Nelle provincie di BELLUNO, VICENZA, TREVISO, VENEZIA Viaggi di piacere senza il piacere di viaggiare. Vado a Feltre alla ricerca di un Clinto. Un vino disprezzato dagli enologi. Il consiglio di una dama della Serenissima e la mia perplessità. Sono arrivato all’età di sessantaquattro anni senza mai avere fatto ciò che comunemente si chiama un viaggio di piacere. Prima di tutto perché non ne ho mai avuto il tempo. Non mi sono mai preso una vacanza. In compenso, ho sempre cercato, quando potevo e finché potevo, di lavorare divertendomi, distraendomi, confondendo piacere e fatica. Le rare volte che, sentendomi stanco, desiderai un po’ di riposo, non pensai neanche per un istante alla possibilità di viaggiare, ma piuttosto a quella di non muovermi. Vivere in un angolo perduto di campagna o di collina, sulla riva di un lago o del mare: la mattina leggere qualche buon libro; il pomeriggio giocare a bocce, e la sera giocare a scopone: ecco, anche se non mi è stata mai concessa, la mia vacanza ideale: non ho chiesto e ancora non chiedo niente di più né di diverso. Viaggiare per conoscere il mondo; viaggiare per svago o, come si diceva una volta, per diporto; viaggiare per istruzione: nulla mi pare altrettanto inutile e noioso. E il Tedio e la Stanchezza di tutta la vita assumono, nel mio ricordo, il volto e il passo di una carovana di turisti che, nel sole estivo, attraversano il prato del Duomo di Pisa al seguito di una cicalante guida patentata. Bisogna, quando si viaggia (quando si viaggia? quando si vive!), avere sempre uno scopo ben preciso e limitato. Altrimenti, anche i più meravigliosi spettacoli della natura, anche le supreme bellezze dell’arte, insomma tutto ciò che capita sotto il nostro sguardo rischia di sembrare opaco: poiché rifletterà soltanto la povera luce del nostro disinteresse, e scorrerà, così, sulla nostra memoria senza lasciarvi traccia. Non ero mai stato a Feltre. Vi arrivai una mattina dello scorso settembre. Avevo appuntamento col signor sindaco per le undici, in municipio. Ma non avevo calcolato con sufficiente pessimismo le difficoltà del traffico. Ero in ritardo di quasi un’ora. Percorremmo a tutta la velocità consentita i viali della città moderna, che giace in una pianura triangolare, conca tra i monti; entrammo dalla stretta Porta Imperiale; risalimmo per via Mezzaterra la Collina detta della Capra, su cui si arrocca, cinta da mura, la città cinquecentesca; passammo davanti alla casa Tauro, alla casa Franceschini, ai palazzi Bellati, Guarnieri, Muffoni; giungemmo alla Piazza Maggiore e alla Piazzetta delle Biade, dove il municipio... Antichi bugnati, solenni architravi, sagome e aggetti corposamente rilevati, tutto un insieme classico, rustico, robusto e ricco: un’impressione forte e compatta, di cui, sul momento (per la fretta, per la preoccupazione della brutta figura che, ritardando, avrei fatto col signor sindaco, o anche per il timore di non trovare più nessuno in municipio, e di perdere, così, l’occasione di capire qualcosa che non avevo mai capito fino allora), non prendevo nemmeno coscienza, ma che intanto si depositava in me: che mi rimaneva. Che cosa volevo capire? Ero tutto teso alla ricerca di un buon Clinto: vino, come già ho detto, così umile che non si trova in commercio ma si vende e si compra solo con trattative dirette e private tra produttori e consumatori; vino, in ogni caso, così a buon mercato, che non vale certo la pena di sofisticarlo, ed è, perciò, l’unico vino ; vino, che gli enologi disprezzano per la ruvidezza, per l’eccesso di tannino e di colore e per la bassa gradazione alcoolica: vino, però, che i veri veneti, vecchi e giovani, tutti gli agricoltori tra Verona, Vicenza, Padova, Rovigo, Treviso e Belluno, amano più di ogni altro come vino da pasto: e abbiamo visto che se lo fanno mandare perfino in Belgio quando emigrano a lavorare nelle miniere! sicuramente e sempre genuino Per un caso fortunato, o per una divinazione quasi magica del mio pensiero, Teresa Foscari, a Venezia, mi aveva, spontaneamente, parlato del Clinto. E mi aveva indirizzato ad una sua cara amica, Annapaola Zugni Tauro, di un’antica famiglia di Feltre. Quante volte uno si fa delle idee sbagliate senza curarsi di controllarle con l’esperienza. Avevo bevuto, fino allora, sempre Clinto di pianura: e avevo preso per assioma incontrovertibile che il Clinto si coltivasse e si pigiasse soltanto, o soprattutto, in pianura. Temevo, perciò, ascoltando, al proposito, i suggerimenti di Teresa Foscari e Annapaola Zugni Tauro (alla quale mi ero affrettato a telefonare) di essermi comportato un po’ leggermente, cedendo alle lusinghe tradizionali e classiche delle dame della Serenissima. Ma, ecco, le prime frasi che scambio col sindaco di Feltre mi dimostrano il contrario. Si dà il caso che il sindaco, Sisto Belli, sia dottore in agraria, esperto di viticoltura, appassionato di enologia. Gli abitanti di Feltre, mi dice, e così quelli delle colline e delle montagne intorno, pensano ancora che il Clinto, sebbene in decadenza, sia il loro vero vino: il più importante e il più vitale, per loro, tra tutti i vini che si coltivano e si pigiano sul posto. Scopro la differenza tra Clinto e Clintòn. Il sindaco di Feltre armoniosamente fuso con il paesaggio. Ci aspettano ad Altìn per una colazione al Clinto. L’emozionante bellezza delle alture di Feltre. Altra idea sbagliata, che mi ero fatto: credevo che Clinto e Clintòn fossero sinonimi. Sono, invece, due vini diversi e ben distinti. Come dice il nome, derivano ambedue da vitigni americani. Di Clinton, negli , tra la fine del ’700 e il principio dell’800, ce ne furono tre, tutti