In provincia di BOLZANO Prolegomeni al mio secondo “viaggio del vino”. Insufficienza del razionalismo in vitivinicoltura. Opera d’arte o essere vivente? Comincio questo secondo “viaggio del vino” credendo ancora più fortemente alle verità che mi erano parse il frutto del primo viaggio, il sugo e il senso finale di quella prima esperienza fatta due anni or sono attraverso vigne e cantine d’Italia, dall’Etna al Monte Bianco, scelte senz’ordine e senza sistema, a istinto o a capriccio, qua e là. Il vino è un prodotto squisitamente e costituzionalmente artigianale, quasi artistico, condizionato dal luogo e dai limiti della terra dove maturano le uve, e caratterizzato dai metodi tradizionali, che non escludono caute innovazioni, e dalle cure individuali (di un individuo o di un piccolo gruppo di individui) con cui si eleggono i vitigni, si piantano e si potano le viti, si procede agli innesti e alle disinfezioni, si monda il terreno intorno, a suo tempo si vendemmia, si pigia diraspando o non diraspando, si lascia fermentare più o meno a lungo, si folla, si tira, si filtra, si mescola poi con altri mosti, ecc. Infinite sono, in questo processo, le variazioni, le combinazioni, le complicazioni. Influiscono, sui successivi accorgimenti, il clima della stagione in cui sono messi in opera, e il clima della stagione o delle stagioni immediatamente precedenti. Influiscono perfino le condizioni della giornata. L’aria, il vento, la luce, l’umidità: tutto, di volta in volta, diversamente suggerisce e quasi ispira. Non è possibile, dunque, razionalizzare fino in fondo la vitivinicoltura: non è possibile industrializzarla. E anche se fosse possibile (in qualche misura, naturalmente, lo è), non bisogna industrializzarla. Perché, tra i due estremi, il manufatto calcolabile e programmabile sia nei modi e nei tempi della lavorazione sia nella qualità del risultato finale, e l’opera d’arte, imprevedibile e misteriosa, il vino assomiglia, in ogni caso, più a questa che a quello. Dobbiamo, infine, ricordare che il vino, a differenza dei liquori, è una creatura biologicamente autonoma: , che si trasforma continuamente, che fermenta anche in bottiglia, che sente il tempo e il luogo, che si esalta, che raggiunge un optimum, che si degrada e muore. Pretendere un vino stabile è una contraddizione in termini. qualcosa che continua a vivere Esistono vini che l’esame chimico dichiara perfetti, ma che il palato condanna e rifiuta senza la possibilità di nessun controllo scientifico, anche il più moderno e raffinato. Dobbiamo accontentarci che questo esperimento non sia reversibile: è già molto che un vino eccellente all’esame organolettico dell’esperto e al gusto del profano non sia poi condannato dall’esame chimico: è già molto che ciò non accada mai. Ma il profumo, il sapore, l’incanto ultimo e individuale di un buon bicchiere di vino si identifica, in definitiva, con un “quid” che sfugge a qualsiasi analisi scientifica: allo stesso modo, appunto, che nessuna dimostrazione filologica potrà mai tradurre in formule o in ragionamenti la bellezza di un Tiziano o di un Leonardo; né la bellezza e la bontà di una persona umana... Per la verità, questo secondo paragone, più umile, è anche più appropriato. Infatti, l’opera d’arte, benché umana in quanto creata da persona umana, in sé è immutabile, fissa, ha qualcosa di morto, e una volta compiuta non cambia più, se non, come per esempio la musica, nelle esecuzioni e nelle interpretazioni: mentre il vino, lo abbiamo già detto, una volta creato si modifica per suo conto, e nei primi tempi vive protetto e seguito dalle cure del suo fattore né più né meno di un fanciullo da quelle della madre. Ecco perché, molto probabilmente, ci si accosta di più al vero se si definisce il vino qualcosa di mezzo tra l’opera d’arte e l’essere vivente. Ecco perché è molto più arduo, al di là di un certo limite negativo, esprimere un giudizio inappellabile sulla qualità di un vino che sul valore di una pittura o di un poema. Seguono, da questo concetto del vino, innumerevoli corollari. Alla rinfusa, elenchiamone qualcuno. E chiediamo scusa fino da adesso se, sorprendendo il lettore profano o irritando l’esperto, potremo, in ogni caso, disturbare l’uno e l’altro. Non soltanto la qualità di un prodotto umano, ma perfino la capacità di goderne è sempre frutto di pazienza, di attenzione, di cure, di fatica. L’etichetta ovvero i misteri della bottiglia. Un infelice matrimonio tra vini di Borgogna e lavastoviglie. Perché accade che i vini migliori siano talvolta imbevibili. Un’autocritica: anch’io ho offerto champagne. Primo corollario. Si sarebbe meno incauti, e si andrebbe più vicini al vero, affermando che l’etichetta, da sola, “non prova nulla” o che l’etichetta ha soprattutto un valore negativo. Ci sono, infatti, certi nomi che, a poco a poco, gli italiani imparano a conoscere, e sotto cui, quasi in una filigrana invisibile, imparano a leggere: “Vino da evitare”. L’etichetta è, nel migliore dei casi, soltanto una parziale garanzia della bontà del vino in bottiglia. Ma il guaio più grave si riferisce al caso opposto: al vino contenuto nelle bottiglie che si fregiano di un’etichetta sicura. E quando mai sarebbe “sicura” un’etichetta? Vediamo. Un’etichetta sarebbe sicura: o quando già abbiamo fatto la relativa esperienza; o quando un amico, un oste, uno scrittore di nostra fiducia abbia lodato, raccomandato un vino contenuto in una bottiglia con quella etichetta. Ebbene? Trascuriamo pure l’eventualità (rara ma, certo, non impossibile) che l’etichetta sia la medesima, e il vino un altro. Esistono incidenti incalcolabili, infiniti, infinitamente vari, che possono essere occorsi a “quel vino” o, ancora più probabilmente, a “quella bottiglia”. Un tappo imperfetto, o che, con l’andar del tempo, si sia deteriorato. Una cantina troppo calda o troppo fredda o troppo umida o troppo luminosa o troppo vicina alle vibrazioni di qualche macchina... Sì, mi è accaduto, a Milano, in un ristorante lussuoso, di scoprire con orrore che la cantina confinava, da un lato, con un ambiente dov’era piazzata l’enorme lavastoviglie, e, dall’altro, con i bruciatori e le caldaie: una parete era bollente, l’altra era scossa da un tremito continuo: bottiglie di vecchio Bourgogne, da cinque e anche da diecimila lire l’una, si può capire che fine facessero, sottoposte a quel trattamento! E pensare che il proprietario del ristorante mi aveva fatto alzare dal mio tavolo, insistendo fino a vincere la mia saggia pigrizia postprandiale, per accompagnarmi nella visita sotterranea, orgogliosissimo della propria inaudita ignoranza! Ma riprendiamo, completiamo questa affrettata lista degli incidenti che possono occorrere a una bottiglia di vino. Ecco: un periodo di tempo, più o meno lungo, passato non in cantina ma in luoghi disadatti: per esempio, un cortile, un terrazzo, un angolo qualunque dove, d’estate, batta il sole. Specialmente per un vino bianco e leggero, sono condizioni fatali: basta mezz’ora, e si ossida, si maderizza. E può accadere non soltanto al privato, ma anche al più attento dei rivenditori. D’altra parte, più il vino è genuino, più è delicato. Soltanto i vini stabilizzati, pastorizzati, sterilizzati, passati nelle autoclavi d’acciaio, filtrati a temperatura di calore o di gelo che uccidano per sempre i loro germi vitali, soltanto questi vini sopportano qualunque viaggio, qualunque sosta, qualunque ambiente, come una bottiglia di whisky. Gli altri, i vini autentici, rischiano ad ogni occasione di corrompersi; allo stesso modo, forse, che i giovani intelligenti e di valore vanno molto più facilmente in malora dei mediocri. E si arriva, così, all’assurdo: un vino che, subito, riconosciamo come indiscutibilmente imbevibile, è, quasi sempre, un vino genuino e ottimo andato a male: mentre, molte volte, un vino trattato, lavorato, solfitato, stabilizzato, ci sembra, lì per lì, passabile. Il primo non fa male per la semplicissima ragione che non lo si beve neanche, non lo si può materialmente bere. Ma il secondo ti morde, e in brev’ora reclama il balsamo della molle e bianca polvere che gonfia le viscere e leggermente stordisce, annebbiando le idee. Infine, il frigorifero! Un vino bianco che resta in frigorifero più di tre ore, possiamo considerarlo condannato. Non parliamo nemmeno di quei barbari che, nel frigo, mettono anche il vino rosso e vecchio, né di quegli altri, appena meno barbari, che mettono un bianco, lo tolgono, e poi lo rimettono come se niente fosse. Soltanto certi champagne francesi di grande marca resistono a queste prove. Può giovare approfittarne. Così come, a volte, può giovare un bicchiere di whisky o vodka. Perché lo champagne non è quasi (ho detto: quasi) vino. In Francia e in Italia, gode di una legislazione a sé, diversissima dagli altri vini. Lo champagne è un prodotto raffinatissimo e calcolatissimo: una bibita leggermente alcoolica, spumante, chimicamente perfetta, da consumare, secondo me, quando non c’è di meglio, o quando si vuole ad ogni costo seguire certi ricordi e certi riti, e tenendo presente un altro assurdo: che il meglio, se appena fosse a portata di mano, sarebbe infinitamente meno costoso. Perché proprio questo è il mistero del vino in Italia: che, fatte le debite eccezioni, i vini che costano poco sono migliori dei vini che costano molto: bisogna, però, andarli a cercare con pazienza e saperli trovare. Sarei tuttavia disonesto se non confessassi che io stesso, non di rado, bevo e offro agli amici un buon champagne, anche italiano (ce ne sono, alcuni, ottimi): me ne pento ogni volta, ma continuo a peccare e a pentirmi. E, nel caso che sia italiano, continuo a chiamarlo “champagne”, sebbene la legislazione lo vieti. Forse che francesi e americani non chiamano “spaghetti” certe paste fabbricate da loro? Il nuovo ricco ha fame di ristorante. Considerazioni sociologiche sul risotto al salto a Palermo e sugli spaghetti al basilico nelle Langhe. “Bianco o rosso?” una domanda che è stata simbolo di civiltà. Il migliore dei vini è giovane, di botte, e consumato sul posto. Programma del mio secondo “viaggio del vino”, e propositi per un