Nelle provincie di TORINO, VERCELLI e nella VALLE D’AOSTA Il Piemonte entra in lizza con una squadra di riserve. La “meza stupa” di un mendicante di Peveragno. Come si riconosce il torinese dal modo di chiedere la Barbera. Che cosa direste se in un torneo di calcio tra le sei regioni italiane che ho visitato in questo viaggio enologico alla ricerca di “qualche vino” genuino, ciascuna regione fosse rappresentata dalle sue squadre più forti, e cioè la Sicilia dal Palermo e dal Catania, la Campania dal Napoli e dalla Salernitana, la Toscana dalla Fiorentina e dal Pisa, la Lombardia dal Milan e dall’Inter, il Veneto dal Verona e dal Vicenza... ma che cosa direste se, per il Piemonte, invece della Juventus e del Torino, giocassero l’Eporedia, la Biellese, l’Aosta F.C.? Eppure, questa è la decisione che sono stato costretto a prendere. Lo so: è probabile che non lo fossi, costretto, ma semplicemente che “mi sia sentito”. Ceppi antichi e dolci dello sciovinismo! È probabile che, arrivando finalmente in Piemonte, a casa mia, io abbia rinunciato troppo presto e troppo volentieri a ogni tentativo di imparzialità e di giustizia. Ma, insomma, non mi sono mai presentato come un esperto di vini, non ho mai preteso di scrivere se non le mie impressioni personali, private, fuggitive, e affrontando il rischio, qualche volta, di sbagliare. Dirò dunque, senza esitare, che la superiorità vinosa del Piemonte mi è sembrata tanta e tale da doverne tenere debito conto proprio per un senso di equità, e da dovere, perciò, concedere a tutte le altre nostre regioni il beneficio di un massiccio handicap. Ecco perché non sono salito ai vigneti e non sono disceso nelle cantine dei più celebrati vini piemontesi, ecco perché non andrò oltre ai nomi di questa lista: Barbera, Barbaresco, Barolo, Grignolino, Brachetto, Dolcetto, Freisa, Bonarda, Moscato, Asti Spumante, Ghemme, Boca, Barengo, Sizzano, Fara, Gattinara, Caramino di Briona, Care, Bruschetto, Campiglione, Chiomonte, Gavi, Pelaverga, Prunent, Ramier, Timorassa, Finiere, Vespolino... E la lista dovrebbe essere ancora più lunga. Una buona metà, almeno, di questi nomi dovrebbe essere moltiplicata, dato che per ciascuno di questi vini, almeno per i più noti e importanti, esistono innumerevoli varietà, corrispondenti agli innumerevoli paesi dove si produce un vino simile e con lo stesso nome. Non mi stancherò mai di ripeterlo: il nome di un vino non è mai completo se non con l’aggiunta, per le qualità più comuni, del cognome della zona, e, per le qualità più pregiate, anche del “predicato del podere”. Per le qualità eccelse, infine, è necessario anche menzionare il “sottopredicato” della vigna, di quel particolare angolo del podere dove sono state raccolte le uve. In ogni caso, insisto, il nome della zona non deve mai essere dimenticato. E non si tratta di una raffinatezza esagerata e troppo raramente praticabile: si tratta, invece, della più semplice, della più umile, sebbene anche della più saggia di tutte le esigenze: la stessa, antichissima e invariabile, del contadino in viaggio, quando siede a tavola d’osteria: “Mi porti un litro di vino del posto.” Va da sé che è vino di botte, salvo in quei posti dove l’usanza, da Natale in poi, è di consumare soltanto vino di bottiglia. Fa bisogno di dire che è un’usanza, a quanto mi consta, esclusivamente piemontese, ed anzi della provincia di Cuneo? A Peveragno, ricordo, un pomeriggio di marzo, in un’osteria infima, vidi entrare un mendicante, un vecchio vagabondo di quelli che ormai non se ne vedono più: aveva a tracolla due o tre tascapani rigonfi, una gavetta, una padella e una mantellina grigio-verde arrotolata. Sedette in un angolo, vicino alla porta vetrata. Tirò fuori un pezzo di pane, e ordinò, non senza una certa solennità, “meza stupa”. Non disse, naturalmente, la qualità. Non dire la qualità significa, in quei luoghi, dire Dolcetto: così come nell’Astigiano significherebbe, invece, Barbera. Questa concisione è uno stile, che si acquista dopo secoli. Riconosci il vero torinese e il vero londinese alla breve, secca, quasi impercettibile mossa del mento, dal sotto in su, identica a quella del napoletano quando risponde “no”, ma con la quale il torinese, entrando in una bottiglieria, ordina un bicchiere di barbera, e il londinese, entrando in un pub, ordina uno scotch puro, senza acqua e senza ghiaccio. O forse sogno? Forse mi riferisco, senza volerlo, a un tempo irrimediabilmente perduto, a costumi che sono il solo a ricordare? Anche per questo, ho voluto escludere dalle mie tappe piemontesi le zone più battute, i vini che hanno, ormai, conquistato l’Italia, i produttori e i mercanti ormai “scafati”, ormai abituati alla pubblicità: e non intendo, così, insinuare che usurpino la loro fama. Per carità! Semplicemente, giunto all’epilogo di questo viaggio, ho seguito, per una volta, solo il mio istinto; ho rinunciato a ragionare, a confrontare, a dubitare; e ho pensato bene di comunicare ai miei lettori le esatte scelte che sarebbero state le mie, se avessi viaggiato soltanto per il mio piacere privato, senza propositi letterari e senza preoccupazioni consumistiche. Almeno nel primo momento della scelta, ho preferito, a tutti gli altri famosi, buonissimi e moltissimi vini del Piemonte, gli ignoti o quasi ignoti, gli artigianali o quasi artigianali, i sublimi o quasi sublimi “vini dei Tre Vescovi”. Cosa c’era nella gerla dei Tre Vescovi. Una disputa non teologica conclusasi con la vittoria del vino di Morgex. Chi sono i Tre Vescovi? Proprio al centro della catena delle Alpi Biellesi, che si formano dalla propaggine più meridionale del Monte Rosa e la continuano, dal Corno Bianco alla Cima di Mombarone, poi precipitano tra Carema e Mongrando, e finalmente si protendono nella pianura padana con il loro sperone della Serra, è la vetta dei Tre Vescovi. Chi discende la Val d’Aosta da Courmayeur comincia a vederla all’orizzonte appena supera la grande svolta della confluenza con la Grisanche, tra Arvier e Saint Nicolas, e fino a Saint Vincent non la perde. Si chiama così, perché la raggiungono, lungo tre facce di piramide, i territori di tre vescovadi limitrofi: Biella, Ivrea, Aosta. Ora, si narra (seppure qualcuno, addirittura, non immaginò la leggenda) che un giorno i tre augusti prelati si fossero dati convegno sulla cima per non so quale ricorrenza religiosa, o inaugurazione di cappella votiva: e che ciascuno dei tre, con le sue guide montanare e il suo seguito di portatori, recasse seco le vettovaglie per una breve refezione che doveva seguire la cerimonia. Con i cibi, naturalmente, erano i vini. Nelle gerle del vescovo di Biella: bottiglie di Lessona, Masserano, Bramaterra, Mottalciata, vini vecchi, duri e potenti, provenienti da vitigni di puro Nebbiolo, e vino della Meisola, da uve di Nebbiolo miste a Bonarda, più morbido e più passante: i primi quattro furono bevuti con gli arrosti di cacciagione, il Meisola con la , specialità biellese. Nelle gerle del vescovo di Ivrea: Erbaluce, bianco secco, che fu bevuto con gli antipasti di tinche e di trote marinate, e con la carne secca di camoscio, ossia con la famosa , offerta dal vescovo di Aosta; poi Chiaretto di Cavaglià e Passito di Caluso, che furono serbati per le torte del dessert. Nelle gerle del vescovo di Aosta: Carema, anche quello figlio del Nebbiolo, e che gareggiò validamente con i cugini delle Prealpi di Biella; Chambave Rouge, gustato con le fontine e le varie tome; infine, vino bianco, secchissimo, di Morgex, da viti coltivate fino a 1200 metri, in vista del Monte Bianco. Non sappiamo se i tre vescovi abbiano disceso i sentieri con la stessa sicurezza con la quale