famosi: due generali e un grande uomo politico. E di città americane chiamate Clinton, ce ne sono almeno sei. USA Ma il Clinto, nel Veneto, è un’uva che dà un vino di classe e di gusto nettamente superiori al Clintòn: più magro, più forte, più “di soddisfazione”. Anzi: per evitare equivoci, qui si sposta l’accento: si dice Clinto e Clintòn. Il Clintòn assomiglia al vino di altre uve dello stesso tipo, ma più volgari: la Baccò, la Fragola, o Isabella, detta anche Americana: che è un vino più dolce, più spesso, più volgare e meno pregiato del Clinto, e che ricorda quello stesso vino che tra Piemonte e Lombardia chiamano “Mericanìn”. Mentre parlo col sindaco, stiamo affacciati al balcone del suo ufficio, al primo piano del municipio. Il vecchio palazzo è in vetta alla città antica e domina la città moderna e tutta la conca. La veduta, , mi sorprende, mi affascina, mi conquista. Il corso del Piave, da nord-est, in larghissima curva di là dalle colline, volta a sud-est proprio in corrispondenza di Feltre e apre, verso le due direzioni, due diverse prospettive alpestri. Un po’ come l’Adige a Merano: ma con più vivezza ancora. E su quello scenario, che si leva e distende intorno con una grandiosità straordinaria, la figura del sindaco risalta armoniosamente, nella luce meridiana ed estiva, come se, per qualche motivo misterioso e intimo, appartenesse essa stessa al paesaggio. Il signor Sisto Belli è molto alto, bruno, magro, adusto. La sua espressione è calma, severa, ma dolce e umanissima. Fotogenico, senza dubbio. I miei figli, che mi accompagnano in questa visita, dicono subito che assomiglia a Gregory Peck: ed è vero. appunto perché non sono salito quassù con lo scopo e neanche col pensiero di ammirarla Ora andiamo. Il signor sindaco ci affretta. Siamo attesi ad Altìn, a pochi chilometri da Feltre, in una casa colonica dove hanno preparato per noi “una colazione al Clinto”. Si risale la montagna immediatamente a nord di Feltre, dopo la frazione di Foèn, verso Vignùi. Una strada di terra e di ghiaia, a bruschi tornanti. Improvvisamente, dalla concavità umida di una valletta riuscendo alla convessità di un dosso solatio, tra vigneti e grandi gruppi di castagni, la vista sbalza e spazia su uno scenario che non potrò mai dimenticare. A sinistra, la collina piomba, con ripidissimi ma coltivati pendii, verso minori rilievi e verso la conca di Feltre, che, forse per la differenza di quota, sembra più lontana di quanto sia. Nello sfondo, la mole scura del Monte Tomatico e le minori alture che dividono e nascondono il corso del Piave. Davanti, e diritto allo sguardo di chi percorre la stradina di terra, un greppo pronunciato e solenne, in cima a cui, fiancheggiata da un folto di alberi antichi, altissimi e cupi, è una chiesa poligonale, quasi un tempio, di stile tra rinascimentale e barocco: la luce del sole ne sfaccetta le pareti, ne fa spiccare, anche a distanza, i geometrici volumi. E questo effetto di luci e di ombre, di volumi e di prospettive, pare, per incanto, propagarsi tutto intorno, nei regolari filari delle vigne, nei boschi di castagni o di abeti che si alternano alle vigne ritmicamente, e fino ai primi piani, fino alle terrazze del gran declivio che, sulla destra, come una quinta costruita a sovrapposti scomparti, chiude la veduta toccando il cielo. Alle mezzadrie ex-Guarnieri ci riceve Giovanni D’Incà. Tra le “grave” e le “volpére”. “Dopo sentosinquanta ani che semo qua, qualche cosa se gà imparado, no?” Quattro generazioni per fare un vino buono. Arriviamo a un ripiano, una valletta o piuttosto una sella, un colle che separa il promontorio del Tempio dai sovrastanti declivi. È la nostra meta: sono le mezzadrie ex-Guarnieri. Recentemente questi terreni, circa ottanta ettari, sono stati comprati dal signor Anselmo Cecchin, nativo di Santa Giustina (tra Feltre e Belluno), e reduce dal Venezuela, dove ha fatto fortuna. Il mezzadro, Giovanni D’Incà, è ancora lì: ma si aspetta di essere mandato via, e, ad ogni modo, non conosce il proprio destino: il signor Cecchin, per il momento, non gliene ha fatto parola. Le “mezzadrie” sono maestose case coloniche, alte anche tre piani, bianche di calce, che fiancheggiano, per tutta la lunghezza, da un lato e dall’altro, la parte più bassa e centrale del colle: e cioè l’immenso rettangolo riservato all’aia. L’architettura di queste case è semplicissima e disadorna, ma perfettamente geometrica nelle proporzioni delle finestre e dei muri, e con un risultato di grandiosità e di bellezza classica, che mozza il fiato. Poiché, al paragone, gli stessi palazzi di Feltre, così stipati come sono gli uni contro gli altri, sembrano ostentare ciascuno la propria ricchezza, e forse alludere al talento individuale degli architetti: ma queste case, apparentemente squallide e povere, testimoniano ancora meglio la grandezza di una civiltà perduta e per noi, ormai, misteriosa. Il D’Incà ci accompagna, in mezzo ai vigneti, a destra, su per uno di quei declivi erti e montani. Sono “le grave di Altìn” dice D’Incà. Grave, cioè ghiaie. Il terreno, infatti, è ghiaioso e argilloso. Arriviamo, così, alla cresta di un dosso che, precipitando, a nord, in un profondo avvallamento, guarda verso le Prealpi del Trentino. Il torrente che scorre laggiù si chiama Remuglia. Tutto il versante opposto ha un’aria stranamente selvaggia, quasi sinistra. E le case bianchissime, alte e strette, che vediamo sparse là, un po’ come torri, a diverse quote, si chiamano le “volpére”. Anche quelle “colonie”, dice D’Incà intendendo “case coloniche”, erano, un tempo, di proprietà Guarnieri. Oggi, naturalmente, sono abbandonate, come pure le