terzo. Secondo. Entriamo, ora, nel vivo di gravi considerazioni sul costume attuale degli italiani. Siamo, sempre più, dei L’improvviso dilagare del benessere ci ha dato alla testa. Tutti abbiamo l’automobile, tutti facciamo i week-end in campagna, tutti affolliamo le trattorie ad ogni occasione, ecc. ecc. Si avvicina l’epoca in cui soltanto pochi privilegiati cucineranno da sé, e mangeranno in casa: quei pochi che avranno capito quanto dicevamo prima: che la fatica, una certa fatica, è sempre necessaria a un vero piacere. Nel primo scatenarsi e moltiplicarsi del benessere, accadde (vedi specialmente l’Italia del Nord e le più grandi città del Centro e del Sud) un fatto mostruoso: i figli di gente che, per generazioni e generazioni, non aveva mai “mangiato in trattoria” e che, da sempre, aveva invidiato quei borghesi, quegli “artisti” o quei viaggiatori che vedeva seduti ai tavolini dei ristoranti, d’estate nell’ombrata frescura dei déhors, d’inverno nella cornice delle vetrate e nelle calde luci degli interni, i figli di un immenso ceto che, tutto insieme, costituiva la maggioranza degli italiani nelle suddette città e regioni, si gettarono sul “pasto al ristorante” con una fame e una sete arretrate di secoli: ma non soltanto, e forse non soprattutto, fame di cibo e sete di vino. Impossibile, infatti, che non avvertissero in segreto, e confusamente non presentissero, ciò che li attendeva: molto presto, nei ristoranti e nelle trattorie, avrebbero mangiato e bevuto meno bene, se non addirittura meno, che nelle loro vecchie, umili case. Il vino di botte, giovane e del posto è, generalmente, preferibile a qualunque altro vino. parvenus. Fame, dunque, e sete d’altro: fame e sete di nomi, di carte, di menu, di etichette, di leccornie, di specialità, di fantasie gastronomiche ed enologiche; fame e sete di provare finalmente tutto ciò di cui i loro genitori e i loro avi ed essi stessi da fanciulli avevano udito parlare e possedevano soltanto un’idea vaga; fame e sete quasi esclusivamente “di parità”: di entrare in quel mondo, di fare parte di quella classe da cui si erano sempre sentiti esclusi. Nacque così la moda ormai adottata senza eccezioni da tutte le “trattorie caratteristiche”, che nei periodi delle vacanze e nei giorni del week-end, in campagna, in montagna, in collina, sui fiumi, ai laghi e al mare, i nostri nazionali turisti impavidamente affollano, esponendosi col loro entusiasmo a molestie e disagi di ogni genere, e affrontando con involontario e ridicolo stoicismo gravi perturbazioni dell’apparato digestivo: la moda del “pasto composto tutto di specialità”. Si tratta, quasi sempre, di piatti tradizionali e locali, rustici ma complicati, deliziosi ma piccanti e pesanti. Di regola, erano fatti per essere consumati soltanto qualche volta, in occasione di date solennità religiose o familiari, e secondo la stagione. Ad ogni modo, sarebbe stato inconcepibile preparare più di uno, al massimo più di due di cotesti piatti per lo stesso pranzo: tutte le altre portate erano, sempre, normali. Non contenti delle specialità locali, i nostri poveri “nuovi ricchi” cominciarono a pretendere le specialità di paesi, zone, regioni vicine, e anche lontane o lontanissime: spaghetti col basilico e al dente in qualche vecchia osteria delle Langhe, risotto al salto a Palermo o Bagheria. E i padroni dei ristoranti e delle trattorie non esitarono a soddisfare, o piuttosto a cercare di soddisfare la viziosa richiesta. Lo stesso, naturalmente, accadde per i vini. Nel bere e nel mangiare, si è venuto costituendo, e codificando, un costume eclettico, manieristico, estetizzante... Intendiamoci, nelle arti e in letteratura, il manierismo ha sempre dato e continua a dare capolavori: ma a condizione che corrisponda a un’autentica ispirazione e sia praticato con serietà, in profondità, coscienziosamente. Il manierismo, culinario e vinoso che gli italiani di oggi prediligono e che i loro cuochi non si sognano di contestare, si identifica con una cucina e con una cantina della superficialità, dell’approssimazione, della pigrizia. Infine, la nostra alta-borghesia, cui sarebbe toccato il compito di proteggere la tradizione dall’assalto concentrico e devastatore del consumismo, fu, subito, travolta dalla volgarità: si affrettò a imitare coloro che volevano imitarla, si buttò a copiare coloro che cercavano di copiarla. Ambedue le classi fallirono. Più facile scendere che salire. L’alta-borghesia tradiva e dimenticava se stessa: senza accorgersene e senza resistere, abbandonava tutto quell’incantevole patrimonio di civiltà che il libro dell’Artusi aveva teoricamente immortalato. Frattanto, i nuovi ricchi, inserendosi nelle strutture e nelle scelte del consumismo, operavano una rivoluzione nei modi di mangiare o di bere: credevano, così, di migliorare, come in tutto il resto, le proprie condizioni di vita: riuscivano soltanto a dimenticare a loro volta la cucina popolare, regionale e rustica dei loro vecchi, e a distruggere completamente il più delicato modello alto-borghese, che si erano illusi di copiare. Nessuna meraviglia, dunque, se quello che resta della tradizione si affidi alle minoranze più povere, più dimenticate, più isolate. Per mangiare e per bere bene in Italia, bisogna ormai uscire dalle strade asfaltate, avventurarsi nella polvere e nelle carrareccie delle ultime strade di terra, evitare tutto ciò che è pubblicizzato, frequentare i poveri, se non i poverissimi! e spendere poco, se non pochissimo! Un esempio. La domanda rituale e provinciale del cameriere di trattoria italiana: “Che cosa beve il signore? bianco o rosso?” è diventata da qualche tempo, presso gli araldi del nostro nuovo “costume gastronomico”, uno slogan negativo. Cito dal Notiziario dell’Accademia Italiana della Cucina (febbraio-maggio 1970, p. 3): “Si sono aperti, oggi, alla mostra d’Oltremare, a Napoli, il secondo salone internazionale del vino, il , e il quarto salone delle attrezzature alberghiere... Il panorama dei due saloni e delle altre iniziative si presta a diverse valutazioni. Due enormi vignette, con fantasia napoletana, ti accolgono all’ingresso. Nella prima un cameriere brutto, mal messo, chiede nel fumetto: ‘bianco o rosso?’ ma su queste parole scende anche un fregaccio rosso, segno di errore. Nella seconda, un cameriere simpatico, in ordine, dice: ‘Su questo arrosto le consiglierei...’ E il nome del vino è lasciato in bianco per non fare preferenze, ma è ovvio che questo è il sistema giusto: in armonia con i piatti che si scelgono sulla lista, si deve anche scegliere il vino adatto.” SIVEL Ora, non c’è dubbio che nella grandissima maggioranza dei casi, la doppia vignetta napoletana colga il segno. Nella grandissima maggioranza dei nostri ristoranti o trattorie, dopo esserci sentito offrire semplicemente “bianco o rosso?” e dopo avere fatto la nostra scelta, vediamo apparire una bottiglia di un qualunque vino industrializzato, proveniente da una località qualsiasi, e magari dall’altro capo della penisola, oppure un mezzo litro o un quartino che solo apparentemente rispondono alla denominazione “vino sciolto” o “vino della casa”, mentre in realtà sono stati riempiti, un momento prima, col vino di un fiasco o di un bottiglione direttamente spedito dalla ditta. Ma, a pensarci bene, le cose stanno molto diversamente. Il cameriere che, oggi, offre “bianco o rosso” non è, come sembrano suggerire gli Accademici della Cucina, una forma di ignoranza, di rozzezza, di malcostume, di pigrizia e di volgarità: al contrario! è la manifestazione, estrema e degenerata, di un’ospitalità antica, pura e insieme raffinata, secondo cui veniva offerto, soltanto e appunto, il migliore vino del posto, prodotto in un raggio di pochi chilometri, nelle due qualità di bianco e rosso, e magari di asciutto e pastoso: così, almeno, dicevano a Roma fino a una trentina d’anni fa. A Torino dicevano: “Dal butal o ün-na stupa?” e cioè: dalla botte o in bottiglia? Che, infatti, fosse del luogo, o della regione, non era mai messo in dubbio. A Roma s’intendeva: vino dei Castelli, Marino, Frascati, Grottaferrata, o di Velletri. A Torino: Barbera o Dolcetto: del Monferrato, dell’Astigiano, oppure delle Langhe. Abbiamo definito la frase sacramentale “bianco o rosso” una manifestazione estrema e degenerata perché, ormai, non va più esente dal torto imperdonabile di non riferirsi necessariamente al vino del luogo: idealmente, tuttavia, utopisticamente, dovremmo augurarci che torni in onore, con tutto il rispetto dovuto al suo significato originale, primitivo e genuino. Anche la scelta di vini lontani e variati fa parte dell’estetismo, del manierismo che dicevamo. E, senza dubbio, sono cosciente, con questi miei viaggi e con questi miei scritti, di essere colpevole dello stesso errore. Ego quoque, ego quoque! Che diamine: sono, a mia volta, un uomo del mio tempo! Ma spero, altresì, di essere giustificato e perdonato. Sollecitando ad acquistare e ad assaggiare vini umili o gloriosi, e talvolta quasi ignoti, di tanti luoghi d’Italia, spero di persuadere i miei concittadini ad imitarmi: a viaggiare, ciascuno per proprio conto: a cercare e a scoprire altri e nuovi vini! Quanto ai vini vecchi, sono un po’ come i piatti “speciali”: vanno riservati alle solennità, alle grandi occasioni, e consumati soprattutto d’inverno, perché più calorosi ed alcoolici. Ripetiamo: d’abitudine, ai pasti, non c’è niente di meglio che vino giovane, vino di botte o di damigiana, che ciascuno, anche il privato, dovrebbe pazientemente imbottigliare o infiascare da sé: e vino del posto, pigiato sul posto, conservato sul posto, bevuto sul posto: se non altro, il vino meno lontano! L’Italia, come quantità, è la nazione del mondo che produce più vino. Non c’è una sola nostra regione, non c’è una sola nostra provincia che non produca vino. La stessa Milano, con la sua provincia, e con le vicine provincie di Brescia, Piacenza, Sondrio, potrebbe benissimo fare fronte al proprio fabbisogno. Compirò, dunque, questo mio secondo viaggio del vino secondo lo stesso metodo, o piuttosto non-metodo, del primo. Seguirò i suggerimenti del caso, delle persone che