che è diretta, appunto, dal De Francesco. Se nelle cantine dello Spumante avevo provato come uno smarrimento alla complessità della lavorazione, qui mi sento addirittura allibito. Una successione di candide sale. Pareti di cristallo che inquadrano, da un lato i colli, tappezzati di vigne e chiusi in cima da boschi sempreverdi, dall’altro le torrette del Castello, la pianura, anch’essa a vigneti, e nello sfondo la parete ciclopica del Monte (cosiddetto per antonomasia) che domina Mezzocorona. Enormi fenditure, o spacchi, attraversano dall’alto in basso, con la loro ombra azzurra e cupa, la parete di roccia, rosea nel sole. Scenario meraviglioso, a cui i chimici e i ricercatori, levando ogni tanto lo sguardo dal loro lavoro, devono, secondo me, attingere energia. Tavoli bianchi e lucidi, provette di ogni dimensione, cilindri, sfere, imbuti, apparecchi elettronici e ottici, meccanismi di misurazione, si susseguono all’infinito, brillando nel sole alpestre, che si alterna alle zone di ombra luminosa e azzurrina. La terra e i prodotti della terra, ogni genere di coltura, ma soprattutto i vitigni e il vino sono l’oggetto delle ricerche. De Francesco mi spiega tutto quanto posso capire, fino al punto in cui posso capire. È gaio, anche lui: appassionato della sua professione: e non soltanto intenditore, ma anche amatore del vino: una vera eccezione, un marinaio che adora il mare! Però è un alpino, anzi: altissimo, robusto, nodoso, volto di rame sotto i riccioli bruni, direi che è “un artigliere di montagna”, un trentino di quelli scuri, di ascendenza ladina più che longobarda. Il preside dell’Istituto è Giovanni Manzoni di Agordo: altro tipo: mite, almeno all’aspetto, raffinato, gentile, un umanista. Bruno Zanetti, l’enologo che soprassiede alla lavorazione sperimentale dei vini, è piccolo, massiccio, biondo. Con questo trio, armonicamente assortito, facciamo colazione in una sala circolare, alla base di una delle torri del castello. Ogni pietanza è squisita. Alla cucina sopraintendono le suore, che, con pragmatismo, i dirigenti della provincia non hanno esitato a “integrare” nel sistema. Assaggiamo, al pasto, tutta una gamma di vini, non commerciabili e non commerciati data l’esigua quantità della produzione. Non dimenticherò quello servito per ultimo: un taglio di tipo “bordolese” tra Cabernet e Merlot. Bottiglie del 1961, ma l’invecchiamento, per i primi cinque anni, è avvenuto in piccole botti di rovere di Slavonia nuove, che hanno, così, trasmesso al vino un profumo inebbriante di quercia, di sottobosco, di felce, di muschio... La pergola trentina e il vento del Garda. Il Teròldego di Dorigati. Un vino che ha entusiasmato il Garoglio. Le uve “su l’onor”. Scendiamo al fondovalle, al famoso Campo Rotaliano, così detto, penso, da Rotari re longobardo. Vediamo da vicino i vigneti. Sono montati, a palo morto, con un sistema che si chiama pergola trentina. Ci sono le pergole doppie, a T, con i due pali orizzontali leggermente divaricati verso l’alto; e le pergole semplici, a L capovolta, e anche queste col palo orizzontale obliquo così che i grappoli prendano più sole. L’orientamento delle pergole di questo secondo tipo mi pare scelto in base al principio che l’apertura della pergola sia, appunto, verso sud. L’orientamento delle pergole del primo tipo mi pare, invece, rispetto al sud, perpendicolare. Ma la contraddizione è apparente. L’orientamento, mi dicono, non dipende dal sole, ma piuttosto dal vento. Esiste, nel Trentino, un vento regolare detto , che, specialmente durante la buona stagione, si leva ogni giorno verso le 13, le 13.30, e soffia per due ore, due ore e mezza. Un po’ come la breva o il tivano, sui monti intorno ai laghi di Lugano e di Como. Ma qui l’òra è benefica e santa: perché asciuga subito l’eventuale pioggia, l’umidità, le