loro vigne, troppo lontane, troppo ripide, troppo faticose a lavorare. Ancora molto se si bada a queste vigne qui. Le costeggiamo, vi passiamo in mezzo. Il D’Incà mi addita, di volta in volta, tutte le qualità: la Clinto e la Clintòn, la Baccò e la semplice Fragola. Per ogni uva, mi dice come maturi, e quando sia il momento di vendemmiarla: e il gusto e la qualità del vino, secondo le annate. Il suo discorso è minuto, preciso, raffinato, complicato. “Lei sa tutto!” gli dico. E lui: “Ormai, dopo sentosinquanta ani che semo qua, qualche cosa se gà imparado, no?” Il D’Incà è ancora giovane. Fa tristezza che una secolare esperienza come la sua corra il rischio di non essere più sfruttata. Non dico nulla; ma in cuor mio mi auguro che il nuovo proprietario sia una persona intelligente. Perché non v’è barba di enologo, non v’è scienza che possa sostituire, sul posto, ciò che un viticoltore ha imparato, circa le viti e il vino del posto, dal padre e dal nonno. Diceva Ansaldo che “per fare un signore, ci vogliono quattro generazioni”; credo che, oggi, sia più vera ancora, e, in ogni caso, più utile agli altri quest’altra verità: “ci vogliono quattro generazioni per fare un vino buono”. Non darei la colazione al Clinto per un pranzo da Chez Maxim. Un vino che si pronuncia all’etrusca. Il sapore “volpino” del Clinto, bevanda del cacciatore. Quel che diceva Bassani. Il Veneto, o il lunghissimo autunno del Rinascimento. Quando torniamo alle mezzadrie, troviamo già tutti a tavola, in una stanza terrena, vasta e disadorna. La tavola, rettangolare e lunga come quella di un convento, è al centro, senza tovaglia. Salami, soppresse, formaggi di varia età, polenta, e boccali e bottiglie, Clinto e Clintòn di tutte le specie e di uno, due, tre anni. Annapaola Zugni Tauro, il sindaco Belli, il giovane “castaldo” Adriano Cagnàn, il signor Franco Zampiero di Feltre, l’amico Bòccoli e i miei figli stanno già facendo colazione. Non v’è cibo che per il Clinto vada meglio di quei formaggi e di quegli insaccati: e non c’è vino che vada meglio per quei cibi. Beviamo e mangiamo, proprio come dice il Porta, “in santa libertà”. E non darei, per questa indimenticabile colazione che mi fu offerta da Altìn, le più elaborate cene del mondo, da Poing a Vienne, da Chez Maxim, o dove che sia. Ma la vetta di questa vetta era il Clinto: molto diverso da tutti i Clinto o Clintòn di pianura che avevo provato: più serio, più maschio, più duro: gradevolmente amarognolo, sufficientemente alcoolico, e tuttavia passante. È un consiglio che, per sempre, do a tutti gli amici: quando vi apprestate a uno spuntino rustico, di formaggi e di salami, non andate, come vino, a cercare tanto in là: non troverete mai nulla che eguagli il Clinto. Adesso, inter pocula, parla il signor sindaco: “Qui, nel Feltrino, il Clinto, lo fanno tutti: a tutte le altitudini, fino ai quattrocentocinquanta metri. Né la vigna né il vino hanno bisogno di speciali trattamenti. Una volta, qui, si coltivavano anche vitigni europei. Poi, con la fillossera e la peronospora, per comodità tutti hanno messo il Clinto. Non si deve credere, però, che il Clinto sia stato importato dall’America soltanto allora, cioè soltanto alla fine del secolo scorso o nei primi lustri del Novecento. Esiste un decreto di Maria Teresa, e perciò della seconda metà del Settecento, che favorisce, alleggerendole da tasse, le piantagioni di Clinto...” Sorpreso, domando perché. “... Ma perché, a parità di area coltivata, e a parità di lavoro, dà una produzione molto maggiore.” “Forse, allora, non si chiamava Clinto” azzardo. “Questo non glielo so dire. Bisognerebbe indagare. Ad ogni modo, noi, nel nostro dialetto, lo chiamiamo ‘Grinto’. È la nostra bevanda nazionale. Si figuri che c’è qualcuno che fa perfino il Clinto passito, il Clinto da dessert. La vedova Granzotto Basso, per esempio. Lasciano le uve sui graticci, e pigiano a dicembre. Lo chiamano, non so poi perché, York. E c’è anche chi fa lo Schenal: è un Clinto , o Chiaretto, svinato subito! L’altro giorno, dovevo recarmi in una frazione qua vicino: non sapevo esattamente come arrivarci, e mi sono perso. Chiedo a una casa. ‘La sbaglia strada’ mi dice l’uomo: ‘Ma ormai che l’è qua, el se beva un gioff de Crinto!’” rosé Pignoleggio: “ o ? E come ha detto? Gioff?” Grinto Crinto Interviene Zampiero: “È la nostra pronuncia, tutta particolare alla gente di Feltre. Noi siamo di origine etrusca. Per questo, abbiamo l’aspirata. Nel vero dialetto, non si dice Feltre, ma Heltre. è la pronuncia nostra di un goccio. E non è né Grinto né Crinto, ma una via di mezzo, e con un po’ di aspirazione dentro la gutturale. Quansi ” Gioff giozz, hrinto. “E come si distingue il Clinto dal Clintòn?” “Al gusto,” dice il sindaco. “Lo sente da sé: il Clintòn ha un gusto speciale, rozzo, che noi chiamiamo , e che gli enologi, per convenzione, chiamano : volpino, cioè selvatico, allappante, sgradevole. Dal punto di vista ampelografico, lo avrà constatato poco fa, sulle vigne stesse: i grappoli del Clinto sono regolari, e con acini piccoli. Quelli del Clintòn, irregolari, e con acini grossi.” volpino foxy “Il Clinto” dice Zampiero “è ideale soprattutto con le castagne. Fagioli di Lamon, noci di Feltre, castagne e Clinto...” “Ed ha un’altra particolarità” riprende il sindaco senza lasciarlo finire “che va bene anche come semplice bibita, per togliere la sete: si può bere benissimo, che non perde il gusto, mescolato con l’acqua... il Clinto tiene l’acqua, noi diciamo... E qualcuno, perfino, lo beve con acqua e limone.” Bòccoli, qui, aggiunge uno slogan all’improvvisato trattatello: “Il Clinto è un vino che si accompagna