incontrerò via via, di amici che, in altri tempi, mi segnalarono questa o quella località dove trovarono vino buono. Nessun ordine, nessuna pretesa di esaurire l’argomento, che d’altronde è inesauribile, né di completare un elenco, che del resto non potrebbe mai essere completo: se non altro perché, quando lo fosse, vini, osterie, persone, luoghi, tutto, poco dopo, cambierebbe! Fino dai tempi di Hans Barth, nulla, in Italia, cambia più rapidamente! Unica ed ovvia precauzione: non tornerò dove sono già stato. Visiterò, quest’anno, l’Alto Adige, le provincie di Venezia, Treviso, Belluno, e il Friuli e il Collio: poi Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna: poi le Romagne, le Marche, tutta la costa adriatica fino all’estrema punta delle Puglie. L’anno venturo, mi propongo il viaggio occidentale: da Trapani, Marsala, Alcamo, quella Sicilia che non avevo perlustrato due anni or sono nel primo viaggio, su per la Calabria e la Lucania, su per tutta la costa del Tirreno; andrò in Sardegna, sbarcherò in Liguria, proverò il Rossese di Dolceacqua: finalmente tornerò in Piemonte, e toccherò il porto del Barolo, del Barbaresco e della Barbera. Assaggerò vini non di tutte le nostre provincie, ahimè, sarebbe impossibile: ma certamente, qualche vino di ogni regione, nessuna esclusa. La produzione limitata di un vino non è antidemocratica. Le distruzioni della civiltà, ovvero: non gettare via il vino con l’acqua sporca. Il sogno di un mondo rigenerato dal vino vero. Terzo. Quante volte abbiamo udito, o abbiamo letto: “Vino squisito ma produzione scarsa” oppure “Vino scarso ma squisito”. L’errore è nella congiunzione avversativa “ma”, che dovrebbe essere sostituita dalla copulativa “e” o, addirittura, da “e quindi”. Perché, non ingannino i nomi! abbiamo centinaia, forse migliaia di Chianti, di Valpolicella, di Tocai, di Barbera: ognuno, sempre, leggermente o marcatamente, diverso dall’altro. Il vino è un prodotto ristretto a breve spazio di terra: perfino nel caso delle cantine sociali e delle uve che sono state “portate all’ammasso”, sì, ma mai da troppo lontano. E non c’è nulla, proprio nulla, di antidemocratico in questa interpretazione del vino. Se, di ogni qualità, ce n’è per pochi, esiste, in compenso, un infinito numero di qualità tutte diverse. E il risultato è dunque lo stesso. Ce n’è per molti, per moltissimi: tanto da sconfiggere, se Dio volesse, tutta la produzione e tutto il commercio di certe bibite, di certe bottigliette abominevoli e trionfanti, che non voglio neppure nominare. Una produzione limitata come quantità non rappresenta necessariamente un difetto del vino ma, caso mai, un pregio. Che cos’è che spinge alla produzione livellata di grandi quantità dello stesso vino che artificialmente si cerca di stabilizzare, omogeneizzare, fornire sempre identico al cliente? La pigrizia. E non tanto la pigrizia del produttore quanto la pigrizia del consumatore, che non vuole fare la fatica di cercare, di scegliere il proprio vino. Il vino buono costa meno del cattivo: ma bisogna, in altri modi, guadagnarselo. È vero, però, che i commercianti, i distributori non vanno, su questa difficile strada, incontro al consumatore, non lo aiutano, non lo persuadono alle prove e agli assaggi, ai frequenti, indispensabili cambiamenti: soprattutto non si suddividono tra di loro il compito gravoso e delicato di trovare sempre nuovi, autentici, piccoli vini da pasto, che gli stessi commercianti dovrebbero acquistare, uno per uno, direttamente dal piccolo produttore. Lo so, me ne rendo conto: il mio è il sogno di una controrivoluzione. Ma è un sogno di cui, assolutamente, non possiamo fare a meno. Forse, nella stessa misura in cui riusciremo a trasformare questo sogno del vino genuino e artigianale in una realtà, riusciremo anche ad arginare, e poi ad annullare, lo spaventoso progresso degli inquinamenti dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, dei fiumi, delle spiagge e delle campagne, tutto il veleno che ci minaccia di morte. , dice un proverbio tedesco: Non bisogna gettare con l’acqua del bagno anche il bambino. Man soll das Kind nicht mit dem Badewasser ausleeren La civiltà industriale ha compiuto, in questo secolo, e, da noi, in questi ultimi venticinque anni, un enorme passo avanti: ma non si è accorta di avere modificato, delle costumanze antiche, anche quelle che non era necessario modificare: non si è accorta di avere distrutto anche ciò che sarebbe stato bene e che, anzi, era indispensabile conservare: non si è accorta di avere perso di vista, nella furia devastatrice e progressista, lo scopo ultimo di se stessa come di qualunque altra civiltà, e cioè il bene supremo della vita, la sanità e la felicità, tutta la libertà possibile all’individuo umano. La rinuncia al vino vero è, almeno per noi italiani, soltanto uno dei sintomi di questa tremenda follia. Dobbiamo, ad ogni costo, tornare indietro: dobbiamo ritrovare il bambino che abbiamo gettato. Il vino fa l’oste. Una religione segreta. Quarto. Da anni, ormai, una lunga, dolorosa, quasi quotidiana esperienza mi persuade a credere nella verità di questo corollario. Il vino vero è un segno infallibile di salvezza. È molto più facile trovare, nelle trattorie italiane, un cibo mangiabile che non un vino bevibile. Tuttavia, esiste un assioma incontrovertibile: ogni volta, rara purtroppo, che il vino è buono, anche il cibo, sempre, è ottimo: e anche le maniere dell’oste e dei camerieri sono gentili ed umane: e perfino l’aspetto e l’arredamento del locale, per una legge misteriosa, sono gradevoli. Molte volte, mi sono domandato il perché; ci ho pensato su: ne ho concluso che il vino genuino corrisponde in qualche modo a un atto di fede, a una religione segreta, e forse inconscia, del padrone del locale: al profondo rispetto che lui ha per la tradizione, per i gusti e le costumanze dei suoi avi. Insomma, il contrario dell’eclettismo, del manierismo, dell’estetismo. Dobbiamo fare perno su queste poche persone. Se siamo ancora a tempo, dobbiamo fare macchina indietro. Carducci sopraffatto dalla commozione davanti a un Sassella “del quarantotto”. Un’ode che è gloria del poeta ma ridimensiona l’enologo. Quinto. Ecco che cosa capitò a Giosuè Carducci nell’estate del 1888. Era andato a villeggiare in Valtellina. Il 27 di luglio, suo compleanno, alcuni amici e ammiratori con a capo Agostino Ciocca, padrone dell’Albergo della Cascata, noto burlone, decisero di offrire al grande poeta una bottiglia di Sassella. La bottiglia era del 1884: quattro anni d’invecchiamento, tempo giusto per un Sassella, che può durare di più, anche molto più, ma normalmente tocca la perfezione appunto a quattro anni. Il vino buono è in grado di partecipare alla vita di ciascuno di noi più direttamente dell’opera d’arte. È probabile, tuttavia, che il Ciocca e gli amici, ragionando della cosa per prepararsi a ricevere il Poeta, finissero per trovare troppo tenue l’omaggio. Che fare? D’altra parte, tutti conoscevano il patriottismo di Carducci. E forse qualcuno degli amici valtellinesi non ignorava nemmeno che Carducci, raggiunta ormai la maturità e la gloria, non si era mai dato pace di non avere partecipato, da giovane, alle guerre d’indipendenza, di non aver “combattuto” né nel ’48 né nel ’59. Certo, nel ’48 aveva tredici anni, ma nel ’59 ne aveva ventiquattro. Il ’48 evocava per lui, irresistibilmente, il ’59. Erano date magiche, corrispondevano, per lui, a un trauma, a un rimorso, a un’occasione mancata senza possibilità di rimedio. Qualcuno, allora, ebbe l’idea dello scherzo. A quei tempi d’oro, le etichette delle bottiglie erano già, talvolta, tipografiche: ma in ogni caso semplicissime, e l’annata del vino era sempre scritta a mano. O alterando la data o usando una nuova etichetta e invecchiandola artificialmente, il 1884 fu cambiato in 1848. Dicono il Bertacchi e il Pedretti, che il vino era prelibato e che tale sarebbe stato giudicato dal Carducci anche se la bottiglia avesse portato la sua data autentica: 1884. Un Sassella di quarant’anni e ancora eccellente sarebbe stato non un’impossibilità, ma una rarità. E, in questo caso, avrebbe presentato un aspetto, un profumo, un colore, un sapore completamente diverso da quello che in realtà possedeva, trattandosi di un Sassella di quattro anni. Un minimo di competenza enologica sarebbe stato sufficiente per capire che quel vino non era così vecchio. Ora, Carducci amava il vino e sapeva apprezzarlo e giudicarlo. Come spiegare la contraddizione? Basta non dimenticare lo straordinario valore che la data del 1848 aveva per Carducci. Ricostruisco mentalmente la scena. Sono sicuro di non sbagliare. Appena vide sull’etichetta, e prima ancora che si ponesse mano al cavatappi, Carducci sentì un nodo alla gola, e gli occhi gli si empirono di lacrime. Mi pare di udire la sua voce toscana, esplosiva e squillante, incrinarsi come sopraffatta dalla commozione: “O che? De i’ quarantotto?!” quella data Caro, caro Carducci, ultimo nostro padre! E forse aggiunse, più sottovoce, quasi soltanto a se stesso, e nessuno degli astanti lo udì: “L’anno della Patria...” Solennemente, ai primi sorsi, dovette chiudere gli occhi. Nasceva frattanto la famosa ode intitolata , quella che comincia, appunto: A una bottiglia di Valtellina del 1848 E tu pendevi tralcio da i retici balzi odorando florido al murmure de’ fiumi da l’alpe volgenti ceruli in fuga spume d’argento, quando l’aprile d’itala gloria dal Po rideva fino allo Stelvio... Chiaro: l’ode nacque dallo scherzoso inganno degli anni; del resto, il Manara Valgimigli, nel suo commento alle (ed. Zanichelli, pp. 151 e sgg.), con nutrite citazioni dall’epistolario del Carducci e su varie testimonianze, dimostra filologicamente che fu pensata e cominciata proprio in quei giorni d’estate, a Madesimo: Odi barbare E tu nel tino bollivi torbido prigione, quando d’italo spasimo ottobre fremeva... Molto probabilmente, gli amici dell’Albergo della Cascata non credevano che il loro scherzo funzionasse fino a tal punto. Molto probabilmente, si erano proposti di dire, poi, al Poeta la verità. Ma chi di loro, vedendolo così “partito”, ebbe il coraggio