li avevano saliti. Non sappiamo nemmeno se fossero a piedi o a cavallo di muli. È presumibile, inoltre, che si separassero fino dalla vetta: poiché il vescovo di Biella raggiunse Piedicavallo e seguì la Valle del Cervo, il vescovo di Aosta, invece, e con lui quello di Ivrea puntarono diritti su Gaby, e seguirono poi la Val de Lys. Ma è certo che, prima di separarsi, dibatterono tra di loro una questione importante: quale dei vini assaggiati, tutti veramente squisiti, poteva, a loro giudizio, essere proclamato l’eccelso? pulenta cunsa mocetta La controversia non durò a lungo: prima di tutto perché, sebbene fosse una splendida giornata di luglio, si era levato il vento e la sosta non era precisamente gradevole; ma poi perché, come accade a persone di buona fede, e loro lo erano, si misero rapidamente d’accordo. Le guide e i servi non avevano ancora finito di ripiegare le tovaglie e di riempire le gerle con i resti e con le stoviglie, che l’ fu riconosciuto nell’ , e cioè il Morgex: nato e coltivato a milleduecento e portato ai duemilacinque della cima era diventato, mercé questo semplice procedimento del trasporto in alto, uno spumante secco naturale, migliore di qualunque champagne francese che, come noto, ha bisogno di lunghe e complicatissime manipolazioni. eccelso al gusto eccelso alla radice Lo Chambave passito e lo Chambave Rouge. Un vino pigiato con i graspi. Separare quello che si ama da quello che ci dà da vivere. Col nome italianizzato di Giambava, il vino di Chambave era notissimo, già nel Settecento e per tutto il secolo scorso, non soltanto nel Regno di Sardegna, ma nel Lombardo-Veneto, e quindi alla Corte di Vienna, e negli Stati della Chiesa, e nel Granducato di Toscana. Era un passito: ma infinitamente più delicato degli Sfursàt lombardi, degli Amaroni veneti, degli Sciacchetrà liguri, dei Vini Santi del Granducato: per non parlare del Montefiascone, che doveva essere, anche allora, il più spesso e il più grossolano. Per influenza, forse, degli sherry e dei whisky, che l’onnitravolgente e crescente americanismo di ogni moda sta imponendo al palato di tutti gli esseri umani, da qualche lustro a questa parte i moscati, i passiti, i cosiddetti vini da dessert, col diminuire della richiesta, fatalmente decadono anche di qualità. Lo Chambave, che era sempre stato rarissimo, e che si era sempre prodotto in piccola quantità, è praticamente scomparso. Qualcuno, qualche lo fa ancora: per passione. Noi lo abbiamo gustato da Ezio Voyat, all’Albergo delle Vigne, la prima casa di Chambave, sulla vecchia via che dopo il casello autostradale di Saint Vincent conduce ad Aosta. particolare Il passito di Chambave è fatto con uve di Moscato Bianco, i cui grappoli si tengono, per più di un mese, appesi in stanze ben aerate. Si tolgono gli acini ammuffiti. Poi si sgranellano i grappoli, e si torchiano gli acini. La fermentazione avviene in piccoli tini. Si aggiunge zucchero a seconda del volume e della gradazione. Si travasa varie volte, asportando accuratamente la schiuma che si forma alla superficie. Finita la fermentazione, si svina e si procede all’invecchiamento, per almeno quattro anni, travasando almeno una volta l’anno. Poi si imbottiglia. Con l’età, lo Chambave passito ha questo di particolare: che, invece di schiarire, si incupisce e va verso un bel colore arancione scuro, quasi mattone. Inoltre, è sempre meno dolce. Ma chi c’è, ancora, che si dedica al Giambava? Ezio Voyat, che fa il mestiere di capocontrollo al Casinò di Saint Vincent per vivere, ma che vive per fare il vino, dalla disperazione si è dedicato a un altro vino del suo paese, allo Chambave Rouge, che in passato era semplicemente vino comune e consumato localmente ai pasti, ma che ormai, grazie alle sue cure, è diventato qualche cosa di unico, di caratteristico, di affascinante. Il Veronelli lo definisce un vino “netto e nervoso”. Io lo bevo e lo ribevo, come i Tre Vescovi, sui formaggi: e non riesco, per quanto ci studi, a definirlo come vorrei. È fresco, secco, scivoloso, amarognolo, come leggerissimamente affumicato. Mi ricorda, con più classe e più forza, il del resto buonissimo Chiomonte della Val di Susa. Naturalmente, la produzione, in entrambi i casi, è molto limitata. Antonio, il nonno di Voyat, era bottaio. Leonardo, il padre, ha cominciato lui a fare il vino ed ha insegnato al figlio. Le uve provengono tutte dai suoi vigneti, che sono qui intorno: due ettari, o poco più. Il vitigno si chiama Gros Vien: nome che, finora, non ho trovato in nessun trattato o manuale, tranne che negli indici dei principali vitigni compilati dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste, indici in cui il Gros Vien è chiamato anche Gros de Nus. Gradazione media: 12. L’uva matura presto, a fine settembre. La si pigia direttamente nella vigna, scegliendo con cura i grappoli migliori. Sono le donne anziane che scelgono. Le giovani tagliano i grappoli e li gettano nei zavàn (cavagne, ceste). E gli uomini pigiano su mastelli. Coi piedi? No! Pigiano col : un bastone che porta, all’estremità, un disco spesso, detto , e con un altro bastone che finisce con tre punte di legno, e che è detto, appunto, . . È la prima volta, da quando ho cominciato questo viaggio, lo scorso agosto, in Sicilia, che trovo qualcuno che . Quasi non credo alle mie orecchie. Voyat conferma: pigia , sulla vigna, dentro le brente (recipienti da cinquanta litri) e poi lascia fermentare nei mastelli (cento litri). fogliòu rosetta traïdènt Si pigia con tutti i graspi non diraspa con tutti i graspi coi graspi Ho poi sentito dire, e mi è stato confermato da Garoglio, che recentemente, in Francia, si stanno facendo esperienze interessanti per rivalutare per certi tipi di vini fini. il contatto con le vinacce È, certamente, il terreno, ed è il vitigno Gros Vien che conferisce allo Chambave Rouge questo sapore così buono e, insieme, così strano: ma deve entrarci, per qualche cosa, anche la permanenza del graspo! Prima fermentazione: sette, otto giorni: mai più di dieci, in ogni caso. Ogni giorno, mattina e sera, con la rosetta. Dopo questo periodo, . I mastelli sono su un soppalco: si tira in cantina, con un tubo e una griglia. si folla si tira Il vino sta in botte per dieci, quindici giorni, con un tappo soltanto . Dopo quindici giorni, si aggiunge la quantità necessaria , e si chiude ermeticamente. Ai primi di dicembre, primo travaso. Col primo travaso, si lasciano da parte i graspi, col vino che li copre: e si pigiano, e se ne fa un vinello buonissimo, leggero, fresco, che Voyat conserva per sé e per la sua famiglia, e consuma d’estate. appoggiato per fare il colmo A gennaio, secondo travaso. Ad ogni travaso, i primi e gli ultimi bottiglioni, che ovviamente contengono un vino meno pregiato, Voyat se li beve lui, subito. A settembre o ad ottobre, specialmente se l’annata è molto ricca di tannino, terzo travaso. A marzo del secondo anno, imbottiglia. In tutto, ogni anno, non fa mai più di dieci, dodicimila bottiglie. “Questo è empirismo,” dice testualmente Voyat, concludendo. Ma io, assaggiando il suo Chambave Rouge, trovo che è impossibile desiderare, a pasto, un vino migliore: diverso sì, ma non migliore. Adesso Voyat, con la stessa semplicità e con la stessa chiarezza con cui mi ha spiegato come fa il vino, mi racconta come è andata che ha preso impiego al Casinò: “Cosa vuole? Solo producendo e vendendo il vino, non ce la facevo a tirare avanti. Sono venuti, qui, un giorno, a bere un bicchiere di passito, il Conte Cotta e il signor Rivella, i padroni del Casinò. Mi conoscevano da anni, conoscevano mio padre. Avevano bisogno, al Casinò, di qualcuno di assoluta fiducia: