Nelle provincie di TORINO, VERCELLI e nella VALLE D’AOSTA

Il Piemonte entra in lizza con una squadra di riserve. La “meza stupa” di un mendicante di Peveragno. Come si riconosce il torinese dal modo di chiedere la Barbera.

Che cosa direste se in un torneo di calcio tra le sei regioni italiane che ho visitato in questo viaggio enologico alla ricerca di “qualche vino” genuino, ciascuna regione fosse rappresentata dalle sue squadre più forti, e cioè la Sicilia dal Palermo e dal Catania, la Campania dal Napoli e dalla Salernitana, la Toscana dalla Fiorentina e dal Pisa, la Lombardia dal Milan e dall’Inter, il Veneto dal Verona e dal Vicenza... ma che cosa direste se, per il Piemonte, invece della Juventus e del Torino, giocassero l’Eporedia, la Biellese, l’Aosta F.C.? Eppure, questa è la decisione che sono stato costretto a prendere. Lo so: è probabile che non lo fossi, costretto, ma semplicemente che “mi sia sentito”. Ceppi antichi e dolci dello sciovinismo! È probabile che, arrivando finalmente in Piemonte, a casa mia, io abbia rinunciato troppo presto e troppo volentieri a ogni tentativo di imparzialità e di giustizia. Ma, insomma, non mi sono mai presentato come un esperto di vini, non ho mai preteso di scrivere se non le mie impressioni personali, private, fuggitive, e affrontando il rischio, qualche volta, di sbagliare. Dirò dunque, senza esitare, che la superiorità vinosa del Piemonte mi è sembrata tanta e tale da doverne tenere debito conto proprio per un senso di equità, e da dovere, perciò, concedere a tutte le altre nostre regioni il beneficio di un massiccio handicap.

Ecco perché non sono salito ai vigneti e non sono disceso nelle cantine dei più celebrati vini piemontesi, ecco perché non andrò oltre ai nomi di questa lista: Barbera, Barbaresco, Barolo, Grignolino, Brachetto, Dolcetto, Freisa, Bonarda, Moscato, Asti Spumante, Ghemme, Boca, Barengo, Sizzano, Fara, Gattinara, Caramino di Briona, Care, Bruschetto, Campiglione, Chiomonte, Gavi, Pelaverga, Prunent, Ramier, Timorassa, Finiere, Vespolino... E la lista dovrebbe essere ancora più lunga. Una buona metà, almeno, di questi nomi dovrebbe essere moltiplicata, dato che per ciascuno di questi vini, almeno per i più noti e importanti, esistono innumerevoli varietà, corrispondenti agli innumerevoli paesi dove si produce un vino simile e con lo stesso nome. Non mi stancherò mai di ripeterlo: il nome di un vino non è mai completo se non con l’aggiunta, per le qualità più comuni, del cognome della zona, e, per le qualità più pregiate, anche del “predicato del podere”. Per le qualità eccelse, infine, è necessario anche menzionare il “sottopredicato” della vigna, di quel particolare angolo del podere dove sono state raccolte le uve. In ogni caso, insisto, il nome della zona non deve mai essere dimenticato.

E non si tratta di una raffinatezza esagerata e troppo raramente praticabile: si tratta, invece, della più semplice, della più umile, sebbene anche della più saggia di tutte le esigenze: la stessa, antichissima e invariabile, del contadino in viaggio, quando siede a tavola d’osteria: “Mi porti un litro di vino del posto.” Va da sé che è vino di botte, salvo in quei posti dove l’usanza, da Natale in poi, è di consumare soltanto vino di bottiglia. Fa bisogno di dire che è un’usanza, a quanto mi consta, esclusivamente piemontese, ed anzi della provincia di Cuneo? A Peveragno, ricordo, un pomeriggio di marzo, in un’osteria infima, vidi entrare un mendicante, un vecchio vagabondo di quelli che ormai non se ne vedono più: aveva a tracolla due o tre tascapani rigonfi, una gavetta, una padella e una mantellina grigio-verde arrotolata. Sedette in un angolo, vicino alla porta vetrata. Tirò fuori un pezzo di pane, e ordinò, non senza una certa solennità, “meza stupa”. Non disse, naturalmente, la qualità. Non dire la qualità significa, in quei luoghi, dire Dolcetto: così come nell’Astigiano significherebbe, invece, Barbera. Questa concisione è uno stile, che si acquista dopo secoli. Riconosci il vero torinese e il vero londinese alla breve, secca, quasi impercettibile mossa del mento, dal sotto in su, identica a quella del napoletano quando risponde “no”, ma con la quale il torinese, entrando in una bottiglieria, ordina un bicchiere di barbera, e il londinese, entrando in un pub, ordina uno scotch puro, senza acqua e senza ghiaccio. O forse sogno? Forse mi riferisco, senza volerlo, a un tempo irrimediabilmente perduto, a costumi che sono il solo a ricordare?

Anche per questo, ho voluto escludere dalle mie tappe piemontesi le zone più battute, i vini che hanno, ormai, conquistato l’Italia, i produttori e i mercanti ormai “scafati”, ormai abituati alla pubblicità: e non intendo, così, insinuare che usurpino la loro fama. Per carità! Semplicemente, giunto all’epilogo di questo viaggio, ho seguito, per una volta, solo il mio istinto; ho rinunciato a ragionare, a confrontare, a dubitare; e ho pensato bene di comunicare ai miei lettori le esatte scelte che sarebbero state le mie, se avessi viaggiato soltanto per il mio piacere privato, senza propositi letterari e senza preoccupazioni consumistiche. Almeno nel primo momento della scelta, ho preferito, a tutti gli altri famosi, buonissimi e moltissimi vini del Piemonte, gli ignoti o quasi ignoti, gli artigianali o quasi artigianali, i sublimi o quasi sublimi “vini dei Tre Vescovi”.