di parlare? Immagino, anche, di assistere alla fine della serata. Quando Carducci, prima di ritirarsi a riposare, esce dall’albergo in compagnia di due o tre dei suoi famigliari, per fare quattro passi sotto la luce delle stelle, nell’aria purissima della notte alpestre ed estiva. Gli amici, stringendosi in cerchio, si scrutan l’un l’altro: “Uei, fieu! La buteglia l’è del quarantott. Intesi?” “Intesi!” risponde all’unisono il coro dei congiurati. E il silenzio fu mantenuto fin dopo la morte del Poeta. Basterebbe quest’episodio a provare che il vino, purché bevibile, è qualcosa di ineffabile, di incommensurabile, qualcosa che sfugge a formule e giudizi razionali, e va, diritto, al suo bersaglio magico. C’è, naturalmente, un limite negativo che deve essere superato: bisogna che il vino non sia cattivo. Ma, al di sopra di questo limite, il vino ha a che fare con quanto ciascuno di noi possiede di più segreto, vitale e difficilmente comunicabile. Il rapporto che si creò, la sera del 27 luglio 1888, a Madesimo, tra Carducci e una bottiglia di Sassella, Carducci, poeta, lo comunicò a tutti con una poesia finita di comporre a Bologna il 21 gennaio 1889: sei mesi dopo. Noi, però, non poeti, che cosa possiamo se non tenerci per noi, e per gli amici più cari, il ricordo di un momento di gioia, misterioso e passeggero, che un vino vero ci ha dato? Sinistro prologo al viaggio: a Verona passo una serata in compagnia di due vinattieri. Come fare i miliardi con il più umile dei vini italiani: il Clinto. Infernale sghignazzo intorno al cadavere del vino italiano. Questo secondo viaggio del vino comincia con l’Alto Adige. Passai a Verona, verso la fine dello scorso aprile, la notte che precedeva la prima tappa. Era con me il dottor Ignazio Bòccoli, rappresentante ed esperto dell’Istituto Enologico Italiano. Bòccoli mi accompagna come l’altra volta; mi aiuta nella ricerca dei vini; e provvede a rifornire la cantina dell’Istituto con le bottiglie da noi scelte. Volle il caso che, in trattoria, quella notte, ci trovassimo a cenare accanto a due commercianti di vino, i quali non sapevano ancora nulla del mio viaggio. Ambedue di mezz’età, massicci, vivaci, chiacchieroni: uno, un po’ più alto ed ossuto, piemontese all’accento, lombardo di cognome e di nascita: l’altro, un po’ più piccolo e morbido, un po’ più delicato, insomma veronese. I commercianti di vino hanno tutti, nel carattere e nel tratto, qualche cosa in comune. Sotto l’apparente e immediata cordialità, tradiscono uno strano, strenuo riserbo: quasi che la professione avesse finito per affidare loro le chiavi di un mistero che sono i soli a conoscere, e che non svelano mai a nessuno, ma a cui si compiacciono di alludere, più o meno giocosamente e finemente, secondo le occasioni e le persone, ogni volta che il discorso sfiora l’argomento e i problemi del vino. Alcuni preti, più spesso, forse, alcuni frati, quando si parla di religione, e talvolta i medici quando si parla di malattie, si comportano anche loro in modo non troppo dissimile. Sorrisetti, sospiri, mezze parole, frasi enigmatiche... E tutto quanto hanno a dire sembra, in ogni caso, colorarsi di una diffusa bonarietà, alonarsi di un fondamentale ottimismo: come se fosse in loro una seconda natura, acquisita con gli anni e con “l’esperienza specializzata”, una seconda natura che li impegna a suscitare ad ogni costo la fiducia dei profani, o almeno ad annullarne la sfiducia. Basta un attimo di riflessione per capire che questo bisogno, così impellente, della fiducia altrui, denuncia appunto una mancanza di fiducia in se stessi, una insicurezza, una perplessità circa la sostanza della professione che praticano. Ma limitiamoci: restiamo intanto coi vinattieri. Dato lo scopo del mio viaggio, ero entusiasta, mi pareva grande ventura l’averli incontrati. E non volli lasciare perdere l’occasione: subito ne approfittai per attaccare discorso, per cercare di capire qualcosa del loro misterioso mestiere. D’accordo, esistono le inchieste. Ma chiunque, attaccato frontalmente dalla curiosità altrui, si dissimula e sfugge anche senza saperlo: d’istinto. Solo gli incontri fortuiti posseggono il segreto della realtà. Tutto questo, lo sapevo. E, tuttavia, m’ero illuso! Non ebbi soddisfazioni. Ad ogni mia domanda sul loro metodo di lavoro: dove cercassero il vino, come lo assaggiassero, se lo facessero o no analizzare chimicamente prima di definire l’acquisto, quali garanzie esigessero dal produttore perché la merce non fosse poi diversa dal campione, e in quali condizioni avvenisse il trasporto, in quali “stocking” o “magazzinaggio”, se, infine, fossero possibili successivi controlli... a ogni mia domanda rispondevano evasivamente o scherzosamente, anche se i magici nomi ricorrevano con inesausta frequenza e sempre con una certa solennità: “Ah, il Cabernet, quest’anno, ne abbiamo di primissimo ordine! Ah, il Recioto! Il Recioto, il migliore della zona, posso assicurare, dovrebbe provarlo!” Chiedevo, allora, il nome del produttore. “Eh no, ci dispiace, ma non possiamo dirglielo. Segreto professionale. Si tratta di merce per cui siamo in parola!” Neppure mi riusciva di strappare qualche confessione su particolari più squisitamente tecnici: sul grado alcoolico di certi vini, sul tipo di filtraggio e di rimontaggio, sulla eventuale e probabile refrigerazione e pastorizzazione... tanto che, a un dato momento, cominciai a dubitare. Non è che non vogliano parlare, mi dicevo: è che non sanno. Non sono dei tecnici, sono dei commercianti. E l’unica informazione precisa che finalmente mi fornirono sembrò dimostrare l’esattezza di questa ipotesi. Si era venuti, non so come, a parlare del Clinto: vino che tutti disprezzano e che nessuno commercia, ma vino che personalmente amo, e che gli agricoltori e i lavoratori, un po’ dovunque nella Valle del Po, in Piemonte come in Emilia, in Lombardia come nel Veneto, consumano regolarmente e prediligono per la sua giovinezza, la freschezza, la scivolante gradevolezza, il profumo di fragola, le qualità passanti e dissetanti. Il Clinto, del resto, non è commerciabile perché, quasi sempre, il suo alcool non raggiunge nemmeno la gradazione prescritta dalla legge. Gli agricoltori padani lo pigiano per loro esclusivo, personale consumo. Ma è l’unico vino sicuramente genuino, per la semplice ragione che il suo prezzo è così basso che non varrebbe mai la pena di sofisticarlo. “La ditta X,” dice uno dei due vinattieri, e X era il nome, che non riferisco, di una delle più grosse e più note aziende che producono, acquistano, confezionano e smerciano vino in alta Italia, “la ditta X ha fatto, di recente, un affare formidabile. Venuta a conoscenza del fatto che i nostri emigrati in Belgio come operai o minatori sono in maggioranza veneti, figli di contadini veneti, e, quindi, abituati al Clinto, la ditta X ha comperato Clinto in massa a prezzi ridicoli, tutto quello che riusciva a trovare, e lo ha esportato in Belgio, che adesso col non costa niente di più oltre il trasporto, e ha realizzato un guadagno enorme! Capito come si fanno i miliardi?” MEC Il Clinto è vino, come si dice, “di pronta beva”: lo si può bere subito dopo fatto: anzi, lo si deve bere presto: tuttavia (parlo per esperienza) sopporta benissimo qualunque viaggio, e qualunque tipo di trasporto, e non ha nemmeno bisogno di essere conservato in una vera cantina, basta tenerlo allo scuro e relativamente al fresco. La trovata della ditta X mi galvanizza. Distribuire il Clinto, vino umile, rozzo, genuino, poverissimo, non lavorato, distribuire il Clinto, squisito vino da pasto: apparterrebbe in pieno al mio sogno controrivoluzionario: controrivoluzionario solo del costume, non del resto. Perché non sarebbe possibile fare per i cittadini di Milano ciò che è stato fatto per i nostri emigrati in Belgio? Lo chiedo ai due vinattieri. Perché? E i due vinattieri mi guardano, ridendomi francamente in faccia, come se avessi raccontato una barzelletta. Intanto crollano il capo e non mi rispondono. “Lei è un bel matto” mi dicono anche senza parole. Si tradiscono, però, quando, a notte ormai alta, usciamo dall’osteria. Un vicolo stretto della vecchia città. Pioviggina. A picco sotto la luce azzurra e quasi livida di un fanale che sfavilla, in alto, nell’oscurità, tra due rosicchiate muraglie secentesche, è l’auto dei due vinattieri: una vecchia 1800 nera. Il bagagliaio, troppo pieno, è semiaperto: fissato al paraurti posteriore con tutto un intreccio di cordicelle. Temendo la pioggia, uno dei due, il veronese, si affretta a slegare le cordicelle e poi comincia a trasportare nell’interno dell’auto la parte eccedente del bagaglio. Bagaglio o mercanzia? Ora vedo: scatole usate e sfrangiate, “cartoni” pieni di bottigliette. Ma bottigliette proprio piccolissime, da un decilitro, non da più. Ciascuna col suo tappino, assicurato da uno spago; e ciascuna con una strisciolina di carta, appiccicata alla meglio intorno al collo. Sono campioni di vini, a centinaia. Su ogni strisciolina è scritto il nome del vino, il nome del tipo o sottotipo, il nome del produttore e l’annata. “Perché non le aveva messe, prima, dentro la macchina?” domando incuriosito, “così avrebbe potuto chiudere il bagagliaio!” “Perché, prima, la macchina era piena di altri campioni, che poi abbiamo consegnato. Non credevo che venisse a piovere. Lei vuol proprio sapere tutto!” Mi avvicino, leggo alcuni nomi: Merlot, Soave, Cabernet, Bardolino, Valpolicella, Lugana, Tocai... “Vorrei anche assaggiare, se non disturbo... se è possibile... Questo, per esempio, e questo... e anche questo...” Sono accontentato. Gentilmente, mi stappano le bottigliette. Assaggio. I vini mi sembrano, e forse sono, tutti eguali. Molto, se avverto la differenza tra i bianchi e i rossi. Il sapore fondamentale, e che direi proprio unico per tutti quelli che vengo assaggiando, è come di un’acquerugiola tra dolciastra acidula e amarognola, senza nessun specifico carattere, e soprattutto senza la minima gradevolezza. La constatazione mi deprime, ma non mi sorprende. Conosco, ormai, quanto sia difficile trasportare e conservare il vino, qualunque vino. In