Introduzione
Il momento del vino

All’inizio di questi “viaggi d’assaggio” ne avevo dedicato il racconto a Pier Giovanni Garoglio, autorità mondiale nel campo dell’enologia. Senza la possibilità di consultare il suo grande Trattato, un ignaro come me della scienza enologica si sarebbe messo per strada con ben poca utilità. Conobbi poi Garoglio in persona. Piemontese antico e toscano nuovo, figlio del poeta Diego Garoglio, mi si rivelò come un animo semplice, vivissimo, schietto, gentile; e mi offrì così, con tutto se stesso, la più bella prova dell’umanità del vino.


Interminabili sono i ragionamenti che si possono fare, e che si fanno, oggi, a proposito del vino in tutti i paesi dove il vino è di casa.

Ecco alcuni temi principali di tali ragionamenti: la decadenza del vino per colpa della civiltà dei consumi; la sensazione che il vino si opponga costituzionalmente, e che sempre più debba opporsi, al consumismo, all’industrializzazione, alla pianificazione ecc.; la moda secondo cui sarebbe necessario difendere il vino vero: ancora una contestazione, insomma, da aggiungere a tutte le altre.

Gli amatori di vino inesperti accusano i tecnici, gli enologi, di non partecipare, o di non partecipare abbastanza, a quest’opera di difesa, e di contribuire alla decadenza del vino: in alcuni casi senza resistere, e in altri casi addirittura prestandosi attivamente, alle pratiche di filtraggio, chiarificazione, refrigerazione, stabilizzazione, e a tutti i vari accorgimenti chimici o meccanici, che in definitiva mirano a industrializzare il vino, con crescente ed evidente profitto economico, almeno iniziale, per i produttori a cui essi enologi sono associati o da cui dipendono.

Dirò subito che mi considero anch’io, del vino, un amatore inesperto. È vero, i “viaggi d’assaggio”, che racconto nelle pagine seguenti, mi hanno istruito un pochino: ma il loro risultato più apprezzabile è stato di misurare, dopo anni di esperienze enologiche, quanto sia vasta ancora la mia ignoranza, e l’arte del vino quanto difficile.

Per esempio. Uno degli errori più gravi e più comuni in cui oggi incorrono molti consumatori di vino è di credere che un certo vino, riconoscibile al nome e all’etichetta, debba essere sempre eguale a se stesso, e sempre buono se una volta è stato trovato buono: di chiedere, dunque, al commerciante un vino che risponda a requisiti di “continuità”. L’errore deriva senza dubbio da un inconscio adeguarsi alla produzione industriale di tanti altri beni di consumo. Enorme equivoco: si pensa, scioccamente, al vino nominato e desiderato come a una entità omogenea, intercambiabile, fissa: come se si trattasse di una data marca di aranciata, di birra, di whisky, o addirittura di automobile o di frigorifero. Mentre il vino (il vino di una data qualità, zona di produzione circoscritta, annata, partita, botte e, in certi casi, bottiglia) può paragonarsi soltanto a un essere umano e vivente, immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un’infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso. Esigere un vino “stabile” è la più grande sciocchezza che un bevitore di vino possa commettere. “Un vin suivi n’est pas un vin honnête” dice il Courtine.

D’altra parte, i produttori, sostenuti dagli enologi (da quasi tutti gli enologi), non denunziano la sciocchezza, non si oppongono menomamente alla “esigenza della stabilità”; e si giustificano con un argomento, secondo loro, inoppugnabile e sovrano: si tratta, dicono, di un’esigenza, di una richiesta avanzata dalla maggioranza dei clienti, i quali, naturalmente, “hanno sempre ragione”. La scelta, proclamano, non è mai imposta dal produttore, ma sempre dal consumatore, e cioè dalla maggioranza dei consumatori.

Sempre il Courtine, nel suo recente volume L’Assassin est à votre table, che è un’apocalittica ma, ahimè, documentata arringa contro la dittatura pubblicitaria dei mercanti di veleno negli alimentari, affronta lo stesso problema cominciando dal formaggio, problema che assomiglia tanto a quello del vino. La moda, pare, non è più per i formaggi dal gusto preciso, individuale, fortemente caratterizzato (goût marqué), non è più per i formaggi artigianali, paesani, genuini, variabili. La moda è per i formaggi insipidi, o relativamente insipidi, stabili, e cioè sempre eguali a se stessi, insomma per i formaggi industriali. Ma “non bisogna stupirsi dell’attuale proliferazione di marche di formaggi freschi, sciapidi al gusto, e il cui successo non è fatto che di una pubblicità costosa e intensa, pubblicità che alla fin fine è pagata dallo stesso compratore! I formaggiai ci diranno che ciò corrisponde al desiderio del consumatore, che non vuole più formaggi dal gusto caratterizzato. Il consumatore ha le spalle robuste, sopporta tutto! Ritroveremo lo stesso genere di stupidità nel capitolo dei vini, i cui commercianti pretendono che, allo stesso modo, sia il consumatore ad esigere un vino stabile, invariabile: mentre, sono piuttosto i produttori che, con la pubblicità, con la propaganda, ficcano in testa al cliente degli slogans che costui ripete come un bravo pappagallo radioamatore”.