al cacciatore, e non alla cacciagione.” “Bravo Bòccoli” dico. La sua frase, infatti, definisce perfettamente le qualità e i difetti di questo vino umile e tuttavia unico e, in certi casi, insostituibile. Non si può bere un vino così impetuoso, rozzo e giovanile sugli arrosti. Ma il cacciatore che cammina, fatica e suda, e si arresta per una breve refezione e per dissetarsi, che cosa berrà, sul , se non, appunto, il Clinto? “Ad ogni modo” concludo ad alta voce, levando ancora un bicchiere, “per me, il Clinto, questo Clinto, è, a sua volta, e prima di tutto, un’altra prova, di come Feltre abbia saputo conservare i doni, le invenzioni, le trovate della sua civiltà...” cacciatorino Annapaola non mi lascia finire: “Sa cosa diceva Bassani, il suo amico Giorgio Bassani, quando è stato qui? Mangiava e beveva, beveva e mangiava, e ripeteva continuamente: ‘Che civiltà! Che civiltà!’ Abbiamo tanto riso! Per noi, queste, sono cose naturali e comuni, comunissime!” “Ma appunto. Per voi è ancora naturale e comune ciò che per noi è perduto, fantastico, irraggiungibile. Quanto a Bassani...” Bassani dovrebbe vivere e andare in giro con un registratore nella tasca dei pantaloni, e con un microfono elettronico nel taschino della giacca. Appena si accorge di cominciare a parlare sul serio, dovrebbe premere l’apposito bottoncino. Così, alla fine di ogni stagione, avrebbe un libro belle pronto da dare alle stampe. Scrittore di primissimo ordine ma, come scrittore, tanto parco e cauto quanto, come parlatore, è generoso e pronto. “Ho riflettuto a lungo” mi disse una volta al telefono, e purtroppo non avevo un registratore da inserire, “ho riflettuto a lungo sul mistero della bellezza del Veneto. Mi sono chiesto: come mai, appena si arriva dalla Lombardia e si esce dall’autostrada a Vicenza, si ha l’impressione precisa di entrare in un altro mondo? Una dopo l’altra, ville decorate di statue, circondate da parchi, inquadrate in prospettive di prati, di siepi, di alberi, campagne e perfino montagne che sembrano disegnate da grandi pittori. Tutto un mondo meraviglioso. Come mai? Le cause vanno ricercate nella storia. I territori della Repubblica di Venezia non hanno conosciuto la dominazione spagnola, hanno sentito meno di tutto il resto d’Italia il peso formidabile della Controriforma. Con altre parole: nel Veneto, il Rinascimento è durato fino a Campoformio. Tre secoli di più che nel resto d’Italia. È stato come un tramonto lunghissimo e dolcissimo. E Rinascimento ha voluto dire ‘rispetto dell’individuo’, libertà, l’espandersi e il fiorire di tutte le arti, senza il controllo delle autorità religiose e politiche.” Dobbiamo spiegare così anche la bontà del Clinto? Dobbiamo attribuire questa bontà ad un’arte raffinatissima nella sua umiltà, un’arte che in queste terre chiuse tra i monti e remote non solo dall’Italia ma dal rimanente dello stesso Veneto si è conservata più a lungo, così come la bellezza del paesaggio? Qualcuno afferma che la qualità di un vino è dovuta al terreno molto più che al vitigno. Bisognerebbe ampliare il significato della parola “terreno”, includendovi i metodi tradizionali e locali con cui si coltivano le vigne e si pigia il vino. Le ruspe del signor Cecchin mettono fine al convito. Un cattivo affare della Contessa Bellati. Quello che avrei voluto dire ad Anselmo Cecchin. Verso la fine del convito rustico e geniale, siamo distratti da un improvviso rombo di motori e di seghe elettriche. La costernazione appare sui volti degli amici feltrini. Deve essere il nuovo proprietario, dicono: riprende, dopo la pausa di mezzogiorno, il lavoro sulla collina. Eh sì, il signor Cecchin si è messo in testa di abbattere i boschi dei castagni, e di sostituirli con una piantagione di abeti, che non sono alberi adatti a questo terreno, a quest’altitudine. Una follia. Perché? Ma perché, per il signor Cecchin, la vicinanza del castagno rovina “il pezz”, cioè l’abete. E il legno d’abete, a venderlo, è molto più pregiato di quello del castagno. “Tempo fa” dice Franco Zampiero “la Contessa Bellati, per fare quattrini, distrusse, col beneplacito della Forestale, grandi boschi, non lontano di qui. Dieci giorni dopo, con le piogge, il terreno è smottato a valle. È stata costretta a terrazzare: opere di muratura che le sono costate molto di più di quanto ha ricavato dalla vendita del legname. Succederà un’altra volta.” Esco a vedere. Voglio vedere che faccia ha questo Cecchin. In alto, cominciando dalla cima della collina, ecco le ruspe in funzione. Scendono lentamente contro i castagni, che per qualche minuto, quasi dolorosamente, sembrano resistere, poi, d’un tratto, piombano al suolo con straziante fragore di frasche e di rami spezzati. Il signor Cecchin è lassù, mi dicono. Salgo rapidamente. Gli altri vengono con me. Solo il sindaco segue a distanza. Data la sua carica, e non approvando il Cecchin, evidentemente evita di incontrarlo. Anselmo Cecchin è un tipo diverso, anzi opposto al sindaco: ma altrettanto deciso: in fondo, forse, è della stessa pasta, sembra, anche lui, un attore americano, tra John Wayne e Lee Marvin. Alto, grosso, massiccio, cordialissimo, aggressivo, bruciato dal sole dei tropici, con una camicia alla Far West, nudi i muscolosi bicipiti, e mani enormi, da autentico taglialegna. È impresario edile, mi dicono, o qualche cosa del genere. La differenza con il sindaco sta, soprattutto, nei tratti e nell’espressione del volto. Severo il sindaco, naso forte e diritto, da uomo d’ordine e di giustizia. Astuto il Cecchin, naso altrettanto forte ma aquilino, da uomo d’avventura e di rapacità. E come prima il sindaco sullo sfondo della conca