per sorvegliare il gioco e gli stessi croupiers. Io non ne sapevo niente. Ho seguito la scuola dei croupiers. Ho fatto pratica, ho imparato tutto. E adesso, tutti i giorni, alle quattro del pomeriggio, mi metto la camicia bianca, lo smoking, e vado giù. Non ho mai giocato. Non mi interessa. Non gioco col vino e non vinifico il gioco.” Lo guardo con ammirazione. È un uomo ancor giovane, bruno, tarchiato, dallo sguardo vivo, dalla faccia intelligente. Il vino è l’unica cosa seria della sua vita, l’unica cosa che ama, oltre sua moglie e suo figlio. E forse è per questo che lo ammiro. Diceva Umberto Saba: “La sola vera fortuna di un uomo è di riuscire a vivere con un lavoro che ama.” Ma quando questo non è possibile, e purtroppo molte volte non lo è, la soluzione di Voyat, separare nettamente ciò che si ama dal lavoro che ci fa vivere, mi pare ideale. La nobile muffa che dà profumo al Passito di Caluso. La mia freddezza per i vini da dessert delude il dottor Gnavi. Piccoli e grandi vini. L’Erbaluce secco. “Le viti ed i vini della provincia di Ivrea.” A Caluso ci aspetta, all’Istituto Professionale di Stato per l’Agricoltura “Carlo Ubertini”, il dottor Corrado Gnavi, direttore della Scuola di Enologia e Viticoltura. I vini di Caluso sono due: il Passito e l’Erbaluce secco. Erbaluce si chiama, anche, il vitigno da cui provengono i grappoli dell’uno e dell’altro tipo, che sono, naturalmente, due vini diversissimi. Il Passito è di un bel colore giallo oro, che qualche volta tende all’ambrato: è un vino dolce, da dessert. Si parte sempre da grappoli scelti, e cioè ben dorati, bene “abbrustoliti” di uva Erbaluce. Si raccolgono delicatamente e si portano a casa con grande riguardo perché non si acciacchino. Si mettono subito ad appassire, o appesi a fili o sparsi su stuoie, nei , nei solai, con le finestre aperte. Durante il periodo dell’appassimento, che dura dal momento della vendemmia fino a marzo o ad aprile, le uve sono sorvegliate giorno per giorno, e si eliminano via via i grappoli attaccati da muffa o anche uno per uno gli acini, usando le forbici. “Ma attenzione,” spiega il dottor Gnavi, “durante l’appassimento si sviluppa anche la Botrytis Cinerea, che ha una funzione utile e specialissima: perché produce, durante l’inverno, una forma larvata di fungo, una , che intacca solo l’interno dell’acino e non l’esterno come tutte le altre muffe... Ora, gli acini attaccati da questa particolare muffa si presentano di color cuoio, avvizziscono più presto, e sono, contrariamente all’apparenza, i migliori. Essi contengono il caratteristico profumo, il bouquet del Passito di Caluso.” A fine marzo, dunque, o ai primi di aprile si pigia e si torchia. La fermentazione avviene in botti di castagno o di rovere, e dura, con frequenti travasi, almeno tre anni. Ma il Passito non deve mai essere consumato se non dopo cinque. La gradazione media si aggira sui 14. Va servito alla temperatura di 18°, e stappando la bottiglia qualche ora prima. Infine, va bevuto in bicchieri panciuti, così da riscaldare il contenuto con la palma della mano. E il cristallo deve essere liscio, sottile... Tutto questo raccomanda il buon Gnavi, e ha certamente ragione. Ciononostante, resto freddo. È chiaro che ho subito anch’io l’influsso della moda universale, e che i vini da dessert non riescono ad entusiasmarmi. Può darsi, che, in futuro... chissà mai che un giorno... Ma, per adesso, la mia attenzione si rivolge, ansiosa, all’altro tipo, all’Erbaluce secco. Vinificazione in bianco, fuori dal contatto delle bucce e dei raspi. È un vino fresco, limpido, brillante, di colore giallo paglierino, con un profumo lieve, ma sottilissimo: e di sapore appena fruttato, ma secchissimo. Gradazione alcoolica sugli 11. Va servito freddo, non gelato. Non va bevuto più vecchio di due anni, al massimo tre. sulé muffa nobile Secondo me, il dottor Gnavi, forse perché tutto preso dal suo Passito, che è un gran vino e che richiede ben altre cure, mi ha l’aria di non dare all’Erbaluce secco tutta l’importanza che invece merita. D’accordo, in confronto col Passito, l’Erbaluce secco è un piccolo vino: ma quale meraviglia! quale rarità! quale finezza! È il caso, a questo proposito, di ricordare la teoria del famoso esperto anglo-francese André L. Simon. “Io sostengo,” scrive Simon nella Introduzione al suo volume , “che parecchi di questi vini possono e spesso meritano essere chiamati vini, allo stesso modo che un nostro amico, ignoto come personalità pubblica, può essere, e a volte è davvero, un grande compagno che non è stato mai un grand’uomo. Poche persone al mondo sono ancora vive oggi, che abbiano apprezzato e goduto più vini e migliori vini di me, nel corso di una vita ormai lunga e giustamente vinosa, ed io posso, sul mio onore, garantire che ricordo gli amichevoli, incantevoli, giovevoli vini con altrettanta riconoscenza dei più rari e più cari e più .” In altre parole, il vino è, di solito, un vino che va bevuto giovane; mentre il vino va bevuto vecchio. Si tratta di una classificazione secondo la razza; e non secondo il merito. Esistono piccoli vini sublimi, e grandi vini mediocri. Allo stesso modo che aristocratici, miliardari od eruditi possono, anche, essere uomini sciocchi e di animo volgare, e mendicanti e ignoranti possono essere persone geniali e gentili. Vi sono, infine, casi, circostanze, momenti, umori, in cui, sia pure a parità di condizioni, e cioè potendo scegliere tra un ottimo grande vino e un egualmente ottimo piccolo vino, si preferisce quest’ultimo. The Noble Grapes and the Great Wines of France piccoli grandi piccoli grandi piccolo grande È il caso dell’Erbaluce secco. Che, tra tutti i piccoli vini bianchi secchi prodotti da un’azienda e forniti di regolare etichetta, è quello da me più amato: il più tenue, il più modesto, il più leggero. Vi antepongo soltanto certi bianchi “sciolti”, fatti, per così dire, “in casa”: vini senza nome e senza arte: ma che, naturalmente e a differenza dell’Erbaluce, non sopportano neanche un viaggio breve, e devono essere bevuti al massimo entro una settimana dal momento che sono stati spillati dalla botte, e non più lontano di una trentina di chilometri in linea d’aria dal luogo dove sono stati pigiati. Lasciamo Caluso a notte alta. Il dottor Gnavi mi regala alcuni opuscoli. C’è il volume secondo di un , pubblicato da Giuseppe Frola: vedo che nel Canavese si parlava, molto seriamente, del vino di Caluso già nel 1510. E c’è un affascinante libretto, di Lorenzo Francesco Gatta: , pubblicato a Torino, dalla Tipografia Chirio e Mina, nel 1833. Fa parte del “Calendario Georgico della Reale Società Agraria di Torino”. Ecco tabelle, elenchi, tavole sinottiche delle varie uve, minuziosamente divise zona per zona, e suddivise paese per paese, quasi vigna per vigna. Ed ecco una lista di trenta diversi vitigni, intitolata “Descrizione Geoponica”, dove, per ciascun vitigno, sono riportate tutte le varie e possibili denominazioni, in lingua e in dialetto, e poi i luoghi dove le osservazioni sono state eseguite, e infine la descrizione perfetta della pianta, dei “sermenti”, dei nodi, del midollo, dei cirri, delle foglie, del raspo, dei peduncoli, degli acini, dell’uva se mangereccia, del vino. Si comincia col N. 1 Nebbiolo Maschio (nebieul masc, nebieul gros, pautëner, picutëner) che è il re dei vitigni piemontesi ma anche di altre regioni, come per esempio la stessa Valtellina; e si continua con il N. 2 Nebbiolo Femmina, e con vari altri Nebbioli, poi coi Neretti, con le Freise e le Freisette, con il Mossano, il Carcarone, il Tadone... Da perdersi, da sognare, ma soprattutto da rammaricarsi: se più di centocinquant’anni