brine che sono dannose alle viti e ai grappoli. l’óra del Garda A Mezzocorona, proprio sotto il Monte, sono le cantine Dorigati. Ditta fondata nel 1858, da Pio Dorigati, nonno dell’attuale proprietario, Franco. Franco Dorigati ci accoglie e, prima di condurci in cantina ad assaggiare il suo Teròldego, ci mostra lo stabilimento, che è tutto raccolto intorno a un cortile. La parete di roccia incombe, altissima, sui capannoni. Istintivamente leviamo lo sguardo. Dorigati indica la stazione della funicolare, che è sulla vetta, e che, con tutta la buona volontà, non riusciamo a distinguere. Un operaio in tuta celeste, un ragazzo bruno, è lì che lavora nel cortile. Dorigati lo manda a prendere un cannocchiale. “E lei,” domando a Dorigati “è qui solo?” “No, c’è mio fratello.” “Ma suo fratello, non è qui...” “È lui,” risponde, accennando all’operaio che torna col cannocchiale. Ridiamo. Insisto: “Volevo dire... lei è solo, cioè fa tutto lei, non ha con sé un enologo, un tecnico?” “È sempre lui: diplomato, pochi mesi fa, all’Istituto San Michele.” E il Teròldego è degno, all’assaggio, di questa semplicità patriarcale. Rosso granato, giovane di due anni, fresco, asciutto, di odore vinoso e aromatico, con un sapore caratteristico, riconoscibile tra mille. Adesso capisco perché il Garoglio, che nel suo poderoso è sempre rigorosamente scientifico, arido, quasi pedantesco, per il Teròldego, una volta tanto, si abbandoni a descrizioni tutt’altro che tecniche, e a un insolito, straordinario entusiasmo: Trattato di Enologia I due nomi – Teròldego e Mezzolombardo – sono di quelli che si prendono per mano e si incamminano tranquilli, incuranti, più che ignari, dei pericoli e delle fortune, per le vie del mondo. Un vino eccelso, insomma. La cantina Dorigati funziona un po’ sul modello delle cantine sociali. Solo una parte delle uve provengono da vigneti di proprietà dei fratelli Dorigati: le altre sono “conferite” da vari piccoli proprietari, che hanno i vigneti, sempre nel Campo Rotaliano, intorno o davanti a Mezzocorona e Mezzolombardo: i due paesi distano poche centinaia di passi, praticamente li divide solo il ponte sul Noce. Le uve, spiega Dorigati, sono conferite “su l’onor”: ma, naturalmente, pronuncia questa parola senza enfasi, come un’espressione puramente tecnica, escludendone il nobilitante elogio che pure vi è implicito: quasi che “su l’onor” significhi soltanto “senza l’impiccio di cartacce o firme”. Lo so che non c’entra. Lo so che un giudizio morale sul produttore non basta ad assicurare la qualità di un vino. Ma ho di queste debolezze personali. Quando si ha da fare con gente così, poi non mi meraviglio più se il vino è genuino e squisito. Il Teròldego rosato. Il “maso” di Pierfranco Donati. Una dinamo viennese del 1898. I conservatori che amo. Ed esiste un’altra qualità Teròldego. Non migliore, ma, a mio giudizio, ancora più raffinato. Intendiamoci: sono le stesse uve, sempre di puro vitigno Teròldego: è differente la lavorazione. Sono vinificate “in bianco”. Immediatamente appena pigiato, il mosto è separato dalle bucce, e per sempre. Ne viene fuori quel delizioso Teròldego Rosato, che è uno dei pochi autentici che conosco: e comprendo nella mia memoria tutti i francesi che ho assaggiato. Ha, in fondo, lo stesso sapore del Teròldego Granato: ma più vellutato, più leggero, più “irresistibile”: soprattutto, con più profumo. Raccomando ai lettori, quando assaggeranno questo vino, di fiutarlo a lungo, prima. Un’altra caratteristica del Rosato è che lo si può bere prima del Granato: due anni è la perfezione. Di meno corpo, raggiunge subito l’optimum. rosé rosé L’ho trovato, sempre a Mezzocorona, da Pierfranco Donati. La ditta fu fondata dal bisnonno, Luigi, nel 1863. Il vino si pigia esclusivamente con uve della proprietà. Sono