di Feltre: così qui, sullo sfondo delle vigne e dell’alta boscaglia che le macchine stanno abbattendo spietatamente, e nella luce del sole che colora di rame il suo viso, Anselmo Cecchin campeggia, giganteggia, figura cinquecentesca di condottiero o masnadiero. Vorrei esprimergli la mia simpatia, e, intanto, dirgli che fa male a tagliare i castagni. Vorrei dirgli che farebbe bene, piuttosto, a occuparsi del Clinto che sta decadendo e sparendo: che dovrebbe valorizzarlo, rilanciarlo: che ne ricaverebbe certamente, e tra breve, un utile maggiore che non dagli abeti. Ma mi trovo sulla sua terra. Ma l’ho appena conosciuto. “Sa, i suoi calcoli sono sbagliati” dovrei dirgli: e chi avrebbe il coraggio, a un tipo così? Lunga e prudente opera di persuasione, ci vorrebbe. Avremmo, almeno, dovuto invitarlo alla nostra mensa, giù alla mezzadria. Se è davvero l’uomo intelligente ed efficiente che sembra, non avrebbe potuto non capire e non comportarsi in conseguenza. Scrivo queste righe nella speranza che lui le legga. Torno adesso a Montegalda, tra Padova e Vicenza ma in provincia di Vicenza, dopo lunghi trent’anni. Montegalda è la villa e la vecchia tenuta di casa Fogazzaro. Ci ero stato nella primavera del 1941, dopo avere girato , ospite affettuosamente e trionfalmente accolto da Gino e Antonio Roi, figli di una figlia di Antonio Fogazzaro. Mina e Boso, i figli di Gino, erano allora poco più che fanciulli: rigidamente educati e controllati secondo lo stile della famiglia, molto se furono ammessi al ricevimento: mi fissavano tradendo dagli occhi spalancati una sconfinata ammirazione che certo non m’illudevo di meritare e tuttavia mi riusciva come il più dolce dei premi. Era con loro, e mi fissava con lo stesso sguardo, una giovinetta che anni prima ancora, quando a mia volta ero adolescente, avevo conosciuto a Torino, bambina piccola, sorella di un mio compagno di scuola, Napoleone Mondani, detto Bebe forse per correggere in qualche modo l’importanza di quel primo nome. Amica più anziana di Mina Roi, Andrée Mondani era esile, pallida, lunghe trecce corvine, e mi fissava anche lei con quello stesso sguardo ammirativo: una figura preraffaellita e stranamente “in ritardo” già allora, ma proprio per questo perfettamente d’accordo con la cornice fin de siècle dell’arredamento di Montegalda. Piccolo Mondo Antico Eccomi dunque, dopo trent’anni, a Montegalda: nome per me magico, e che nella memoria mi era sempre risuonato con lo stesso, preciso accento veneto con cui lo avevo udito pronunciare le prime volte, da Gino e da Antonio Roi: con quella leziosa eppure aggressiva elle quasi mouillée che precede una dentale quasi palatale. Perfino il paesaggio, al suo primo apparire, non fu che una traduzione visiva di quel particolarissimo suono, così ricco, dolce e caldo. Rieccomi dunque a Montegalda: tra le basse colline, tondeggianti forme sensuali, tra i mammelloni velati e sfumati nella bruma d’oro del sole mattutino. Ed è una quiete sontuosa e lievissimamente angosciosa, la medesima di allora. Ma oggi avverto qualche cosa d’altro: come se il tempo passato mi assalga di soppiatto, a tradimento, insinuando col peso della sua realtà un sospetto di dolorosa irrealtà nel tempo presente. Forse ciò che ricordo è più vero di ciò che vivo? Vedo con gioia, poco prima dell’ingresso, sulla stradina, una grande e volgarissima freccia gialla con la scritta: “Cantine Marchese Roi”. La vedo con gioia perché so che è nuova, viva; so che allora non c’era. Il cancello è aperto. Entriamo adagio. Ombra e pace nel cortile chiuso all’interno del diedro a grande L maiuscola, che la villa forma col rustico: col rustico dove oggi, penso, si pigia il vino per venderlo Bòccoli, sebbene silenzioso, e sebbene giovane, mi sembra, con la sua antica sensiblerie di gentiluomo del retroterra veneto, capire e provare tutto ciò che provo e capisco io. anche al privato, piccolo consumatore. Esitando, saliamo la gradinata di pietra umida e muschiosa che conduce all’ingresso posteriore della villa. La facciata vera è di là, lo sappiamo: di là, vasta, orientata a mezzogiorno, alta sugli interminati, dolcissimi pendii del parco e delle vigne. Un domestico apre la porta vetrata. Il largo corridoio d’ingresso, la prima sala. Ci viene incontro Boso, fresco e lucente come sempre (lo avevo intanto rivisto varie volte, a poco a poco ragazzo, poi giovane, poi uomo, a Venezia, a Milano, a Roma) in rollcollar bigio e giacca di cachemire a rigoni sfumati tortora, lavagna, bordeaux. Alle tempie, “il grisonne”. Dopo un istante, Boso esce con Bòccoli a parcheggiare meglio la macchina. Resto solo. La grande sala è in una calda penombra geometricamente attraversata da zone di pulviscolo dorato, i trapezi di controluce che entrano dalle porte-finestre sul parco. L’arredamento è senza dubbio cambiato, da quello di trent’anni fa: ma qualche “pezzo”, certo, deve essere rimasto; e sono rimasti, quasi identici, il tono e l’atmosfera. Mi siedo. E subito mi rialzo, vedendo apparire laggiù nell’angolo, a un uscio interno, e avanzare, quasi scivolando sul parquet, un’altissima, silenziosa figura femminile. Continua a scivolare verso di me, sempre più alta: un’ombra sottile nella penombra della sala, un’ombra sfrangiata dal controluce quando attraversa, uno dopo l’altro, i trapezi d’oro. Esclama il mio nome. E io so di conoscerla, so, anzi, che appartiene, che deve appartenere a Montegalda, ma non so chi sia. Mi tende la mano: inchinandomi, sto per baciarla, allorché, sorridendo, dice: “Sono Andrée Mondani.” Inseparabile, per me, Montegalda, dalla pronuncia veneta dell’ultima sillaba del nome. Inseparabile, Andrée