or sono i vitigni in Piemonte erano oggetto di tanto studio e tanta cura, e di confronti così sottili, e di così raffinate distinzioni, chissà come dovevano essere squisiti i vini bevuti allora dai nostri antenati! Nemmeno i tre ponderosi e magistrali volumi del del Garoglio, benché infinitamente più ricchi di scienza chimica e biologica, contengono descrizioni altrettanto precise e minute dei vitigni. Dobbiamo forse concludere che l’enologia è in ribasso? Corpus Statutorum Canavisii Le viti ed i vini della provincia di Ivrea Trattato Certo no. Ma la lettura di questo umile libretto, con il suo affannoso puntiglio nel notare tutte le forme dialettali dei nomi, mi suggerisce un’immagine della prima metà del secolo scorso come di un’Età dell’Oro dei vini piemontesi: dopo la quale essi non potevano, in fatale concomitanza con la fine dell’autonomia politica e con l’inizio dell’unità nazionale, se non decadere. Non voglio sciupare la Carema del mio ricordo. Le colonne-stufa in stile dorico. Il giorno dopo, siamo di nuovo sull’autostrada Torino-Aosta, in rotta per Morgex. Per la terza volta passiamo davanti a Carema senza fermarci: è un effetto dell’autostrada, certo, e cioè di quella “scorrevolezza” che poteva essere interrotta benissimo, ma soltanto con un preciso e non pigro atto della nostra volontà. E la nebbia, che nascondeva tutto, e la memoria, che conservava invece per noi, in fondo alla camera oscura di venti anni ormai trascorsi, una stereoscopica, smaltata visione di Carema e delle sue colonne di pietra inghirlandate di vigna, ci hanno sconsigliato. Compiere lo sforzo di uscire al casello di Quincinetto, rivedere Carema, poi rientrare? E per che cosa? Non per assaporare il Carema, che, a Milano, in corso Magenta, dall’onesto Provera, pochi passi da casa mia, trovo regolarmente, e che mi pare sempre quello di una volta, se non addirittura migliore, ma per soffrire il gusto della corruzione e dello sgretolamento, ma per trangugiare l’amarezza non gradevole di constatare coi propri occhi lo scempio sciocco e delittuoso, lo strazio che è stato fatto di uno dei paesaggi più belli del mondo? Carema, la città-vigneto, che vedemmo la prima volta, circa vent’anni fa, in tempo di vendemmia, e sotto la pioggia: “... sotto la pioggia, che batte strepitosa e allegra, continua il traffico proprio a questa strana, unica città: passano contadine con brente sulle spalle, con tubi di gomma attorno al collo. Dagli scantinati delle rare casette, che incontriamo inoltrandoci in questo immenso labirinto di gallerie verdi e di rustici colonnati, ci investe, nella pioggia, profumo di vino giovane. Finché comprendiamo il motivo della nostra gioia, e ci diciamo che da qualche minuto stiamo provando quella stessa sensazione violenta e irrepetibile che ci colse quando la prima volta giungemmo a Venezia, a Nuova York, a Parigi, e per la prima volta vedemmo le gondole, i grattacieli, il métro. Carema ha una struttura strana e meravigliosa, che le deriva appunto dalla sua ubicazione e dalla sua funzione, appunto come Venezia e Nuova York. Non diversamente da queste città, la sua bellezza è unica...” E adesso? e adesso mi dicono che hanno già incominciato ad allargare le strade, ad abbattere i muretti, e a distruggere le colonne di stile dorico arcaico, o piuttosto a venderle a costruttori ed arredatori, che variamente le impiegano, per figura, nei coacervi decorativi delle nuove ville o palazzine! Vent’anni or sono, si parlava, a Carema, di una Cantina Sociale. Previdi che se questi progetti si fossero attuati, se le uve fossero state portate all’ammasso, il vino di Carema, col suo gusto inimitabile di sole e di pietra, che si infiltra nella dolcezza amarognola del Nebbiolo, sarebbe scomparso: e lo scrissi: e, fortunatamente, sbagliai. La Sociale è stata fatta; ma con tanta serietà, con tanta cura e scienza, che il vino di Carema, oggi, supera quello di una volta: caso più unico che raro. Ma dove andiamo male è nella distruzione del paesaggio vegetale e architettonico. Perché, i caremesi, sembra che non abbiano capito il segreto del loro vino. Le tozze colonne doriche, così belle e così enormi, in mezzo alle vigne, non servono soltanto di sostegno, e, perciò, : esse trattengono il calore del sole anche dopo che il sole è tramontato, e, quasi stufe, lo riflettono sui tralci e sui grappoli, smorzando e sfumando quel quotidiano abbassamento di temperatura, fra il giorno e la notte, che in montagna è molto più sensibile che non in collina o in pianura, e molto più dannoso alla maturazione delle uve. Per ora il vino di Carema pare ancora “lui”: ma se distruggeranno le colonne, se le venderanno, se le sostituiranno con paletti falsamente più razionali, sarà davvero la fine. non sono sproporzionate No, non ho avuto il coraggio di uscire dall’autostrada e di entrare in Carema. Ciò che mi era stato riferito mi bastava. Tengo, così, una speranziella. Forse le cose non sono così gravi come dicono. Chissà! Sarei veramente felice, su Carema, di sbagliarmi una seconda volta! Il vino più alto d’Europa. A Morgex non trovo il Morgex. Conosco però l’abbé Alessandro Bougeat. Una frase del Cardinal Pacelli. Appuntamento notturno a fondo valle. Avevo provato il vino bianco di Morgex perché me ne aveva regalato una dozzina di bottiglie l’amico Renzo Balbo di Cossano Belbo, medico, cavalcatore, cacciatore terrestre e subacqueo, intenditore anche di vini. “Bevile con religione,” mi disse, perché era già una persona saggia nonostante l’età allora giovanissima, “il Morgex è forse il vino più raro di tutto il mondo: è certamente quello le cui vigne sono piantate più in alto!” Lui era giovanissimo, e io... io non avevo ancora letto il Garoglio, e non sapevo che non solo sui versanti delle valli a sud del Monte Bianco, ma anche a nord, anche nel Vallese, e precisamente sulle “balze rocciose di Visperterminen”, alte sulle sponde del lago di Ginevra, i vallesani coltivano i ceppi dello Chasselas, e ne traggono il loro “vigoroso, dorato, frizzante” Fendant. La Vernaccia di San Gimignano mi ricordava il Fendant: spero, non troppo a sproposito. Ho scritto a Garoglio per sapere se i vitigni della Vernaccia di San Gimignano, del Fendant e del Morgex si assomigliano botanicamente. Garoglio mi ha risposto che “gli altri vitigni sono piuttosto da assimilare a uno Chasselas Dorato, mentre le Vernacce si possono paragonare all’Erbaluce. La Vernaccia di San Gimignano si fa risalire al nome di Uva Greca, e pare che non abbia molto a che vedere con la Vernaccia di Oristano, quella sarda. Mentre il Morgex Bianco, detto anche Blanc de Morgex, pare sia proprio un vitigno portato dal Vallese, e, quindi, da paragonarsi al Fendant”. In ogni caso, il gusto del Morgex, me lo ricordavo meno aromatico e meno profumato degli altri due, ma più sottile, più delicato, più leggero, vorrei dire più aereo. Era davvero il vittorioso vino dei Tre Vescovi, nel mio ricordo. Avevo, poi, l’altro giorno, acquistato in Aosta alcune bottiglie etichettate Morgex, ma avevo capito, fino dal primo sorso, che si trattava di un vino qualunque, prodotto forse nella Val d’Aosta ma ad un’altezza minore. E, infine, avevo gustato altre bottiglie messe in commercio con l’etichetta Morgex: era vino ignobilmente truccato, e cioè confezionato, come purtroppo infiniti altri bianchi secchi venduti oggi in tutta Italia, con un vino di Sicilia malamente schiarito e alleggerito. Il sapore era addirittura repugnante. Quel liquido giallognolo non poteva essere chiamato vino; e non sono neppure sicuro che non fosse velenoso. Prima di partire alla volta del Monte Bianco e alla ricerca del vero Morgex, se