bottiglie, poi, così imperfettamente e dilettantescamente tappate, e di così piccola capacità, so che, addirittura, è impossibile. “Ma a che cosa servono questi campioni? Non hanno più nessun gusto!” dico ridendo ai due vinattieri. Ridono anche loro: “Sa, l’importante, nel nostro mestiere, è di trovarsi nelle condizioni di poter fare un po’ di manfrina... Sa, tanto nessuno ci capisce niente... né quelli che lo producono, né noi che lo vendiamo... neanche noi... neanche noi...” Sono crollati. Continuano a ridere mentre ficcano a forza le bottigliette nei cartoni ormai molli di pioggia. Le risate dei due vinattieri si mescolano alle mie e a quelle di Bòccoli, al fruscio della pioggia, e al fitto, frenetico acciottolio delle bottigliette che non vogliono stare nei cartoni già pieni e scappano da tutte le parti. Adesso piove più forte. Ci decidiamo a raggiungere anche noi la nostra macchina, poco più in là, in fondo al vicolo. Salutiamo i due vinattieri a gran voce, corriamo via. Mentre saliamo in macchina, li vediamo ancora. Trafficano intorno alle scatole e alle bottigliette, spostandole dal bagagliaio all’interno della macchina, andando e venendo nel cono di luce livida e argentea, che la pioggia riempie e riga. Sembrano impegnati in un balletto. La scena ha qualcosa di stregonesco. “Danza macabra” sarebbe il titolo: “Danza macabra intorno al cadavere del vino italiano”. Verso l’Alto Adige tra siepi di forsizie. I signori Kettmeir padre e figlio mi danno lezione di vitivinicoltura altoatesina. Lunghi assaggi e mia prima ebbrezza. Quel giallo squillante e festoso decorava le rive delle montagne, ai lati della strada, le siepi o i giardini delle casette e delle villette, con ininterrotta frequenza, da Rovereto a Trento, da Trento fino a Bolzano: e mi pareva identico, o quasi, al giallo delle ginestre. Ma capivo che ginestre non erano: distinguevo qualcosa di più delicato, più fragile ed eretto, in ciascun arbusto: e, nei fasci, nei ciuffi dei piccoli fiori, qualcosa di più sparso e magro. “Sono forsizie,” disse Bòccoli. Forsizie: nome che, lo confesso con un po’ di vergogna, mi era ignoto: mentre Bòccoli lo pronunciò con una naturalezza, con una familiarità affettuosa, con un tono di ricordo d’infanzia e non certo di cultura botanica. Sul finire del pomeriggio, arrivammo a Bolzano, in tempo per la chiusura della quarantottesima Mostra-Assaggio Vini. La città era un trionfo di fioriture primaverili. Parcheggiata la macchina, ci dirigiamo subito all’Albergo Laurin, sede della mostra. Attraversiamo a piedi il grande giardino pubblico, tra file di magnolie di ogni specie: fiori bianchi, o rosa, o lillà, dall’aspetto carnoso e dal profumo denso, intenso, penetrante. I Kettmeir padre e figlio ci attendevano: appena entriamo al Laurin, ci vengono incontro tra la folla dei visitatori, dei produttori, dei mercanti: e ci accolgono con straordinaria cordialità. I Kettmeir sono produttori di vino nella vicina zona di Caldaro, e proprietari di una grossa azienda enologica, che ha stabilimenti anche a Bolzano. All’aspetto, l’uno dall’altro, piuttosto diversi. Il padre: grigio, robusto, corretto, con un che di militaresco e, insieme, di professorale, che mi ricorda stranamente il grande regista Pabst. Kettmeir padre assomiglia a Pabst anche per la forma allungata della testa, per il risalto che le stanghette degli occhiali hanno sulle tempie, ma forse soprattutto per la simpatia del contrasto tra la naturale arguzia e quell’aspetto che dicevamo, di ufficiale superiore e di insegnante universitario. Quando parla italiano, Kettmeir padre ha un leggero accento veneto, che naturalmente sottolinea la sua arguzia e la sua bonomia. Allo stesso modo Pabst si valeva del francese. Kettmeir figlio, invece, è biondo, frisé, alto, magro, roseo: accento aristocratico, tratto snob e cosmopolita. In tutti e due è chiara l’impostazione mitteleuropea, la serietà e la consistenza, estreme, della tradizione. Entriamo in una piccola sala, dove è appena il posto per un grande tavolo rotondo e, intorno, per una mezza dozzina di sedie di Vienna. Vassoi, tovagliolini, piattini. Tutta una gamma di bicchieri diversi davanti a ciascun posto, perché si possa distinguere più facilmente i vini, gustando e rigustando. E una quantità di bottiglie, che continuano ad arrivare e che le kellerine continuano a stappare. Ha inizio, così, una vera e propria lezione, teorica e pratica insieme, dove mi sono impartiti, dai due Kettmeir a turno, i primi rudimenti circa i vini e i vitigni dell’Alto Adige. Tutta la produzione si divide in 80% di rosso, e in 20% di bianco. Esiste, poi, una piccola quantità di rosato, o kretzer, che è considerato più vicino al bianco o al rosso, secondo i casi. Vitigni per il vino bianco: Pinot. Non dovrebbe differire molto dal vitigno che i francesi chiamano Chardonnay o Pinot-Chardonnay, e che di regola cresce soltanto su un terreno calcareo, o argilloso. Riesling italico. Riesling renano. Sauvignon. Sylvaner. Traminer, vino di Tramin, in italiano Termeno; e la varietà detta Gewürtztraminer, Termeno Aromatico, vino specialissimo che, per sua natura biologica, per sua costituzione originaria e non in seguito a particolari artifici di trattamento, ha un delizioso profumo e gusto, tra di cannella, garofano, e di altri aromi e sapori, che bisognerebbe studiare a lungo e pazientemente per arrivare a definire. Vitigni per il vino rosso: Uva Schiava. Lagrein. Pinot nero, o Blauburgunder. E poi i Merlot e i Cabernet e altri, che però non sono caratteristici della zona. Vediamo i primi tre, cioè i più importanti. 1. L’Uva Schiava. In tedesco chiamata Vernatsch. Non ha niente, se non la radice linguistica, in comune con la nostra Vernaccia. Vernaccia, del resto, è soltanto un nome anche per noi. Conosco almeno quattro Vernacce: la Sarda, la Romana, la Toscana di San Gemignano, la Ligure di Vernazza, che forse è la più antica. E ciascuna di queste quattro è completamente diversa dalle altre. Il 90% dei vini prodotti in Alto Adige è fatto di Vernatsch, o Uva Schiava. Nella zona di Caldaro, dà un vino più leggero, pronto alla beva, buono da giovane, chiaro, sugli 11 e mezzo, 12 gradi d’alcool. Nella zona di Santa Magdalena si fa il St. Magdalener, il Sanmaddalenino, che è un vino più di corpo, e il più pregiato di tutti i vini di Schiava. Assomiglia al Beaujolais; e perciò il vitigno dovrebbe crescere su terreno granitico. Santa Magdalena è una collina, un mammellone che chiude a nord la conca di Bolzano, là dove finisce la valle dell’Isarco: i vigneti rivestono l’intera collina, e guardano tutti a mezzogiorno. In genere, ciascuno di questi vini è prodotto con la pigiatura di una sola qualità di uve, anche se, poi, ciascuna di queste qualità include varie “sottoqualità” lievemente diverse. Ad ogni modo, il Santa Magdalena e il Barolo sono i soli due vini italiani importati in Svizzera con diritto di assegnazione alla “classe extra”: tutti gli altri, e cioè anche il Chianti e il Valpolicella, tradizionali e codificate mescolanze di uve provenienti da vitigni tra di loro diversi, sono esclusi da cotesta categoria di lusso, senza riguardo alla loro qualità, anche se pregiatissima, e alla loro annata. 2. Il Lagrein. Vitigno e vino, anche in questo caso, si identificano rigorosamente. Il Lagrein è un vino più “pieno” dei vini fatti con Schiava. Più di corpo, più scuro. Esiste anche il Lagrein rosato, o kretzer, che è lavorato senza buccia, e che è altra cosa. Il Lagrein rosso si conserva due o tre anni. Il kretzer meno: un anno, poco più, è la sua durata. Il Lagrein viene soprattutto in zone di pianura, nei fondovalle: per esempio a Gries, frazione di Bolzano. Assomiglia al Teròldego di Mezzocorona, e al Marzemino. Vino speciale, di produzione relativamente ridotta, prelibatissimo. 3. Il Pinot nero, o Blauburgunder. Questo vitigno, come quello del Pinot bianco, dovrebbe crescere su terreno argilloso... La lezione continua. Ma come potrei seguirla, ormai? E come ricordarmi di tutto? Bicchiere su bicchiere, sorso su sorso, da un paio d’ore assaggio, confronto, ascolto le dotte spiegazioni di Kettmeir padre, di Kettmeir figlio: i loro sorrisi, le loro voci, le loro occhiate maliziose e benevole mi si confondono in una nuvoletta dorata. Capisco solo che, nonostante l’esperienza del mio primo viaggio, sono rimasto un ignorante: e che non sono abbastanza allenato ai prolungati assaggi. Dovrei limitarmi a guardare contro luce il bicchiere, a fiutare profondamente il vino prima di accostare le labbra, e poi a brevi, brevissimi sorsi... No, non sono capace. Finisco sempre per bere, bere, bere: mandar giù un mezzo bicchiere dopo l’altro e senza riflettere a ciò che provo, senza tentare di circoscrivere, nemmeno alla lontana, le mie sensazioni. Ahimè, questa saletta d’albergo è come un’aula di Sorbona, dove sostengo, incautamente, un esame di dottorato e da cui, per onestà, dovrei ritirarmi prima che mi venga assegnato un voto qualsiasi! Finalmente, arriva sul grande tavolo rotondo una specialità prodotta dai Kettmeir: uno spumante secco, uno champagne brut a base di uve Pinot, e vinificato non già alla champenoise, ma col cosiddetto metodo Schanderl. Il remuage avviene in grossi recipienti, meccanicamente, prima di imbottigliare. Kettmeir padre spiega i minuti particolari della lavorazione. Confesso: non sono in grado di ricordarli. Ma lo spumante, oltre che secchissimo, mi sembrò aereo, vaporoso, gentile. Ora di cenare, adesso. E il primo piatto, un profumato speck (prosciutto di maiale affumicato), basta a saldare la frattura operata nella mia coscienza dai vari Vernatsch, Burgunder, Terlaner e Traminer. Incontro col giovane enologo. Sua perplessità. In ogni regione, il numero dei vini accusa la brevità dei viaggi (e della vite). Un’incerta stretta di mano. A bevuta lunga, lunga dormita. Quando scendiamo, il sole è già alto. Obbiettivo della giornata: Bressanone in Val d’Isarco, il famoso Sylvaner dei frati di Novacella. Usciamo dall’albergo, disponendoci alla partenza. Un ultimo caffè. Attraversiamo la piazza, entriamo nel bar dell’angolo. E mi trovo davanti un viso noto, che però non so