quindici ettari soltanto: tutti cintati da un muretto, e confinanti, a ovest, col corso del Noce. Una proprietà di questo genere, che comprende, al centro, le case coloniche, le cantine di fermentazione e di conservazione, e la villa o la casa del padrone, si chiama, nel Trentino, un “mas”, l’identica parola usata in Provenza, e che ha la stessa etimologia della napoletana “masseria”. Mas, che i trentini, volendo parlare italiano, traducono volentieri in “maso, maso chiuso”. Pierfranco Donati è un gentiluomo alto, biondo, occhi azzurri, sbarbato, guance rosee della stessa sfumatura “salmone chiaro” del suo straordinario vino e delle rocce del Monte quando vi batte il sole. La pacatezza del suo discorrere e la cortesia dei suoi modi hanno un garbo, una grazia incantevoli, che, se non temessi di fargli dispiacere (i trentini e i triestini sono gli ultimi patrioti d’Italia!), non esiterei a definire “viennese”. Sono andato a fargli visita all’improvviso, senza preavvertirlo. L’ho trovato al suo lavoro nello spiazzo principale del maso, con un perfetto loden grigio ferro, e un cappelluccio a cencio. La moglie, bionda anche lei, era in una stanza del piano rialzato, intenta ad attaccare etichette sulle bottiglie. Ora, con Donati, andiamo in giro per le vigne. Sono a pergola doppia, regolarissime, pulitissime. Ma modernizzate: ripiantate, cioè, più larghe di quanto le si piantava una volta, e questo per permettere ai trattori di passarvi in mezzo, con gli apparecchi atomizzatori, gli irroratori fertilizzanti e antiparassitari, o con i rimorchi all’epoca della vendemmia. Ecco un esempio egregio di come una fedeltà quasi religiosa alle tradizioni vitivinicole non escluda migliorie moderne e meccanizzazioni, purché adottate solo quando sono veramente utili, e quando non incidono sulla qualità finale del prodotto! Domando a Donati come siano orientate le sue vigne: “Anche qui arriva l’òra del Garda?” “Certo che arriva, soprattutto d’estate. Ma io faccio più conto, data l’ubicazione di questi terreni, sul vento della Val di Non, che soffia diretto e che mi asciuga la brina. Il momento più pericoloso per la vigna è San Marco, 25 aprile: ci sono i germogli, allora, e se la brina gela sui germogli, l’annata è persa. A me, grazie al vento della Val di Non, non è mai capitato: neanche quando è capitato a tutti gli altri qui intorno, nel Campo Rotaliano.” In una bassa costruzione che fronteggia la villa, di là dallo spiazzo, Donati mi mostra adesso, con fierezza, una vecchia dinamo, che lui chiama “il centralino”: e che è azionata dalla rapida corrente di un piccolo canale derivato dal Noce, attraverso i vigneti. Quando la ditta fu fondata dal bisnonno, il canale serviva a mandare avanti un piccolo mulino. Ma già prima della fine del secolo scorso, il mulino fu sostituito dalla dinamo. “Guardi,” mi dice Donati. E sulla dinamo leggo: Siemens Suckert Werke – Wien, e la data: 1898. “Funziona perfettamente, sa? Noi, per tutto il nostro fabbisogno di elettricità, andiamo ancora avanti con questa.” Nessun altro è il tipo di conservatorismo che amo! Non c’è snobismo, qui, non c’è estetismo. Si tratta, molto semplicemente, di conservare tutto ciò che funziona ancora, tutto ciò che è inutile rinnovare. Cambiare per cambiare, per essere alla moda, che senso ha? Non faccio la conoscenza con Giacomo Angelini. In sua vece conosco il Marzemino. Ci affrettiamo sulla via del ritorno. Scendiamo la valle, attraversiamo Trento, passiamo quei “murazzi” che nel ’300 e nel ’400 dividevano le terre di Trento dalle terre di Rovereto ed erano il confine tra l’Imperatore e la Repubblica veneta. Ma, durante la guerra della Lega di Cambrai, Venezia perse per sempre Rovereto, che passò, con l’Ampezzano, a Massimiliano I. I roveretani si vantano ancora di essere stati, in