ancora ne esisteva, telefonai dunque a Renzo Balbo. Dove aveva preso Morgex? Chi glielo aveva dato? Glielo aveva dato un suo paziente riconoscente: ma Renzo non ne ricordava il nome. Mi indicò la località: Villair, una frazione di Morgex, sul versante nord della valle, antiche casette strette intorno a una piccola chiesa, e dietro le quali salgono verso la parete rocciosa lembi di prati e spalti di vigne. “C’è una fontana,” mi spiegò, “e c’è una casa coi poggioli di legno intagliato, e c’è una meridiana sulla casa, che si affaccia, perciò, a mezzogiorno. È lì che abita il mio paziente di allora, la persona che ha pigiato, dai propri vigneti, il Morgex.” quel Lo sperone del Monte Cormet, che divide Morgex da Courmayeur, impedisce, agli abitanti di Morgex, di vedere il Monte Bianco. I ghiacciai sullo sfondo dei vigneti di Morgex sono quelli della Punta Léchaud e del Monte Miravidi: stanno tra il massiccio del Bianco e il Colle del Piccolo San Bernardo. Per fotografare la vera cima del Bianco e, in primo piano, i vigneti, abbiamo dovuto salire al Villaret, una frazione del comune di La Salle, quattro chilometri prima di Morgex. La giornata era sublime, come se ne hanno solo d’inverno in montagna. Il cielo, immacolato: di un blu, verso oriente, così denso che tendeva al nero. E a quando a quando lo solcava, nastro lunghissimo, candido, sottile, appena appena sfrangiato, la scia di un jet: la traccia della solita rotta, tra il radiofaro di Caselle e il radiofaro di Ginevra. Il sole scottava. L’aria frizzava come il vino. Lasciammo la macchina e salimmo a piedi, per una mulattiera. Trovammo i vigneti ordinatamente disposti su un altipiano che costeggia il fondovalle come un bastione e che è più elevato dello stesso Morgex: siamo tra i mille e i milledue. E il Monte Bianco è lì, immane, ghiacciai bianchiazzurri e rocce nere, ma così ben proporzionato che colpisce non tanto per l’altezza e l’immensità quanto per la bellezza della forma e dei colori. Accade così anche per qualche capolavoro dell’architettura umana, per esempio il Partenone o San Pietro. Stupiva, osservando attentamente i ghiacciai sotto la cresta, distinguere ombre e luci, trasparenze e superfici quasi di seta, variazioni delicatissime dal bianco al celeste: erano, dei ghiacciai, quelle parti volte ad oriente e già in ombra, ma illuminate, di luce riflessa, dagli specchi solari dei ghiacciai che non vedevamo e che scendevano di là dalle creste, sui versanti francesi. Nel calore del sole e nella freschezza dell’aria che si combinavano in un effetto immediatamente inebbriante, restammo lungo tempo immobili, mentre mio figlio andava di qua e di là, arrampicandosi sui muretti o sui rami, e cercando le migliori inquadrature. Sullo sfondo della più alta montagna d’Europa e, relativamente alla latitudine, del mondo intero, non ci stancavamo di ammirare i lavorati ricami dei vigneti: più belli così d’inverno, capivo, perché, spogli dei pampini, rivelavano più chiaramente i geometrici fregi, la fantasia frenata, la graziosa opera delle loro umane strutture. Mi ricordai, in quel momento, dei vigneti di Pachino e di Capo Passero: di quelli che decorano l’estrema punta meridionale della Sicilia, sullo sfondo dello Ionio solcato dai mercantili sulla rotta di Gibilterra, Malta e Trieste, così come, qui, il cielo sul Monte Bianco è solcato dalla rotta dei jet. La vigna, mi dissi, è la pianta che può simboleggiare l’Italia. Non solo l’Italia, tra tutti i paesi della terra, è quello che produce la maggiore quantità di vino; ma non c’è nessuna delle nostre regioni che non ne produca. Lasciar decadere questa tradizione, perdere questo patrimonio millenario, vorrebbe dire, molto probabilmente, cominciare a sparire come nazione. Arriviamo a Morgex e andiamo subito al Villair. Ecco la fontana, ecco la vecchia casa con i poggioli di legno intagliato e con la meridiana. Dice: / / Bussiamo. Abita lì da sempre Silvio Vetticoz, suo padre e la sua famiglia. Non conoscono il dottor Balbo, e non fanno il vino. Non sanno dirmi niente. L’heure de la mort est pénible / à la fuir reste impossible 1884. Giro dietro le case: e vedo subito i prati e le vigne. I sostegni non sono più colonne doriche, come a Carema: ma ritti di pietra grigia, lastre rettangolari, tutte sfrangiate, e simili, specialmente adesso che sono nude, a rustiche lapidi cimiteriali. Ma il calore del sole è trattenuto e riflesso dalle rocce, che sorgendo tutto intorno dai prati, sovrastano e accolgono i vigneti come in una serie di naturali piccoli anfiteatri. Su una pietra che è alla testa della prima vigna, sono incise rozzamente queste lettere e questa data: B J B 1889. Il sole ormai è scomparso. Nell’aria improvvisamente fredda e bluastra, ci accorgiamo di non avere ancora fatto colazione. Sono quasi le tre. I ristoranti indicati sotto il nome Morgex dalla guida del Veronelli sono chiusi: aperti solo d’estate. Corriamo a Courmayeur, al Chamois, e mentre ci rifocilliamo interroghiamo il maître. Parla con accento piemontese, ma è di Livorno: il signor Alberto Fatarella, cugino di Carla Fatarella, un’attrice del cinema tra gli anni ’35 e ’40, che tutti hanno dimenticato: tutti meno quelli che l’hanno conosciuta personalmente! Altissima, bruna, sottile, dai grandi occhi neri, dalle mani davvero di fata: per quelli che l’hanno conosciuta è rimasta indimenticabile. “Come posso, caro Fatarella, trovare l’autentico vino bianco e secco di Morgex?” “L’abbé Alessandro Bougeat,” risponde pronto il maître, “è l’unica persona, in tutta la valle, che fa ancora il Morgex. Guardi, tra mezz’ora deve venire qui, lo aspettano per l’inaugurazione della nuova scuola media...” Telefono all’abbé Bougeat, e mezz’ora dopo ho il grande piacere di conoscerlo. Nel nostro viaggio mancava un sacerdote. Eccolo finalmente. Ma il destino, o piuttosto la Provvidenza, vuole che rimandiamo il nostro colloquio: lui è impegnato per la cerimonia della scuola, e io ho appuntamento, alle porte di Carema, col signor Alfredo Peróno. Faccio appena in tempo a raccontargli la nostra vana ricerca, al Villair, del vinificatore paziente del dottor Balbo. Che sia possibile rintracciarlo? Forse attraverso il medico condotto? L’abbé Bougeat, molto gentilmente, si assume l’incarico, e gli do le indicazioni necessarie. Tornerò a Morgex prima di domenica. Saluto l’abbé. Stringendogli la forte mano, guardandolo diritto negli occhi scuri e ridenti, intuisco che la Provvidenza ha disposto anche questo: che io concluda il mio viaggio proprio con lui, e che non potrei concluderlo meglio. Leale amico, Bougeat, nel segno del vino leale, e “in quell’umile fede nel mistero dei misteri a cui il frutto della vigna è così strettamente legato”: così scrisse, il 26 gennaio 1935, il Cardinale Pacelli, non ancora Papa, ringraziando per il dono di alcune bottiglie di vino di Capri il vecchio Patrizi, padre del nostro Ettore. Ma possiamo sottoscrivere tutti. Perché no? Che cosa non è mistero intorno a noi? Peróno, operaio alla Châtillon, non ha ore libere se non a sera, dopo il lavoro. È lui che si occupa del vino di Carema. L’appuntamento notturno, al fondovalle, alla prima casa del paese, favorisce il mio piano di evitare ad ogni costo di rivedere Carema. Speriamo soltanto che abbia un numero sufficiente di bottiglie da potere consigliare a chi mi legge la visita e l’acquisto. Confesserò, ora, che questa, appunto, è stata, fino dal principio di questo viaggio, la più grande difficoltà che mi sono trovato a dover superare. Generalmente, i vini migliori erano prodotti in quantità così minima che ho sempre temuto di non poterli consigliare. La regola che si può ricavare da