chi sia... Aspetto civile e garbato, espressione lievemente ironica, viso liscio e giovanile... Mi ricordo di lui soltanto dopo qualche minuto che discorriamo: ma certo, certo! continua la serie delle combinazioni fortunate! neanche se lo volessi cercare apposta! È un enologo di Bolzano, che avevo conosciuto l’anno prima al Congresso Vitivinicolo di Firenze, e col quale, al Forte Belvedere, in un dibattito pubblico e ufficiale, avevo avuto uno scontro un po’ vivace sull’argomento che prediligo: il mio “chiodo fisso”: l’eccellenza dei vini senza etichetta. “Sa perché sono qui? Indovini,” gli dico adesso, a bruciapelo, sapendo di sorprenderlo. “Per un secondo viaggio sul vino! Nel primo, all’Alto Adige non avevo nemmeno accennato!” Il giovane enologo, per un istante, rimane senza parole: mi guarda tra allarmato e felice, con un’aria di imbarazzo quasi comica. Felice perché parlerò dei suoi posti e dei suoi vini. Allarmato perché, forse, teme non ne dica bene. Capisco che devo rassicurarlo immediatamente: né ho bisogno, per gentilezza, di mentire. Com’è riposante, in certe occasioni, la sincerità. “Sono arrivato appena ieri,” dico, “ma naturalmente conoscevo i vini dell’Alto Adige. E ho sempre pensato che, a parte le preferenze del gusto, che variano da individuo a individuo e che, in ogni caso, vanno rispettate, i vini dell’Alto Adige siano, per la perfezione della tecnica e per la fedeltà assoluta alla tradizione, tra i primi di tutto il mondo.” I piccoli occhi pungenti del giovane enologo si illuminano, a queste mie parole, e sembrano ingrandire. Non vedo più ombre sul suo viso. “E dica... lei,” mi chiede esitando, quasi trepidando: “lei conosce la nostra Cantina Sociale di Santa Magdalena? E i vini del nostro Consorzio Viticoltori del Santa Magdalena, li conosce?” “Purtroppo, no. Non ancora, almeno.” “Vedo, però, soltanto dalla sua espressione che lei, quando sente: Consorzio, Cantina Sociale, senza volerlo, pensa alle Cantine Sociali e ai Consorzi della Val Padana. Ma qui, da noi, a Bolzano, queste organizzazioni sono tutt’altra cosa. Infinitamente più serie. Fanno vini di prim’ordine, e il Sylvaner dei Canonici Regolari di Novacella, lo conosce?” “Certo. Buonissimo. Ci andiamo stamattina, a Novacella.” “E il Lagrein dei Benedettini di Muri, qui, alla periferia di Bolzano, lo conosce?” “È stato lo stesso Kettmeir a consigliarcelo. Andremo a Muri domani o dopodomani.” “E il Traminer e il Gewürtztraminer di Hofstätter a Termeno? e quello dei Walch? E i vini dei Lun, dei Menz, dei Pernter, dei Platter, degli Schenk, Staffler, Torggler, Vaja, Weger, Widmann, Zemmer, Zipper, Zisser?” “Lun, Walch... sì, li ho provati. Squisiti. Avrò certo bevuto anche qualcuno degli altri che dice lei... Ma non ricordo. Non sono un tecnico, sono solo un dilettante. E poi come faccio? Per rendermi conto, dovrei rimanere qui un mese!” Il giovane enologo torna a sorridere: tuttavia crolla il capo, non pare convinto. Ci lasciamo così, con un’incerta stretta di mano. E sotto un cielo di azzurro fulgido, nell’aria bruciante e frizzante della primavera tra i monti, usciamo dall’antica, vivacissima, pulitissima città, e prendiamo la strada del Brennero. Incontro nel monastero di Novacella con il Sylvaner che già conoscevo. Secondo lo scrittore argentino Borges, l’assenza di cammelli dimostra la profonda “arabicità” del Corano: mi chiedo cosa dimostrino le scritte in gotico e i mobili folkloristici della Cantina di Novacella. Ma per fortuna dell’autenticità altoatesina il padre guardiano rifiuta di ricevermi. Arriviamo a Novacella, patria del Sylvaner, a mezzogiorno suonato. Il grande cortile del monastero è deserto, assolato, rovente. Per fortuna, in un angolo, troviamo aperta la Cantina, e il Sylvaner, pronto, della dovuta freschezza. Una punta di delusione. Il vino, che i cantinieri dal rituale grembiule blu spillano da botti o damigiane (vanno di là, a spillarlo), mi pare quello che conoscevo: quello che tante volte mi aveva dato, in bottega, il Provera a Milano: di color giallo chiaro tendente al verdolino, leggero, secco, armonico, lievemente profumato, lievemente acidulo, lievemente frizzantino: ricorda addirittura, se pur con meno finezza, il Morgex della Val d’Aosta. Ma... sul vino non ho dubbi: non mi convince, ecco, l’atmosfera della Cantina. Intendiamoci. So benissimo che lo stile dei mobili e delle scritte gotiche è autentico. So benissimo che i tavoli e i sedili rustici sono, se non antichi e locali, copiati da modelli locali ed antichi: e che, se qualcuno ha diritto a sfruttare il folklore, è proprio la gente del Tirolo di qua e di là dalle Alpi, sono proprio i valligiani dell’Alto Adige, dell’Isarco e dell’Inn, perché per loro il folklore coincide con un bisogno di libertà e di autonomia, con la necessità intima che li spinge a distinguersi strenuamente (anche se non politicamente) dagli italiani o dagli austriaci. Ciò nondimeno, mi mette a disagio il sospetto di una loro eccessiva consapevolezza, fatalmente sconfinante nell’artificio: come se essi coltivassero in segreto gusti diversi, più moderni, più anonimi, magari più italiani o più americani, e vi rinunciassero deliberatamente, conservando oggetti e usi antichi o anticheggianti soprattutto a scopi consumistici, turistici, pubblicitari. I più veri alpini non vanno mai ai “Raduni degli alpini”. Chissà che, allo stesso modo, i più veri tirolesi non disdegnino mobili di plastica o di acciaio inossidabile, e amino i materassi prodotti in serie. A parte questo, il Sylvaner è perfetto: e graditissima vi si accompagna la grande focaccia rotonda di pane duro, che sgranocchiamo per poter bere meglio. Dopo il parco antipasto, chiedo di essere ammesso alla presenza del padre Giner, il guardiano. Malgrado la previa telefonata di Bòccoli, stamattina, da Bolzano, e malgrado le mie insistenze, adesso, col fratello portinaio, faccio fiasco. Che il momento non sia propizio? Siamo arrivati con grande ritardo, i padri sono in refettorio o già a riposare: e la giornata dei frati, si sa, è regolata su orari precisi e invariabili. O che un “giornalista” (tale, certamente, sono considerato dai padri) italiano non sia, sic et simpliciter, troppo accetto? Non importa: nell’uno e nell’altro caso, questo rifiuto mi rincresce, ma mi pare un buon segno: contraddice nettamente all’atmosfera folkloristico-pubblicitaria della Cantina e va d’accordo con un giudizio favorevole sulla qualità genuina del Sylvaner. Accompagnati da un fattore di poche parole e probabilmente anche di poche idee, visitiamo le vigne. Sono tutte intorno al monastero, inframezzate ad orti paralleli e geometrici, floridi e splendidi, che rigurgitano di cavoli, bietole, insalate e legumi. Anche questo mi pare un buon segno. Tra i filari, ora vediamo un giovane padre che passeggia in su e in giù col suo breviario: la veste nera è attraversata da una curiosa, pittoresca banda di color cobalto che taglia diagonalmente il nero, sul davanti, dal colletto fino ai piedi. Pieno di rispetto per la veste, per gli orti, per la vigna, per il breviario, per il giovane padre, non oso avvicinarmi. Ce ne andiamo. E allorquando, all’uscita dalla cinta del monastero, alcuni giovinastri locali, che prima erano nella Cantina e ci avevano udito parlare coi cantinieri, ci abbordano con fare circospetto, e con lunghi discorsi ci persuadono a seguire la loro macchina fino ad una casa colonica isolata su un poggio vicino, dove la famiglia von Klausner pigia, dicono, un altro Sylvaner, e poi, tenaci e tenebrosi, aggiungono che questo Sylvaner sarebbe molto migliore di quello dei padri, e infine insinuano che quello dei padri sarebbe tagliato con vino di Sicilia, sic et simpliciter non crediamo. Firmato a Strasburgo l’accordo sul vino. Quella stessa sera, 22 aprile 1970, il telegiornale comunicò che a Strasburgo, poche ore prima, i rappresentanti del avevano finalmente raggiunto il famoso “accordo sul vino”. Alcune riprese mostravano la cerimonia della firma. E l’indomani mattina i giornali riportavano la notizia. MEC Ora, non si poteva dire che la notizia non fosse attesa. Ma le lungaggini e le estreme difficoltà delle discussioni, continuamente, da anni, interrotte, rinviate, ricominciate, avevano lasciato supporre che l’accordo fosse ancora lontano. Grande, perciò, in quei giorni, fu l’effetto della notizia in tutti gli ambienti e in tutti i luoghi dove la produzione del vino ha importanza: e grandissimo appunto in Alto Adige. Se, infatti, Torino è la città dell’automobile, Bolzano è la città del vino. Pare che almeno un 25% di tutto il vino, che l’intera Italia esporta, provenga dalla sola provincia di Bolzano. Se si pensa che la provincia di Bolzano, con 7.400 kmq, rappresenta poco più della quarantesima parte della superficie italiana: se si pensa questo, non sembrerà esagerato affermare che l’accordo di Strasburgo, garantendo (almeno teoricamente) via libera al commercio dei vini in tutti i sei paesi del , sia un fatto che riguarda Bolzano prima e più di qualunque altra nostra città. MEC Qui tutti amano il vino, s’intendono di vino, parlano di vino. I produttori, piccoli, grandi e grandissimi, si contano a centinaia: producono vino i privati, ne producono le società, ne producono i trust, i consorzi, le cantine sociali. Ne producono avvocati, medici, banchieri, padroni di bar: e ne producono, lo abbiamo visto, perfino i frati. I tipi, tra bianchi, rossi e rosati, amarognoli, secchi, secchissimi, aromatici, abboccati e dolci, sono innumerevoli e innumerevolmente variati. Alla Mostra-Assaggio dell’Albergo Laurin, erano presenti ben duecentocinquanta vini diversi! Mattinata a Castel Rametz. L’armonica fusione di nuovo e antico nei vini e nel castello di Alberto Crastan. L’Europa che comincia dovrà essere l’Europa delle regioni. Fatto sta, la mattina dopo la notizia dell’accordo, sono andato a Castel Rametz, una maestosa costruzione, in cima a un’alta collina, sopra Merano. Conoscevo già i vini di Castel Rametz, prodotti da Alberto Crastan: il Blauburgunder, il Riesling, il Pinot Bianco, e altri. Ammiravo già la cautela estrema con cui Crastan applicava quel minimo di