quel lontano periodo, sudditi della Serenissima, e si proclamano, perciò, più italiani dei trentini. Ho già detto che considero i trentini dei grandi patrioti, e non ho, quindi, nessuna intenzione di offenderli. Ma è un fatto che, passati i murazzi, la gente è diversa: non dico migliore o peggiore: diversa. Ad Avio, in casa Angelini, facciamo la conoscenza del Marzemino. Che è un vino addirittura opposto al Teròldego. Colore rosso scuro, denso, tannico, dall’intenso profumo di frutta. Va bevuto giovane. Fresco di cantina, secondo me, e anche se, in questo caso, vado contro la regola e la tradizione. Buonissimo sulle carni. Insuperabile con i formaggi, appunto per il suo sapore fruttato. Il vecchio Giacomo Angelini, che è ancora l’anima della ditta, non c’è: proprio questa mattina è partito per andare a caccia in Jugoslavia. Ha settantasette anni. Il Marzemino, vino se altri mai vigoroso, fresco, sano, si addice stranamente all’immagine che, senza volerlo, mi faccio di questo vecchio cacciatore. La moglie e il figlio Giancarlo sono desolati della sua assenza, e cercano, come possono, di sostituirlo, e ci riescono, appunto, col Marzemino: nome che mi ha sempre incantato, e vino che, ora, non tradisce per me quell’incanto. Un gentiluomo del Lombardo-Veneto. Il povero Duca di Reichstadt. “Se è caro è buono.” Quando il vino sarà sostituito dall’enofrizz. La storia dei murazzi, non sono andato a cercarla nei manuali. Me l’ha raccontata, il giorno dopo, il Marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga, nella villa dove abita suo figlio Carlo, attigua allo stabilimento vinicolo. È la tenuta di San Leonardo, a Borghetto all’Adige: quasi di fronte ad Avio. Seduto accanto al marchese, in un gran divano ricoperto di cretonne a fiorami gialli e verdi, ho passato un lungo tempo in pacati conversari, nella grande pace campestre del pomeriggio autunnale. Alla luce degli ultimi raggi del sole che, di là dagli alberi del parco e attraverso gli alti finestroni, indorava gli orli delle mantovane e dei tendaggi, seguì la penombra raccolta, tra i vecchi mobili di grande gusto e di pari conforto, tra le specchiere argentate, i tavoli coi loro ninnoli e i fasci di riviste, la felpata moquette color di foglia passa. Si accesero poi gli abat-jours di seta gialla, qua e là diffondendo la loro calda, sommessa luminosità. E a poco a poco fu sera. Mi sembrava di tornare indietro nel tempo, di scivolare dolcemente e magicamente nella mia infanzia ormai così lontana, nella villa di Rivoli Torinese, dove, qualche anno, ci eravamo fermati, prolungando la villeggiatura oltre i Santi. Alto, pallido, corpulento, baffuto, immobilmente seduto all’angolo del divano, il Marchese, coi suoi racconti, e più ancora, forse, col tono e la musica della voce, si identificava per me con un mio vecchio zio, che era così simile, per conto suo, allo “zio, signore virtuoso, di molto riguardo” dell’Amica di Nonna Speranza, quello “ligio al passato, al Lombardo-Veneto, all’Imperatore”, quello che, “gesuitico e tardo”, diceva: “Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna...Capenna... Sicuro! Alla Corte di Vienna! sicuro... sicuro... sicuro...” Non che il Marchese Guerrieri Gonzaga sia un austriacante in ritardo. Per carità, anzi. È stato proprio lui a parlarmi dell’italianità dei roveretani. Ma il passato, tutto il passato, scorre continuamente e poeticamente in lui, con tranquilla vitalità. Parla del Barone Malfatti, di Rosmini, di Cesare Battisti, di Damiano Chiesa, di Fabio Filzi. Parla di Massimiliano I e della Lega di Cambrai, del vino di San Leonardo che un suo avo mandava alla nostra ambasciata a Vienna. Parla di un altro avo (o era lo stesso?) che nel 1859 partì per unirsi all’esercito piemontese e poi, giunto a Peschiera, prese la malaria e poi andò