Mondani, dall’inebriante francesità nasale-palatale della prima sillaba del nome. Oh personaggio, e, più che personaggio, persona veramente fogazzariana! Mi crogiolo, insomma: o, più precisamente, “je me vautre” nella dolcezza dei ricordi. Sono entrato senza accorgermene in una meravigliosa e deliziosa campana di vetro della Belle Époque. Dirò, adesso, il menu della colazione offertaci da Boso: dirò l’ultima ricetta del sortilegio. Ma, mi si chiederà: l’ultima, perché? L’ultima, e, ovviamente, la meno importante, perché tutte le altre sono ineffabili, incomunicabili: appartengono a quello spirito profondo e puro che è la pietà del passato: la fedeltà a coloro che ci hanno dato la vita e che non sono più con noi. Aggiungerò che questa fedeltà, sì, è tanto più doverosa quanto più è “possibile” e che, in questo caso, è stata certamente possibile. Ma con quali sacrifici non sappiamo. E abbiamo, d’altronde, infiniti esempi, dovunque e sempre più, di tradimenti ignobili e inscusabili. “Bravo Boso” gli ho detto non senza una certa commozione. Il menu. Cominciamo, prima di andare in tavola, con olive ascolane farcite e fritte, e con un Sauvignon ghiacciato (Bianco del Ròccolo di Montegalda): vino gentilissimo, giallo dorato chiaro, leggermente profumato, vellutato sebbene asciutto. Il Sauvignon, se pigiato con pure uve Sauvignon e non mescolate a uve di altri vitigni, bisogna berlo giovane; perché poi, avverte il Cosmo, facilmente “marsaleggia”. Questo è del ’69, ed è perfetto: soprattutto sulle olive ascolane, di cui dirò più avanti, quando le assaggeremo nella loro patria. Anticipo che queste non sono assolutamente inferiori. E credo che il merito risalga a un vecchio amico marchigiano di casa Roi, che, in quegli anni lontani, avevo avuto la fortuna di conoscere: Filippo Marcatili di Ascoli Piceno. Fedeltà anche nell’amicizia. A tavola, abbiamo: vero brodo; uova su tartine alla valdostana; pâté di casa con squisiti spinaci alla francese e altre verdure cotte; rotelline di Asiago con sopra riccioli di Gorgonzola; infine, il clou: piccoli, “individual” soufflés di cioccolato con salsa di panna alla menta. I soufflés sono bollenti, naturalmente: e, perciò, serviti in apposite casseruoline munite di un lungo manico di legno. Ciascun commensale rompe colla forchetta o col cucchiaio la crosta fumante: e versa, dentro il mini-vulcano, un’abbondante dose di questa salsa verde e freddissima. I dolci non sono certo la mia passione. Tuttavia, in alcuni casi estremi come questo, paiono anche a me irresistibili. I lettori di Proust ricorderanno il piacere da gourmet misto al piacere da colorista che provava il Barone di Charlus a schiacciare fragole o lamponi, mescolandoli poi a lungo con la panna liquida. Ora, il rosso delle fragole, o l’altro rosso dei lamponi, stemperato e sciolto nel candore della panna risulta un rosa-dentifricio più o meno carico: colore e gusto sono, tuttavia, semplicissimi, infantili. Ben altrimenti esplosiva e sorprendente è la combinazione dei colori e delle materie nel soufflé di Boso, bruno-rossastro, lo sformato di cacao zucchero uova è affocato, bruciante, spugnoso, arido. Verde pallida, la panna alla menta è fredda, fragrante, alcoolica, scivolosa. Nell’effetto e nel gusto, il soufflé di Boso “va più in là”: da un Marie Laurencin si passa a un Fautrier! E i vini? Oltre al Sauvignon, proviamo un Montelungo rosso del ’68 (uvaggio di Cabernet 30%, Merlot 40%, Barbera 30%); un Terrematte del ’67, pura Barbera, diversa dalla Barbera d’Asti, meno di corpo, ma estremamente armonica; un Cabernet del ’67, erbaceo come deve essere, duretto, chiaro; e un delizioso “frizzantino” rosso per finire. Tutti questi vini, che Boso Roi produce con la collaborazione del ragionier Mariano Rossi, hanno un carattere, come si conviene a Montegalda, squisitamente patriarcale. Ogni accorgimento o trattamento moderno, più o meno industriale, è tassativamente escluso dalla lavorazione che avviene come avveniva duecento anni or sono. Per questo, i sapori sono semplici, primitivi, periclitanti, vorrei dire fragili. Si tratta di vini, per la loro schiettezza, eccezionali. La fedeltà al passato, nella produzione enologica di Montegalda, si spinge oltre ogni credibile limite. Sembra, gustando questi vini, di dover risalire molto più indietro che non a trent’anni fa, ma addirittura a quel monumento che si leva, alto e bianco sulla collina, al centro di un maestoso anfiteatro coltivato a vigne, in mezzo alla tenuta. Nello spessore del banco in pietra che fa da base al monumento, è inciso questo sognante esametro di Virgilio: mitis in apricis coquitur vindimnia saxis come dire: nelle petraie solatie la vendemmia soave matura. La stele è marmorea, neoclassica, e porta la seguente iscrizione: In memoria di Luigi Fogazzaro savio austero e pio che questi clivi aprichi e il podere congiunto governò cinquant’anni nato a dì più felici a maggior sorte Antonio nipote ed erede pose MCMVII Tant’è vero che ogni antichità autentica e degna di ammirazione discende sempre da un’altra antichità più antica ancora. L’opera monumentale di Italo Cosmo. Davanti a Cosmo, provo la stessa ammirazione che provai per Matteo Bartoli, Gaetano de Sanctis, Pietro Toesca. 