questa sofferta esperienza è la seguente: Lo strano, piuttosto, consiste nel prezzo: che non è mai proporzionato, come invece si penserebbe, a tale rarità. Generalmente, in Italia come in Francia, i vini peggiori sono proprio i più cari e i meno rari! ogni vino veramente buono e genuino è prodotto in piccolissima quantità. Non conosce il Piemonte chi non ha visto le vaude e le baragge. I colori del Kilimangiaro. Il Mesolone: un vino da compagnia. Chi non conosce le vaude e le baragge non può dire di sapere che cos’è il Piemonte. “Sparuti avanzi di antichi boschi, sparsi tra sodaglie semisteppose e fra sterpeti in cui predomina l’erica, sono tipici dell’alta pianura torinese, nella regione delle vaude (vaude di San Maurizio, di Ciriè, di Lombardore) e dell’alta pianura biellese e vercellese, in corrispondenza delle baragge (baragge di Candelo, di Santa Maria, di Carisio, del Brianco, di Rovasenda, ecc.).” così la guida del Touring, nel suo stile involontariamente poetico. La baraggia biellese è una zona relativamente selvaggia, che bisogna attraversare per raggiungere, dalle risaie della vera pianura, i vigneti delle prime colline. Oggi era stupenda. Nel sole invernale, sullo scenario violetto e bianco delle Alpi, la baraggia erano immensi boschi fitti di querce, ed erano, alternatamente, campi sterminati di altissime erbacce filamentose, tutte di un compatto, caldo, vivo, splendente giallo zabajone, su cui tornavano a spiccare, qua e là, i rossi ruggine di alcune querce isolate. I medesimi colori di certi altipiani del Kenia, alle pendici del Kilimangiaro. Con qualche leone affittato da un circo equestre e con un centinaio di comparse africane, sarebbe possibile produrre sottocosto un autentico film-safari! Dalla baraggia, approdiamo alla collina di Brusnengo, detta della Meisola, dove si fa il vino Mesolone. Mi attendono i Beccaro padre e figlio, Armando Beccaro, da non confondersi con quel Beccaro di Acqui, notissimo per il Vermouth. Questi Beccaro qui si sono specializzati nel Mesolone: lo pigiano da uve raccolte esclusivamente dai loro privati vigneti. Composizione 60/70% Nebbiolo, 40/30% Bonarda, e un po’ di Vespolino. Si pigiadiraspa, dice Franco Beccaro, il figlio, che è enologo diplomato alla scuola di Alba. Poi il vino fermenta per tre settimane. Due travasi il primo anno, un travaso all’anno per i due o tre anni successivi. Al terzo, o al quarto anno si imbottiglia. Il Mesolone è un vino estremamente simpatico: proprio per il suo carattere medio, passante, e cioè gustoso, corposo, serio, sì, ma non troppo impegnativo. È un vino che consiglierei sempre , e il numero e la confusione impedirebbero di assaporare nel dovuto e religioso silenzio i vini sublimi, piccoli o grandi che siano, quelli che bisogna bere adagio, tra pochi amici e poche parole. No, il Mesolone è un vino da festa, da chiasso, da grande e allegra “mangiata”: specialmente se si è decisi, nonostante la compagnia, ad evitare ogni tipo di vino spumante o spumoso. quando si è in molti a tavola Dalle colline della Meisola a quelle di Lessona il tragitto è breve. In macchina, sfoglio un opuscoletto sul Mesolone, che i Beccaro mi hanno dato: e, con stupore, mi accorgo di una contraddizione con le parole del Beccaro figlio: che il padre stesso, con la sua presenza in quell’attimo silenziosa, sembrò confermare. L’opuscolo dice che per ottenere il Mesolone le uve messe a fermentare non vengono, prima, diraspate. A chi dobbiamo credere, dunque? E come si spiega la contraddizione? O si diraspa, o non si diraspa. I vecchissimi Lessona di Fausto Provera. Non è una raffinatezza stappare certi vini ventiquattr’ore prima. A casa di Venanzio Sella faccio un pranzo stendhaliano. Tra vecchi torinesi. Scopro che la villa dei Sella è anche un poco mia. Una scienza infinitamente complicata e controversa. Le macchine per diraspare stanno lì soltanto per figura? Un dubbio sui tappi del Brunello. A Lessona Castello ha sede l’azienda vinicola Sella, che conosco da molti anni: da quando Fausto Provera, toujours Proverà, dal sacrario del suo negozietto in corso Magenta a Milano, e dalla cripta che è il cuore del sacrario, estrae ogni anno per me e per i miei cimici, bottiglie di Lessona, ricche ciascuna della sua sottoveste, della sua totale camicia rossobruna. È un vino ormai , tutto esterificato: non un vin santo, intendiamoci: ma un vino così vecchio, quelle bottiglie del Provera, che si direbbe pura fragranza, puro effluvio, puro spirito. Il colore è arancione-rosa. Il sapore è sottilissimo. Ma è indispensabile stappare le bottiglie molte ore prima: le bottiglie più vecchie, quelle, cioè, di quindici o venti anni or sono, bisogna stapparle un giorno per l’altro. Non mi stancherò mai di insistere su questo precetto. Quasi tutti credono che si tratti di un miglioramento, sì, ma non decisivo: di una ricercatezza, di una raffinatezza di cui si può anche fare a meno. E, siccome è sempre più difficile, oggi, sapere in anticipo chi verrà o non verrà a colazione, e quale precisamente sarà il menu, e se avremo, o no, voglia di bere una bottiglia di vino serio e robusto come appunto il Lessona, quasi tutti, fatalmente, ci persuadiamo volentieri che lo stappare prima non sia poi così importante. Bene. Vi prego di credermi sulla parola, adesso. Certi vini, se non sono stappati prima, e anche, se è il caso, ventiquattro ore prima, sono imbevibili: non meno buoni, ma letteralmente imbevibili. Bisogna, infine, avere un’altra accortezza: stappare le bottiglie, e “spuntarle”: ossia, senza scuoterle troppo e versando delicatamente, toglierne un mezzo bicchiere. santo Mi era già stato detto che la famiglia Sella del Vino era la stessa dei Sella della Tessitura e della Banca: ed era, soprattutto, la stessa famiglia del grande Quintino (Sella di Mosso 1827-Biella 1884), industriale, economista, uomo politico, cristallografo, mineralogista, scienziato, alpinista e fondatore del Club Alpino... Restauratore dell’erario italiano, uomo d’ordine e di destra, ma giusto, moderno, energico, Quintino Sella inventò alcuni slogan che rimasero famosi: “economia fino all’osso”, “guardare le spese con la lente dell’avaro”, e si capisce benissimo come non abbia esitato, a un certo momento, anche ad affrontare una certa impopolarità. Ma è proprio di questi uomini che il .nostro paese ha sempre avuto maggiore bisogno. Venanzio Sella è suo discendente. È lui che si occupa del vino, è lui che sa tutto e fa tutto col Lessona: aiutato, tuttavia, e seguito da alcuni suoi giovani nipoti, specialmente da Maurizio Sella, che è impiegato a Biella nella Banca di famiglia. Avevo sentito parlare di Venanzio come di un personaggio eccezionale, non indegno del grande avo. Ero curiosissimo di incontrarlo. Giungemmo a Lessona sul mezzogiorno: e vedemmo di lontano, proprio in vetta a un poggio ricoperto di vigneti e segnato di cipressi, una casa bianca, antica, giusta di proporzioni, di nobile architettura fine Settecento o principio Ottocento. Non poteva essere che là. Arrivammo a Lessona Castello per le deserte vie acciottolate. Non c’era nessuno a cui domandare. La luce, l’ora, il momento, parevano riportare indietro, come per magia, all’epoca in cui il mezzogiorno era universalmente rispettato. Incontrammo un muro di cinta, e lo seguimmo: e senza esitare, quasi senza guardare, entrammo in un cortile severo, nudo, un po’ triste, certamente il cortile d’ingresso della vecchia Villa Sella: a destra il porticato per la rimessa delle carrozze e gli stallaggi: a sinistra il retro della casa, e, al centro, la porta-finestra, con quattro gradini di pietra. Due giovanotti ci vengono incontro: uno è Maurizio