Nelle Provincie Di
CATANIA, SIRACUSA, PALERMO

Parto per un viaggio alla ricerca di vini genuini. Osservazioni metodologiche preliminari, ovvero della necessità di guardare le nuvole. Dalla fillossera alla cattiva letteratura: un secolo di decadenza. Se le donne non “capiscono” il vino, la colpa è degli uomini.

“Nun ce stanno cchiù e’ vini: so’ rimaste sulo e’ nomme!”

Così sospira Don Vicienzo Triunfo, dal banco della sua antica bottiglieria, alla Riviera di Chiaia.

Sentenza davvero inappellabile?

Sospiro senza consolazione?

Per rispondere, ho intrapreso, quest’autunno, uno strenuo “viaggio d’assaggio” dalla Sicilia alla Val d’Aosta: dai vigneti presso Capo Passero, in vista dell’Isola delle Correnti, estremo Sud d’Italia, ai vigneti di Morgex, mille metri sul livello del mare, in vista del Monte Bianco.

Strenuo, ma non sistematico. L’Italia è il paese, del mondo intero, che produce maggiore quantità di vino. Tutte le nostre regioni concorrono; e ciascuna ha le sue uve, le sue specialità: un’infinita gamma di specie e sottospecie, di sapori, colori, aromi, fragranze. A un’inchiesta sistematica, avrei dovuto dedicare non una stagione, ma un lustro! Sicilia, Campania, Toscana, Veneto, Lombardia, Piemonte con la Val d’Aosta: in così breve tempo, non mi sarebbe stato concesso di esaurire neanche a metà la lista di tutti i vini delle sole sei regioni che ho visitato, se volevo, beninteso, restare fedele al programma che mi ero prefisso e cioè fare sul serio la conoscenza di ciascun vino. Perché, fare sul serio la conoscenza di un vino non significa affatto, come forse si crede, assaggiarne due o tre sorsi, o anche un bicchierotto. Significa innanzi tutto, sulla località precisa e ben delimitata dove si pigia il vino che vogliamo conoscere, procurarsi alcune fondamentali nozioni geologiche, geografiche, storiche, socio-economiche. Significa, poi, andare sul posto, e riuscire a farsi condurre esattamente in mezzo a quei vigneti da cui si ricava quel vino. Passeggiarvi, allora, in lungo e in largo. E studiare, intanto, la fisionomia del paesaggio intorno, e la direzione e la qualità del vento; spiare sulla collina l’ora e il progredire dell’ombra; capire la forma delle nuvole e l’architettura delle case coloniche; ancora di più, significa conversare con la persona che presiede alla vinificazione, proprietario enologo fattore... Significa passeggiare a lungo anche nelle cantine, sottoterra, o nei capannoni, fra le vasche di cemento: scrutare le connessure delle botti, fiutare l’odore del vino che ancora fermenta, individuare la presenza, talvolta dissimulata, di apparecchi refrigeranti o, peggio, pastorizzanti: infine, assaggiando, in paziente, lenta alternativa, e con frequenti intervalli, paragonare l’uno all’altro i sapori delle annate.

Così, deciso a fare sul serio questa conoscenza, per il momento mi sono dovuto limitare a “qualche vino”. Come ho proceduto alla scelta? Ebbene, ho scandagliato qua e là, seguendo suggerimenti di pagine scritte, di persone vive, o soltanto suggestioni, immagini, suoni di sillabe. Ma, sempre, e qualunque fosse l’avvio, qualunque l’origine della scelta, ho scandagliato (diciamo, per prudenza, che ho cercato di scandagliare) in profondità.

“So’ rimaste sulo e’ nomme.” È vero in Italia come in Francia. La Francia, anzi, ci ha preceduto e superato nel triste cammino. E, poiché senza questa “permanenza dei nomi” la decadenza dei vini non sarebbe stata possibile; poiché senza la conservazione della “lettera” non sarebbe stato possibile l’annullamento dello “spirito”: forse un giorno si dirà che la decadenza del vino, incominciata verso la fine del secolo XIX con la fillossera fu completa verso la fine del XX con la letteratura. Con la cattiva letteratura, naturalmente: nella buona, il gioco delle parole non è mai asservito a una menzogna.

Della cattiva letteratura enologica e, quindi, del vino falso o cattivo, daremo ora colpa anche alle nostre madri e alle nostre mogli? Certamente: ma specificando molto chiaramente che la colpa della loro colpa è, invece, tutta nostra. Lungo i secoli, fino a ieri l’altro, siamo stati noi uomini, per principio, a escludere la donna da grande parte della cultura: da tutte quelle mansioni e quei compiti che richiedevano studi un po’ lunghi e difficili. Comprensibile, e perdonabile, che oggi, meno famigliare di noi col vino e con la poesia, meno esperta di enologia e di letteratura, la donna sia l’ultima ad avvertire le riposte acredini di un vino trattato con eccessivo metabisolfito, la prima a cedere al volgare incanto di un’etichetta, alla bassa letteratura di un nome.