1 ventilati altipiani dello Spirito. L’inesistente albero genealogico dei vitigni e la selezione clonare. Il vino 2,15. Italo Cosmo stregato dalla vite. IM Facciamo un passo indietro. Il giorno prima di Feltre, sono stato a Conegliano, a trovare l’illustre Italo Cosmo, direttore della Stazione Sperimentale di Viticoltura e di Enologia. Questa visita, da me lungo tempo desiderata, finalmente Bòccoli è riuscito a combinarla. Bisogna sapere: io ero sempre preso dalle mie faccende, e Cosmo, per suo conto, dalle sue: in particolare, se ne andava continuamente a Bruxelles, per il . Difficilissimo agganciarlo! Al punto che, nell’attesa, mi ero fatto un taccuino “a parte”, su cui avevo scritto “Domande a Italo Cosmo”. Quel giorno, a quell’ora, avrei avuto Italo Cosmo davanti a me; e non mi pareva vero. MEC Italo Cosmo davanti a me? Diciamo piuttosto che io sarei stato davanti a lui. Alcuni anni di ricerche, sia pure dilettantesche, dedicate al vino, mi avevano ormai aperto gli occhi: soprattutto, avevo imparato, a poco a poco, due verità complementari e inversamente proporzionali. La prima è l’immensità, la complessità, la difficoltà, l’intrico della scienza vitivinicola. La seconda è la miserevole e irrimediabile angustia delle mie personali nozioni in proposito. Per capire qualcosa, dovrei iscrivermi alla facoltà di Agraria e fino alla laurea non occuparmi d’altro. Sono giunto a questa conclusione alla fine di un pomeriggio, passato a sfogliare i cinque affascinanti volumoni, che costituiscono il monumentale corpus della nostra ampelografia (più che della nostra enologia): , pubblicazione presentata da Giovanni Dalmasso e Italo Cosmo, e finanziata dal nostro Ministero dell’Agricoltura. Quindici anni di lavoro, e più di sei anni per la stampa. I primi quattro volumi comprendono ben duecentoventun monografie, dovute ai migliori specialisti italiani, e dedicate alla descrizione minuta, profonda, esauriente di altrettanti vitigni che sono poi raccomandati, provincia per provincia, ai viticoltori. Il quinto volume, tutto cura personale di Cosmo, consiste di indici: e gli indici, in questa materia, sono di un’importanza che può stupire solo chi, della materia, sia digiuno. Basti sapere che i vitigni, non solo regione per regione, ma paese per paese, e addirittura località per località, sono conosciuti tradizionalmente con nomi diversissimi, in un imbroglio, in una confusione, in un caos e in un’incertezza da scoraggiare il più ostinato degli studiosi. Basti sapere che lo stesso vitigno, magari a distanza di pochi chilometri, può cambiare nome. E che, per converso, lo stesso nome può venire applicato, in luoghi tra di loro vicini o lontani, a vitigni tra di loro diversissimi. E che, infine, per coronare questa ridda linguistica, sono purtroppo frequentissimi i casi dei cosiddetti “falsi sinonimi”: vitigni, cioè, che non soltanto prendono un nome diverso dal nome più comune che gli viene attribuito, e diverso da tutti i suoi sinonimi, ma prendono, per un involontario errore della ampelonomastica popolare, lo stesso, identico nome di un altro vitigno, che non ha assolutamente niente a che fare con il vitigno di cui si tratta. Per esempio, in provincia di Novara e di Vercelli capita spesso che la Croatina, in buonissima fede, venga chiamata Nebbiolo! Ora, passando dai vitigni ai vini, e gustando, di ciascuno dei due, un esemplare ottimo, dovremmo dire che tra il Nebbiolo e la Creatina c’è la stessa differenza che tra un Tiziano e un Carlo Dolci. Il vitigno Nebbiolo ha circa cento sinonimi, tra veri e falsi. Un’ottantina, ne ha la Neretta Cuneese. Centocinquanta, addirittura, sono i sinonimi dei vari Trebbiani tutti insieme. E l’Arnèis e l’Avanà hanno, ciascuno, una ventina di sinonimi falsi... Si pensi, dunque, con quale trepidazione cominciai a sfogliare il mio taccuino, rivolgendo la parola al professor Italo Cosmo! Lo avevo intravisto, è vero, mesi prima, nello stesso istituto di Conegliano, durante un convegno enologico. Ma non ero potuto andare oltre un’impressione superficiale. Di media statura e di media età, magro, simpatico, occhi infossati, serio ma senza pedanteria. Ora, dopo qualche minuto che rispondeva alle mie domande, mi accorgevo di colpo di provare per lui quello stesso rispetto e quella stessa ammirazione che, da ragazzo, studente universitario, avevo provato per gli eccelsi tra i miei maestri: Matteo Bartoli, Gaetano de Sanctis, Pietro Toesca: filologi che nello strenuo studio, nella amorosa ricerca e nella sofferta scoperta del vero avevano generosamente speso la vita. Sebbene il discorso che ascoltavo adesso non fosse più su Giotto e Jacopo Torriti, su Tito Livio e Polibio, sullo Gillieron e il Meyer-Lübke, ma sull’epibionte e l’ipobionte, sugli ecotipi e i cloni, sul Daniel e sul Dalmasso, mi accorgevo di respirare nuovamente l’aria di “quei ventilati altipiani” in cui Giacomo Debenedetti diceva di sentirsi trasportato ascoltando le lezioni dei maestri che ho detto. Come in loro, così in Cosmo, intuivo qualcosa di grande e di geniale: lo intuivo dallo sguardo e più ancora dalla perfetta chiarezza del discorso: di modo che, anche quando l’argomento diventava difficile e difficilissimo, mi pareva, lì per lì, di capire ogni cosa benissimo e fino in fondo. Ma intuivo, inoltre, qualcosa di appassionato e di puro: quasi la luce di un incanto infantile: forse il segno di una fedeltà serbata, traverso tutta la vita, a un sogno lontano dell’adolescenza, quella senza cui un uomo non diventa mai un vero poeta o un vero scienziato. Principali vitigni da vino coltivati in Italia fedeltà Ero ansioso di porre a Cosmo un quesito. Avevo notato somiglianze tra i gusti di vini pigiati in località molto diverse e lontane: per esempio tra l’Aglianico (Avellino) e il Barbaresco (Alba). Mi avevano detto che, tra i due vitigni, non c’era nessun rapporto. Possibile, chiedevo? Possibile che somiglianze organolettiche (di colore, di profumo, di gusto) nel vino non corrispondano a somiglianze ampelografiche (della foglia, dei grappoli, degli acini, ecc.) nella