Sella, biondo allobrogo, testa rotonda, inequivocabilmente piemontese; l’altro è Fabrizio, magro, scavato, bruno, il figlio di Venanzio. Ed ecco Venanzio stesso: ancora più magro e ancora più scavato del figlio: affilato si direbbe con la sgorbia, come certe sculture romaniche: bruno anche di pelle, ma vivissimo per un sorriso di divertimento che gli increspa gli zigomi e le labbra: come se la molteplice vita, le successive realtà che gli si presentano continuassero a suscitare in lui una ilarità gioiosa, che lui, a stento, riesce ogni volta a frenare. Ci siamo appena stretti la mano, che già parliamo fitto fitto, lui e io, interrompendoci a vicenda ogni mezza frase, e tuttavia comprendendoci perfettamente, musicalmente, come se ci fossimo sempre conosciuti. Ritrovo in Venanzio Sella, oltre quel sorriso, un certo modo di gestire, di saltare da un argomento all’altro secondo una logica profonda quanto poco appariscente, un modo di parlare e di pronunciare l’italiano, non da piemontese ma da vecchio torinese, una nervosità, uno scatto, un umorismo ottimista, che me lo rendono visceralmente famigliare. Mio padre, e i miei zii, fratelli di mio padre, e certi miei cugini: siamo tutti così. Che strano, penso! Mentre Venanzio si allontana di un passo verso una domestica che è apparsa sulla porta vetrata, mi chino all’orecchio di mio figlio e gli dico: “Ecco, vedi, il nonno Umberto, tu non te lo ricordi: ma era così, aveva qualche cosa di similissimo a lui!” Torna Venanzio, dice che la colazione è pronta: “Eh, mezzogiorno è già suonato!” e mi prende sottobraccio. Insisto per vedere subito le vigne: dopo colazione, c’è caso che il sole non sia più buono per le fotografie. Venanzio acconsente sebbene contrariato. Per fortuna, non dobbiamo allontanarci. Basta attraversare il pianterreno della villa: dalla parte di là, è la facciata bianca che vedevamo dal basso arrivando, cinque porte-finestre che si aprono direttamente sulla distesa delle vigne: le vigne del Lessona Sella. L’interno della villa è perfetta Restaurazione: l’epoca di Stendhal. Attraversiamo la stanza da pranzo. La tavola è preparata. Nella sala accanto, una meravigliosa tappezzeria anche quella degli anni trenta (anni trenta dell’Ottocento!) è rimasta intatta, fresca, col suo serpeggiare di rami, col suo sfarzo di foglie fiori boccioli, caldi rossi e scuri verdi, tenui gialli e pallidi marron, sull’affettuoso fondo avorio. I caminetti sono accesi di grandi fuochi fiammanti, accesi con quell’allegria e con quel potere di attrazione che hanno soltanto nelle pochissime case, come in questa, dove non si è ceduto alla tentazione e alla prodigalità di installare il termosifone. Di nuovo Venanzio mi prende sottobraccio e mi affretta fuori, visto che dobbiamo fare queste foto. Davanti alla villa è una grande pergola. “Di carpini” spiega: “e si chiama Ogni vigna padronale deve avere la sua cabana di carpini davanti: perché le vigne in se stesse non danno ombra. La cabana, qui, è proprio davanti alla casa. Di regola, era collegata con la casa con una lunga topia, o pergolato.” Mi viene in mente il saggio di Cesare Balbo sulla Collina Torinese: dove è chiaro che vigna e villa erano, all’inizio del secolo scorso, due termini che, in certi casi, si equivalevano e potevano essere usati indifferentemente l’uno per l’altro. la cabana. Al di qua della pergola, sono alcuni alti e belli olivi. Venanzio mi dice con orgoglio che lui fa non soltanto il vino, ma l’olio: l’olio, sì, sulle colline biellesi, a brevissima distanza dalle nevi eterne: “E sentirà che buono, e che buone olive!” Arriviamo in mezzo ai filari, e Venanzio comincia a parlarmi degli innesti. “Vede?... è tutta una questione di equilibrio... equilibrio tra la forza vegetativa della radice e lo sviluppo che l’opera dell’uomo lascia alla pianta col sistema di potatura. Qui esisteva, ed esiste ancora, in qualche vigna, un sistema locale, caratteristico proprio di Lessona. È molto razionale, e costa meno, come manutenzione. Ma in genere io adotto... come in questa vigna, che lei vede qui, il Sylvoz... è un sistema che permette all’uva di maturare di più, e più uniformemente... Ma lo sa?” mi dice d’un tratto, e voltandosi verso la villa, “lo sa che questa casa è anche un poco sua?” “Come?! Mia?!” “Sì” soggiunge Venanzio, tutto una grinza di furbesca allegria contenuta, strizzando gli occhi e scrutandomi contro sole. “La prima proprietaria di questa casa, quella che l’ha messa su, quella che ha scelto la carta da parati che lei ha ammirato tanto... è una Soldati! Serafina Soldati, figlia di Filippo, nata a Torino nel 1804, non era una della sua famiglia?” “Certo, Filippo Soldati, torinese, nato nel 1764 e morto verso il ’30, era mio trisnonno. Ebbe dodici figli. Non ricordo i nomi di tutti. Può benissimo darsi che ci fosse una Serafina. Mio bisnonno si chiamava Roberto. Era il secondo dei dodici. Il primogenito era Rocco.” “Allora non c’è dubbio. Serafina era loro sorella. Sposò un Sella, Giovanni Antonio Sella, mio antenato... Adesso, quando torniamo di là, le farò vedere. Abbiamo il ritratto di Serafina... Perché, vede? il Nebbiolo, il vitigno Nebbiolo, ha questa caratteristica: che la pianta tende a espandersi molto, e bisogna potare con grande attenzione. È un’arte. Bisogna studiare, caso per caso, terreno per terreno, secondo l’ubicazione. Il nostro vino è 80/90% di Spanna, e cioè di Nebbiolo; e 20/10% di Merlot. È il Merlot che dà il profumo. Le uve del Merlot maturano prima, e perciò faccio piantare i vitigni del Merlot in semi-ombra. Il Cabernet, vede? invece viene benissimo in qualunque posto: la sua bontà è tutta dell’uva, non del terreno. Quando sente dire, qui intorno, che fanno il vino con il Nebbiolo, cioè con lo Spanna, non ci creda. Nella maggior parte dei casi, è sempre Creatina, detta anche Bonarda. Con la Bonarda, il vino è subito pronto.” “Ma come? Neanche a Carema, è Nebbiolo?” “A Carema? A Carema è Picutëner!” Non ricordai, in quel momento, di aver letto sul Gatta che il Picutëner è soltanto uno dei nomi dialettali del Nebbiolo. E poi? Chi può dire? Chissà che, invece, non abbia proprio ragione Venanzio Sella. Vedo, sul finire di questo mio viaggio, che la scienza dei vini è infinitamente più complicata, più opinabile, più controversa di qualunque altra. Mentre mio figlio continua a scattare fotografie, Venanzio continua a travolgermi con la sua eloquenza affascinante e nervosa. È una specie di prestissimo finale e rossiniano: “Per ottenere un buon invecchiamento abbastanza sollecito, per avere, cioè, un buon vino di vitigno Nebbiolo bevibile dopo nove anni, occorre tenerlo in botti piccole: perché le botti piccole sono fatte con doghe sottili, e l’aria passa più facilmente, e il vino si ossigena prima, e quindi invecchia più presto. Le botti grandi, per una necessità di resistenza a una maggiore pressione del contenuto, sono costruite con doghe più spesse. L’errore dei nostri vecchi era di imbottigliare troppo presto. Ecco perché, una volta, il vino faceva più deposito: continuava a fermentare, sia pure molto limitatamente, in bottiglia.” “E lei, diraspa o non diraspa? Ho cominciato il mio viaggio a Catania. La prima persona che ho trovato che non diraspasse è stato Voyat, ieri l’altro, a Chambave. Poi, stamattina, a Brusnengo, Beccaro mi ha detto che diraspava, con la pigiadiraspatrice. Ma in un libretto che mi ha dato, c’è scritto che invece non diraspa. Com’è questa storia?” “Io non diraspo. Mai.” “E perché?” “Se i nostri vecchi non diraspavano, e il vino era buono, e buono era, lei e io ce ne ricordiamo, vuol dire che diraspare non è necessario. Secondo me, è addirittura