accorgimenti (chiarificazione, stabilizzazione, filtraggio, solfitaggio, ecc.) necessario allo smercio di un quantitativo relativamente cospicuo. Non conoscevo, però, il castello stesso. Alberto Crastan, gentiluomo grigionese, alto, pallido, melanconico, e forse per timidezza involontariamente severo, mi guida, stamattina, nella visita: dai sotterranei medievali che sprofondano fino al cuore della granitica collina, dalle antichissime, spettacolari cantine, a ciascuno dei piani superiori, tra immensi camini, finestre dagli enormi strombi, torri e torrette d’angolo, con le loro feritoie. Ma l’arredamento degli interni realizza una perfezione, e tale perfezione, forse, si ricollega a un felice compromesso non dissimile da quello che garantisce la qualità dei vini dello stesso Crastan. Come questi vini, infatti, sono artigianali e commerciali allo stesso tempo, così nelle sale del castello di Rametz, l’antico e il moderno si fondono armoniosamente: conservato, l’antico, senza pedanteria e senza ostentazione: introdotto, il moderno, con grazia, dovunque sia utile davvero. La materia predominante è il ciliegio: il tono è quello: legno massello, chiaro, lucido, color del miele. Nulla di più accogliente: nulla di più riposante e domestico. Qui vicino, un paio di chilometri in linea d’aria verso nord-ovest, è il paesino di Tirolo, in tedesco Tirol, che ha dato il nome a tutto il paese e a tutto il suo popolo: dall’una, non ci stanchiamo dal ripeterlo, e dall’altra parte delle Alpi. L’Adige svolta intorno a Merano quasi con un angolo retto. A sud discende verso Bolzano. A nord risale verso la Val Venosta. Due diverse luminosità, ad ogni ora del giorno, due direzioni, due prospettive, due lontananze si incorniciano, alternativamente, nella profondità delle finestre: vedute variate di un paesaggio vero e, insieme, quasi evocato: familiare e meraviglioso. Fatto il giro del castello, assaggiati e riassaggiati i vini, sedevamo, ora, nel sole, nell’aria fresca e tersa, tra i ciliegi fioriti, e avevamo davanti a noi l’anfiteatro ovale, costruito con voluta e funzionale geometria per le vigne che interamente lo rivestono, e che così, digradando verso sud, sfruttano al massimo la luce e il calore del sole, mentre sono difese, tutt’intorno, dai venti del nord e dal gelo. Improvvisamente, come pensando ad alta voce, Crastan dice: “Stamattina hanno incominciato a telefonarmi dalla Germania. L’accordo del entra in vigore solo tra un mese. Ma si vogliono prenotare tutti.” MEC È l’Europa che comincia, pensavo. E che comincia nel solo modo che può cominciare davvero: così, con piccoli fatti concreti. D’altra parte, continuavo a riflettere, d’altra parte, la frantumazione della burocrazia nazionale, e finora incentrata a Roma, non potrà, quando funzioneranno le autonomie regionali, non accordarsi naturalmente a questo processo di unità europea a cui tutti aspiriamo: non potrà non aiutarlo. Le regioni sono più facilmente internazionali che non le nazioni. Si comincia, adesso, a toccare con mano una verità che, modestamente, avevo intuito fino dal settembre 1945, quando, a Basilea, al Primo Congresso del Cinema dopo la guerra, avevo presentato una comunicazione dal titolo “Internazionalità dei film regionali”. Mi ero dichiarato contrario a tutti i nazionalismi europei, sia delle nazioni vittoriose sia di quelle sconfitte. Le mie idee parvero, allora, utopiche, ridicole: quanto meno, irrilevanti. Oggi Jean-François Revel scrive: “La perseveranza di quel nocciolo infrangibile che è lo Stato-nazione, fatale all’evoluzione comunitaria europea e alle diverse regioni che lo Stato stesso satellizza e sterilizza, porta a intravedere un’Europa delle Regioni. A partire dal momento in cui diventa chiaro che nessuna delle attuali nazioni europee può assumersi il ruolo di pianeta centrale, non si vede perché le regioni debbano sacrificare la loro originalità economica, culturale, linguistica, a delle capitali che su una scala mondiale sono, ormai, soltanto delle sottoprefetture. Ed è così che si opera una congiunzione tra le aspirazioni regionali e l’aspirazione europea.” Gli errori di un trattato. Le uve del Sud “salvate” attraverso la calunnia. Lo zuccheraggio e il taglio. Il Nebbiolo perfetto di Siracusa. Oggi, tutto questo dovrebbe essere chiaro. Ma quanti sono, oggi, coloro che già pensano così? Quali errori, per esempio, nello stesso accordo del ! Quale errore, soprattutto, per quanto riguarda l’Italia! Quanta ignoranza! MEC I giornali dicono che, ammettendo lo “zuccheraggio” dei vini (per aumentare il grado alcoolico) nelle altre nazioni, e nella nostra proibendolo e confermando così la nostra antica legge, l’accordo “ha salvato” la vinicoltura della Sicilia e delle Puglie. I competenti, o almeno quasi tutti i competenti, dicono la stessa cosa. E niente potrebbe essere più falso. Perché lo zuccheraggio è assolutamente innocuo e, in certi casi, per certi vini, indispensabile: non danneggia in nessun modo il vino, non ne cambia il gusto né la qualità: solo, aumenta il grado alcoolico. Laddove il taglio, il famigerato taglio, e cioè l’introduzione di zucchero attraverso mosti o vini meridionali (più dolci e quindi in grado di sviluppare più alcool) modifica irrimediabilmente il sapore, la fragranza, l’aroma e in una parola il carattere dei vini leggeri dell’Italia del Nord, distruggendo tutta la loro originale delicatezza, e invadendoli con quel gusto bruciato, affocato, catramoso, che non è gradevole, non è sano, e (questo è il più bello!) non è nemmeno caratteristico dei vini meridionali in se stessi (che, così, vengono ingiustamente calunniati), ma solo dei vini meridionali quando le uve sono state lasciate maturare troppo a lungo. Certo, per i vini pregiati, di lusso, di origine controllata, ecc. ecc., negli stessi accordi del il taglio non è ammesso. Ma Francia e Germania, le due nazioni nostre concorrenti dirette nel , non temono il nostro rilancio nel campo dei vini pregiati, dove loro sono fortissime: lo temono invece nel campo dei vini normali da pasto, che supererebbero agevolmente i loro e costerebbero molto meno, se lo zuccheraggio fosse permesso! MEC MEC La lunga opposizione che, nelle trattative precedenti l’accordo, i colleghi francesi e tedeschi hanno fatto al nostro taglio è stata, dunque, una manovra astuta ed ipocrita. Essi erano preparatissimi a cedere, sapendo che gli esperti italiani, legati a interessi difficilmente reversibili, non avrebbero ceduto mai: e sapendo che il taglio, sul piano della concorrenza internazionale, giocava a favore della qualità dei loro vini, e contro la qualità dei nostri. Il taglio non rovina soltanto i nostri vini da pasto del Nord, rovina anche quelli del Sud, che la legge, per proteggere il reddito dei grossi produttori pugliesi e siciliani, da circa cento anni enologicamente ha distrutto. Se l’Italia, primo paese del mondo quantitativamente come produttore di vino, si trova, qualitativamente, al terzo, al quarto, e in certi settori, anche più giù, la colpa è soltanto della legge del taglio. Bisogna sapere che le uve siciliane e pugliesi erano, un tempo, vendemmiate presto, in agosto o in principio di settembre: e davano, perciò, un vino ben diverso da quello che oggi, comunemente, si consuma come vino meridionale: un vino diverso, meno dolce, meno affocato, meno liquoroso, più leggero. Ma, ormai da cento anni, per via della legge, vengono vendemmiate tardi: cotte in vigna dal sole violento del basso Adriatico e dello Ionio, ricchissime di zuccheri, producono un mosto che si paga tanto più caro quanto più è dolce, quanto più alcool sviluppa. Fanno eccezione i passiti, naturalmente, a cui la dolcezza si addice, e i vini dell’Etna e di altre zone montane della Sicilia, che per l’altitudine delle vigne non raggiungono mai quella dolcezza e che, quindi, non si prestano al taglio, e sovente non cedono in qualità ai nostri migliori vini del Nord. Ma chi conosce questi vini? Solo pochi curiosi e specialisti. E, in ogni caso, la quantità della loro produzione che cosa rappresenta in rapporto all’immenso volume della produzione di tutti i vini e mosti delle pianure di Puglia o di quelle tra Siracusa e Ragusa? Certo, non si poteva pretendere che pratiche viticole, enologiche, commerciali, in uso da cento anni fossero abrogate e cambiate in un batter d’occhio, con la firma di un trattato come quello di Strasburgo. Sarebbe stato un disastro. Ma perché gli esperti nostri rappresentanti non hanno studiato un accordo che prevedesse e codificasse un’evoluzione, un graduale risanamento della nostra vitivinicoltura meridionale? Si sono lasciati sfuggire una stupenda occasione! Era un piano difficile, ma possibile: ambizioso, ma esaltante. Con una serie di provvedimenti ben calcolati, elaborati, progressivi, si sarebbe giunti a fare dell’Italia la nazione-guida del vino, in tutto il mondo. Ho gustato, a Siracusa, un Nebbiolo (sissignori, un Nebbiolo!) prodotto sperimentalmente a sud del Ciane, con vigne irrigate artificialmente e con uve vendemmiate presto: un Nebbiolo leggero, profumato, perfetto! Una volta superati gli anni difficili della transizione, e finalmente abolito il taglio, nessun’altra nazione avrebbe potuto batterci. Vini buonissimi ed in enorme quantità: buonissimi anche per i consumatori della più modesta disponibilità finanziaria: vini da tavola anche meridionali, eppur freschi, economici, leggeri! Ma proprio questo, forse, sapevano e paventavano gli enologi francesi e tedeschi del . Hanno giocato con i nostri. E forse i nostri, in buonissima fede, sono stati miopi. MEC Adesso, entrato in vigore l’accordo, per fare fronte alle richieste crescenti e pressanti d’Oltr’Alpe, e non potendo zuccherare, i nostri produttori, a cominciare da quelli di Bolzano, dovranno ogni autunno, per i vini comuni, provvedere al taglio (del resto, in minore misura, lo avevano sempre fatto: da cento anni). Dovranno, cioè, ordinare centinaia e centinaia di treni o autotreni-cisterna, che, colmi di mosti o di vini, risalgano la penisola dall’estrema punta delle Puglie: oppure navi che dalla Sicilia sbarchino cotesta materia prima a Genova, a