a Torino, si presentò a Cavour e vinse un concorso ed entrò in diplomazia. Parla di un altro avo ancora, più lontano nel tempo, un De Moll, che fu protettore del povero Duca di Reichstadt... Il Marchese Anselmo ha detto proprio così: “del Duca di Reichstadt”; ma lo ha detto con la stessa indifferenza tecnica con cui Dorigati aveva detto “su l’onor”. Ed è solo con un certo ritardo (comprensibile, e, spero, perdonabile) che io capisco che si tratta del figlio di Napoleone e di Maria Luisa d’Austria, quello dell’ Ma il vino? povero Aiglon. I vini di San Leonardo messi in commercio sono tre: il Cabernet, il Merlot e un taglio bordolese (40% Cabernet e 60% Merlot) sul tipo di quello dell’Istituto San Michele. Tutti e tre i vini sono di grande classe. Carlo, il figlio del Marchese, è laureato in agraria a Losanna e si occupa dell’azienda personalmente e attivamente. Dei tre, quello che preferisco è il Cabernet. Colore rosso cupo, denso, profumato, vecchio, un vino di corpo e di soddisfazione, ma serio, da bere adagio, soprattutto sugli arrosti. Anche su questo suo Cabernet, il Marchese racconta una storia. Lo aveva sempre venduto a basso prezzo, resistendo ai consigli degli amici enologi che cercavano di persuaderlo almeno a raddoppiare, data l’importanza e la qualità eccezionale delle bottiglie, ormai vecchie e “giuste” per essere consumate. Finalmente, si era deciso: ma non aveva raddoppiato, aveva aumentato di un po’ meno della metà: “È stato, subito, il boom. Ne ho venduto, subito, una quantità tre volte maggiore. Incredibile. Che cosa significa, questo?” “Purtroppo, oggi,” spiego al Marchese Anselmo, “il prezzo, entro certi limiti, fa parte della pubblicità. Un vino costa poco? pensano certi consumatori: vuol dire che non è tanto buono. E un altro costa di più? vuol dire che è migliore. Bisogna avere pazienza. La civiltà dei consumi va per questa strada.” Ma il Marchese Anselmo, dal suo angolo del divano, mi guarda perplesso. Chiuso nel suo mondo fantastico, ciò che accade oggi gli interessa fino ad un certo punto. Dopo tutto, mi dico, è, anche questo, un modo di concepire la vita. E verrà un giorno, quando anche la nostra epoca, che a noi sembra così avida, violenta e superficiale, sarà giudicata dai nostri posteri antica, fiacca, troppo tranquilla. Sostituito dall’enofrizz, o da come diavolo si chiamerà, il vino, allora, non esisterà più: sarà soltanto un lontanissimo ricordo, un rimpianto. Perché ci sarà, allora, qualcuno che rimpiangerà la nostra epoca in cui il vino ancora esisteva: così come, oggi, il Marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga rimpiange il tempo in cui si diceva: “Il povero Duca di Reichstadt...” Ciononostante, anche in Francia, tra centinaia di ditte produttrici di champagne, solo la Bollinger, che io sappia, garantisce direttamente il cliente sul termine , sulla data oltre cui lo champagne, del tipo più secco, comincia a maderizzarsi, ad addolcirsi, a deperire e quindi, come regola, non deve più essere consumato. Aggiungiamo che la Bollinger limita tale garanzia a “ ” istituendo un tipo extralusso R.D. ( ) con una data (data di giovinezza, non di vecchiezza) che conferisce una realtà precisa a quel “ ”. Ora, giustizia vorrebbe che questa garanzia fosse fornita da tutti i produttori di champagne secco e per tutti quanti i tipi di cuvée. Per ovvie ragioni, vi si rinuncia: la data del dégorgement, stampigliata su ogni bottiglia, condannerebbe automaticamente ad una fortissima svalutazione, e forse anche alla perdita di tutto il loro valore, quelle partite di champagne che, allo scadere del secondo anno, fossero rimaste invendute. Nell’acquisto dello champagne, dunque, possiamo soltanto “fidarci” di chi ce lo vende. 3 ad quem une cuvée spéciale pour les épicuriens Récemment Dégorgé récemment