dannoso. Perché i graspi, con la loro presenza, allargano il mosto, e così favoriscono una buona fermentazione. Io ho molti dubbi su quello che le hanno detto tutti quanti, dalla Sicilia fino qui.” “Vuol dire che non sono stati sinceri? E perché?” “Cosa vuole... Siccome il diraspare è considerato moderno, loro dicono di diraspare, hanno lì le macchine in mostra e le fanno vedere, ma non le adoperano.” Non ho interrotto. Ma ricordavo benissimo di avere visto, con i miei occhi, a Villa di Tirano, uscire i graspi del Valtellina dalla pigiadiraspatrice. “... La fermentazione è migliore anche se l’uva non è tanto schiacciata: io uso una pigiatrice molto primitiva: due semplici rulli. La fermentazione deve essere lunga, lunga, per attrarre dalle bucce tutto il sugo. E poi, se la natura dà il graspo, perché non usarlo?” Non resisto alla tentazione di parlare a Venanzio del Brunello di Montalcino, e della semplicità con cui Tancredi Biondi-Santi mi rivelò il segreto dello straordinario invecchiamento del suo vino: “Ogni venticinque anni, bisogna cambiare il tappo”: queste, le esatte parole di Biondi-Santi. “Ho assaggiato,” dico a Venanzio, “ho assaggiato una bottiglia del 1925, e una del 1891, e una del 1888. Tutte e tre le volte, il Brunello era sempre lui: fragrante come il lampone, validissimo, perfetto!” E Venanzio ride diabolicamente: “Andiamo, andiamo! Per carità! Il tappo, se è buono, resiste sempre. Vuol sapere che cosa fa quel signore? Cambia il tappo, sì... ma mantiene vivo il vino perché, ogni volta che cambia il tappo, toglie dalla bottiglia un bicchiere, un bicchierino, secondo i casi, di vino vecchio, e lo sostituisce con un’eguale quantità di vino sempre vecchio, ma un po’ meno vecchio del primo, e sempre, naturalmente, della stessa qualità.” Sono esterrefatto. Mi sento quasi mancare il terreno sotto i piedi. Stimo, ammiro, amo nello stesso grado Tancredi Biondi-Santi e Venanzio Sella. Chi dei due ha ragione? A chi devo credere? Andiamo a tavola, la cuoca si lamenta, il risotto è ormai scotto. Sediamo a una grande tavola rettangolare. In un cantone, su un tavolo più piccolo, sono aperte le bottiglie di Lessona, di varie annate: e alcune bottiglie di Bramaterra, una varietà che è curata dal nipote Maurizio. Il Bramaterra è formidabile: potente, gustoso, pieno, di un amaro integro e piacevolissimo. Appena seduto, guardavo con ansia, alle spalle di Venanzio, la folta schiera delle bottiglie lucide e nere. Ero impaziente di assaggiare. Senonché Venanzio, nel silenzio improvviso che accolse l’entrata della domestica dalla cucina col piatto del risotto, ci guardò uno per uno, ai tre lati della grande tavola: ci guardò e, contraendosi tutto nello sforzo di non ridere, disse: “Allora? Con che cosa cominciamo? Con l’acqua?” Era uno scherzo, naturalmente. A poco a poco provai tutti i vini: Bramaterra, e meravigliosi Lessona di venti, venticinque anni fa. Ma la battuta aveva anche un suo senso profondo e non scherzoso: ricordava che il vino è “qualche cosa di più” e come tale va sempre considerato ed assaggiato. Finalmente il Morgex. Un’uva che matura di notte. Il gelo sulle gemme e la vendemmia dopo la prima neve. “Credo” nell’abate Bougeat. L’ultimo giorno, tornai a Morgex. L’abbé Bougeat aveva trovato l’amico del mio amico Renzo Balbo. Si chiama Alessandro Bizel, ed è nipote di Bizel Jean-Baptiste, le cui iniziali, B J B, avevo visto, incise sulla pietra all’angolo della vigna, prima della data 1889. Era una casa nascosta, dietro quella a cui avevo bussato. Anche qui c’è una fontana, e poggioli di legno intagliato, e una meridiana. L’iscrizione di questa è più poetica: Homme savant grandes affaires tu calcules mais l’heure finale en vain tu la recules. Alessandro Bizel accoglie il suo parroco e noi con straordinaria gentilezza, ma non ha più vino da darmi: misuro il mio rammarico dall’assaggio di uno degli ultimi bottiglioni che gli sono rimasti. Fa il vino solo per sé: non sa se gli durerà fino all’anno venturo. Anche l’abbé Bougeat ne ha poco, pochissimo: se lo avessi avvertito in tempo, me lo avrebbe riservato. Tra i vecchi mobili di legno intagliato, nella saletta terrena della Canonica, assaggiamo lentamente qualche bicchiere. È quello. Fresco, sottile, delicato, lievissimamente profumato. “È un vino balordo” racconta l’abbé. “A volte, in un’ora, diventa nero, è da buttar via. Le vigne richiedono una cura eccezionale. La vite normale, in pianura o in collina, comincia a dare i suoi frutti dopo due anni che è piantata. Qui, ce ne vogliono dieci, dico dieci! Il vitigno è Morgex. Cresce soltanto qui, sui versanti a sinistra della Dora, nei comuni di Morgex e di La Salle... in mezzo alle rocce che conservano il calore del sole: perché l’uva matura soprattutto di notte!” Penso, di nuovo, alle colonne di Carema e sono contento che non abbiamo sbagliato, l’altro giorno, a fotografare i vigneti del Villaret, presso La Salle. “... Noi, quelli che ci ostiniamo a fare questo vino, lottiamo tutti gli anni contro due geli. Si vendemmia, a volte, dopo la prima neve. E, a volte, nevica, o addirittura gela, quando già le prime gemme sono spuntate. Ma non crede che proprio da questa lotta, da questo rischio, da tutte queste difficoltà si sprigioni il sapore, unico e sovrano, di questo vino? Così, a volte, con le sofferenze, un uomo si affina... se riesce a superarle senza inacidirsi...” Umanità del vino! Il Bourgogne che Einstein rifiutò. Umanità e relatività del vino. Racconta Jean Schlumberger di avere fatto colazione, una volta, dal Conte Harry Kessler, a fianco di Einstein: “Spuma di capelli bianchi, su un paio di baffi spioventi e rimasti neri. La voce che ne esce è così discreta, così dolce che si stacca sull’aggressività dei discorsi scambiati tra i dodici commensali che ci attorniano... Il maggiordomo, preparandosi a versarci non so più quale grande Bourgogne, comincia a mormorare all’orecchio di ciascuno, secondo l’uso, il nome del ; ma Einstein, evidentemente abituato a una tavola più semplice, non ha capito il significato di questo rito. Il maggiordomo gli ripete il suo sussurro con un’occhiata chiaritiva alla venerabile bottiglia. Vidi allora il viso di Einstein illuminarsi di un sorriso fanciullesco, un sorriso che faceva capire come, comunque fosse considerata tale privazione, lui non prendeva mai niente di alcoolico. Ma, siccome non voleva mortificare un maggiordomo animato da così buone intenzioni, lo guardò con tenerezza e aggiunse: ‘Ach! wie Schade!’ Ah! che peccato!” cru Non sono così innamorato del vino da non capire che un genio ha, in sé, tanta vitalità, da potersi benissimo permettere di essere astemio. Ma dirò anch’io, con Einstein e per Einstein, oltre la sua gentilezza d’animo verso il maggiordomo: che peccato! Perché di tutti i prodotti che l’uomo ricava da questa terra, su cui vive e di cui si nutre, il vino è senza dubbio il più einsteiniano: il più Non dimenticherò, infatti, i discorsi sconvolgenti di Venanzio Sella. Non dimenticherò gli insegnamenti di Corrado Piacentini né le sue preferenze: meglio un vino di botte che un vino di bottiglia, meglio un vino giovane che un vino vecchio. E non dimenticherò André Simon: meglio, tante volte, un piccolo vino che un grande vino. Meglio, altrettante volte, un vino senza etichetta che un vino con l’etichetta. Meglio, infine, un vino qualunque (purché bevibile, s’intende, purché non andato a male) bevuto in compagnia di un amico, che un Romanée-Conti da centinaia di nuovi franchi la bottiglia bevuto da solo. Che cos’è un vino senza gli amici? Dirò pane al pane e vino al vino: dirò che un vino senza gli amici è poco più di niente. relativo.