Venezia, a Trieste... E così, il nostro vino comune dell’Alto Adige, che zuccherato sarebbe stato ottimo, continuerà a essere quello che è. Parallelamente, il nostro vino comune di Puglia e Sicilia continuerà a essere disprezzato, mentre avrebbe potuto gradualmente, diciamo in dieci, dodici anni, diventare un prodotto, nel suo genere, non inferiore a nessun altro. L’accordo di Strasburgo non “salva” affatto, come tutti hanno detto, il nostro vino meridionale: salva, e solo per il momento, i suoi produttori. In realtà, poi, nuoce anche a loro, perché vieta loro di realizzare, in futuro, un profitto molto maggiore. Ma contro gli sfiduciati e gli ignoranti, chi combatte? “Pochi, maledetti e subito” è il loro invincibile slogan. Ancora più invincibile quando, come in questo caso, non sono, poi, tanto “pochi”: perché, messi tutti insieme, finiscono in mano di due o tre persone, che non vogliono grane e che mirano, soprattutto, a guadagnare senza fatica, senza cambiare mai niente. Di tutto ciò parliamo con Alberto Crastan, il quale, imprenditore onesto e tecnico appassionato, non può che approvarci. Il primo dono di padre Gregor: una mattinata nell’orto dei Benedettini, a Gries. Il meraviglioso Lagrein, “che dura due anni e persino tre”. Lunch dai Kettmeir. Padre Gregor, l’abate di Muri, per un motivo o per l’altro, o anche per un equivoco sorto al telefono (strumento che, la Dio mercé, non deve essergli molto familiare), padre Gregor non fu puntuale all’appuntamento. Ma, senza volerlo, proprio così ci fece il regalo più bello. Ci fece aspettare tre ore, un’intera mattina: e quella mattina fu la migliore ouverture immaginabile alla degustazione del suo Lagrein. Era l’orto dei Benedettini, a Gries. Un immenso quadrilatero in perfetta pianura: tre ettari coltivati a vigna, e pezzati qua e là, come a Novacella ma meno fittamente, di orti e frutteti. Questo terreno, una volta, era ai confini meridionali di Bolzano: adesso, raggiunto e superato dalla città, si trova circondato da case fortunatamente poco visibili, e vale, dicono, 60.000 lire al metro quadro, dunque miliardi. Ma i frati non ci badano: oppure, capiscono davvero che qualsiasi speculazione edilizia ha un pregio infinitamente inferiore alla speculazione spirituale, filosofica e, diciamolo pure, divina. Salvano così l’anima e il paesaggio e il vino. Sono Benedettini: siano benedetti: siano di esempio, non so quanto imitabile, a tutti gli italiani. Nel fulgido mattino primaverile, non ci stancammo di percorrere in lungo e in largo i vigneti, i frutteti, i prati: di attraversare le lucide frusciami velocissime correnti dei canali sui vecchi ma sempre solidi ponticelli di legno: di fotografare come meglio sapevamo questo giardino delle Esperidi, e le cupole, l’abside, il campanile, le muraglie dell’antica Abbazia, intatta tra le vigne intatte, nella pianura intatta, sullo sfondo delle intatte montagne. Come ridire la felicità che ci procurava quel paradiso terrestre? Bòccoli è troppo giovane. Ma per me, prima di ogni pensiero, era il riaffiorare di impressioni familiari alla mia infanzia, poi perdute per sempre, e che non credevo mai più di ricevere ancora, se non attraverso gli occhi della mente. La terra, i solchi, l’erba, i fiori del pesco e del ciliegio, l’aria, i profumi, i silenzi, gli attrezzi del lavoro campestre abbandonati qua e là, una baracca dipinta di verde, le panchine per il riposo nei pomeriggi d’estate, i pergolati, lo stridio degli uccelli, il chioccolio delle galline liberamente raspanti un po’ dovunque, il verso tranquillo delle anitre, il ronzio degli insetti, componevano una musica e uno scenario dolcissimi, una gioia non obliata, no, ma l’intensità della quale adesso mi fasciava e mi inebriava come una volta, nello stupore, al di là di ogni speranza. Come disse Talleyrand? “Chi non ha vissuto prima della Rivoluzione non sa che cosa sia la dolcezza del vivere.” Chi volesse provare com’era la campagna prima della civiltà dei consumi (perché tutta la nostra campagna, anche dove non è inquinata, è un’altra cosa da un tempo) non ha che venire qui, nella vigna dei Padri Benedettini, al Convento di Muri. Padre Gregor, l’abate di Muri (mi sia permesso di chiamarlo così, anche se, forse, abate non è), arrivò sul far del mezzogiorno. È piccolo, tarchiato, dimesso, grigio, grinzoso e grintoso, perennemente ridacchiarne. Lo segue, anzi lo tallona ad ogni passo, un giovane cantiniere nel suo grembiule blu, rosso in volto, muscoloso, florido, dallo sguardo tranquillo ed astuto. Padre Gregor è uno che va per le spicce. Ci invita nell’ufficetto terreno riservato all’azienda vinicola: una stanza linda, con le finestrelle che danno direttamente sulle vigne: quattro sedie e un grande tavolo di ciliegio: arredamento del 1910. Ed ecco, subito sul tavolo, le bottiglie e i bicchieri. C’è la Malvasia, c’è il Santa Magdalena, ci sono i Pinot, bianco e nero, ci sono parecchi dei vini più celebrati della regione. Ma è doveroso che il discorso si arresti alla eccelsa specialità di Muri: il Lagrein dunkel, ossia scuro; e, ma solo in subordine, il Lagrein kretzer, il rosato. Il Lagrein si produce quasi esclusivamente nel comune di Bolzano, su terreno sabbioso, di origine alluvionale. Il colore è rosso-granato chiaro, o rubino-granato (Garoglio). Il profumo è fruttato. Lievemente frizzante. Lievemente corposo. Molto esportato, soprattutto in Svizzera e Germania. Sapevo già che non invecchia. Ne parlo al padre Gregor. “Oh, no, no!” risponde con la sua voce gutturale e stridula, che è tutta un continuo raschiare e ridacchiare: “no, no! Dura due anni e, se è tenuto in una buona cantina, anche tre anni! Anche tre!” Iddio ti benedica, padre Gregor! Vinificatore leale e sincero! Che non sai dove stia di casa l’imbonimento e la menzogna! Che nemmeno ti sogni di truccare il tuo vino e di ingannare il tuo cliente! Quanti produttori e quanti mercanti di bianco, buono, se buono, tutt’al più per dodici mesi, quanti ne ho sentito giurare e spergiurare su una durata di quattro o cinque anni, quando quel bianco sarà infallibilmente maderizzato e imbevibile! “Anche tre anni!” Dove troverò, ancora, altrettanta probità? Il Lagrein nero è lasciato fermentare con tutte le bucce e i graspi, spiega ora il padre Gregor: Il Lagrein rosato viene pigiato diraspando, subito appena raccolte le uve. La Malvasia, contrariamente a quanto mi aspettavo dal nome, qui è un vino rosso: denso, fresco, gradevole, ma senza il profumo e, soprattutto, senza il carattere inconfondibile del Lagrein. Tornando al paragone, che mi fu suggerito da Kettmeir, il Lagrein è la vetta di quell’altura ideale dove prosperano il Teròldego e il Marzemino. A finire la bottiglia del Lagrein, e a fare le ultime fotografie, usciamo, con padre Gregor, tra le vigne. Raggiungiamo una panchina in mezzo a un prato. Segue, fedele, il giovane cantiniere, con le bottiglie e i bicchieri. È possibile rieducare il bevitore di vino “industriale”? La più bella sorpresa che il futuro potrebbe riservarci: un ritorno magico ad alcune realtà del passato. Sono le ultime ore della nostra permanenza qui. Lunch dai Kettmeir a Caldaro. Visitiamo le modernissime cantine. Gustiamo di nuovo, e di nuovo lo troviamo buonissimo, lo champagne metodo Schanderl. Salutiamo, torniamo all’albergo, facciamo le valigie, partiamo. All’uscita di Bolzano, proprio sulla via di Trento, è la redazione di un quotidiano milanese, dove lavora un giornalista che conosco. Ci siamo telefonati, ma fino allora non avevo avuto il tempo di andarlo a trovare. Ci fermiamo. Saliamo su. Una scaletta di marmo. Tre stanzucce con le telescriventi. Il mio amico e collega ci riceve cordialissimo. Parliamo con lui del grave problema del vino non soltanto in Italia, ma nel mondo. Molte volte, i vini pregiati, più o meno di lusso, vanno male per la malafede di chi li produce o li smercia, e per l’ignoranza o la vanità di chi li consuma. Ma, insomma, ne esistono di bevibili, e anche di ottimi. Il problema, quindi, riguarda soprattutto il vino quotidiano, di grande diffusione. È possibile, o no, migliorare il vino-da-consumo-dimassa? È possibile far giungere il vero vino a chi non trova niente di meglio di un vino “industrializzato”, e forse ha finito per abituarsi e preferirlo al vino vero? È possibile rieducare questo consumatore? Sulla collina di Santa Magdalena, a Bolzano, funziona il Consorzio dei Viticoltori del St. Magdalener. Sull’etichetta di ogni bottiglia, c’è il nome del Consorzio, ma c’è, anche, il nome di ciascun “particolare” consorziato, poiché ciascuno vinifica per proprio conto. Ecco la soluzione del problema: cooperative, associazioni, consorzi, cantine sociali, magari anche aziende private e di tipo industriale, che aiutano la produzione ma non riguardano la produzione in sé: riguardano soltanto la distribuzione. È, esattamente, la stessa soluzione che l’Istituto Enologico Italiano propone, offrendo vini che scelgo nei miei viaggi. Perché il commercio dovrebbe essere capillare. Perché il prodotto, a poco a poco, dovrebbe arrivare a tutti. Perché il prezzo al pubblico dovrebbe un giorno, per i vini comuni, essere contenuto negli identici limiti del prezzo dei vini cosiddetti “industriali”. E come, per il latte, è impressa sul tappo una data di scadenza settimanale, così questo vino dovrebbe portare una data di scadenza stagionale. La produzione, invece, dovrebbe restare rigorosamente tradizionale, artigianale, individuale, frazionata, suddivisa in un grandissimo numero di piccole quantità. È possibile tutto questo, che pure, un tempo ormai lontano, era soltanto la normalità? Quante invenzioni erano in serbo nel futuro dei nostri nonni e dei nostri genitori! Se qualcuno avesse detto loro: tra cinquant’anni vi sarà concesso andare a New York in poche ore, assistere a una partita di calcio senza muovervi di casa, o vedere qualcuno che sbarca sulla luna, avrebbero riso! Forse il futuro, adesso, ci darà un’altra invenzione, non meno bella e non meno stupefacente: un ritorno magico a quelle realtà del passato, non molte, lo so, non molte, che però erano migliori delle corrispondenti realtà del presente.