vite? E non esiste nessuna pubblicazione, italiana o straniera, che contenga un albero genealogico dei vitigni, una classificazione che li raggruppi e li suddivida sistematicamente? “Purtroppo, ciò che lei immagina e, a quanto ho capito, desidererebbe, non esiste. Abbiamo la Ampelideae; il Vitis; le Berlandieri, Rupestris, Riparia, ecc. che sono tutti vitigni americani, come per esempio il Clinto e l’Isabella; abbiamo infine le Vitis vinifera con queste due : Silvestris e Sativa. La Silvestris è una vite spontanea, selvaggia, lo dice lo stesso nome. La Sativa comprende tre : la Orientalis, la Pontica e la Occidentalis, che è poi la nostra. Ma tra questo ecotipo, della Occidentalis, e la varietà individuale, per esempio il Nebbiolo, non esistono classificazioni intermedie...” famiglia genere specie specie sottospecie ecotipi “Un gap enorme!” osservo: “e sono proprio queste classificazioni, questi raggruppamenti che io cercavo!” “Tutti gli ampelografi, da mezzo secolo, cercano proprio quello che dice lei: ma non vi sono ancora riusciti. Pensi che, nel mondo, esistono da cinque a seimila vitigni, tutti diversi l’uno dall’altro. Figuriamoci se non farebbe comodo classificarli. Ma no, pare che sia impossibile. Le varietà dei vitigni, e soprattutto le varietà più antiche, sono costituite da popolazioni di individui, ciascuno dei quali presenta diversificazioni minime avvenute in natura. Sì, ogni vinacciolo... il vinacciolo è uno dei semi contenuti nell’acino... ogni vinacciolo, dunque, è un individuo nuovo. Nella generazione sessuata della vite, i caratteri ereditari sono così complicati e così, tra di loro, eterogenei, che ciascun vinacciolo risulta, sempre, diversissimo da ciascun altro...” “Come nell’individuo umano?” “Esattamente. Si tratta, anche per la vite, di cromosomi. Non esistono due individui umani eguali l’uno all’altro. E non esistono, eguali l’imo all’altro, due vinaccioli.” “Ecco,” dico, “una spiegazione dell’estrema difficoltà che c’è, non solo a studiare la vite, ma anche a fare il vino buono.” Italo Cosmo sorride: “Tutta la scienza è difficile, incerta, approssimativa. Tutto lo studio delle forme dell’esistenza. E, vede? in questo genere di ricerche, sono favoriti gli istituti delle Repubbliche socialiste. Da noi, i tecnici, gli studiosi scarseggiano. Da loro, invece, abbondano: ne hanno a migliaia e migliaia. Ora, considerata l’enorme diversificazione dei vinaccioli, gli esperimenti, perché siano proficui, perché si abbia una certa probabilità di trovare ciò che si cerca, gli esperimenti vanno compiuti su un grandissimo numero di individui. Di qui la necessità, anche, di un grande numero di studiosi...” E Italo Cosmo passa a spiegarmi che cosa sia la generazione o riproduzione agamica, quella che si compie senza la fecondazione di un fiore da parte di un polline portato, mettiamo, dal vento, ma per scissione, gemmazione, innesto di tralci, ecc.; e che cosa sia il : quell’individuo, quel seme, quel vinacciolo che lo studioso sceglie, per le sue caratteristiche, tra tutti gli altri individui, e il cui nome, quindi, passa a significare tutto l’insieme di individui, omogenei, questi, dal punto di vista ereditario, e discesi, appunto per generazione agamica, da quell’individuo primo e unico. Naturalmente, la omogeneità degli individui nati così garantisce, in definitiva, un prodotto più sicuro. Ecco l’importanza viticola della Per esempio: avevo assaggiato, tempo prima, un vino squisitissimo, prodotto sperimentalmente nello stesso Istituto di Conegliano, e battezzato con una sigla misteriosa: 2,15. Si tratta di un creato dal professor Manzoni: polline di Prosecco su fiore di Cabernet Sauvignon. Un gran vino, secondo me. Peccato che la quantità prodotta sia così minima da non permettermi di offrirlo agli amici dell’Istituto Enologico Italiano, come pure vorrei. clone selezione clonare. IM clone Dalla teoria alla pratica. Seguiamo, ora, Italo Cosmo in mezzo alle sue vigne sperimentali: seguiamolo nelle serre dove prova, trova, combina, inventa, tenta, controlla, ritenta... Al vederlo come palpa una semplice foglia, come la accarezza, come la spia controluce, si direbbe che la vite, per lui, non ha segreti. Ma si andrebbe, certamente, più vicini al vero se si affermasse proprio il contrario: e cioè che la vite, dopo avere svelato a Italo Cosmo tutti quelli che per la massa dei profani e forse per molti degli specialisti sono ancora dei segreti, lo ha stregato, incuriosendolo e appassionandolo con altri segreti ancora, moltiplicati, infiniti, sempre nuovi, di cui la massa dei profani e forse di molti specialisti non sospetta neppure l’esistenza. Quando usciamo dal recinto delle vigne sperimentali e delle serre, sono le due passate. Andiamo a colazione. Cosmo ci invita a Col San Martino, dall’oste Condo. Lungo la strada ci fermiamo, per l’aperitivo, a Pieve di Soligo dal farmacista Schiratti. Schiratti è celebre per la sua passione enologica. Sotto la farmacia, ha una splendida cantina, e un’attigua taverna rivestita di pannelli di legno, con scaffali pieni di bottiglie antiche e pregiate: insomma, un’enoteca. Assaggiamo una dopo l’altra bottiglie di Prosecco di varie qualità: specialmente Cartizze, che è la migliore. Ed è qui, e poco dopo da Condo, che mi accorgo, a un tratto e non senza commozione, come Italo Cosmo assomigli, tra i miei maestri filologi che ho nominato, soprattutto a quello che mi è più caro, Matteo Bartoli. Gli assomiglia per un curioso, adorabile particolare. Bartoli era un grande glottologo. , per lui, erano tutto: non pensava mai ad altro: ci si perdeva dietro, con la fantasia, col cuore, col ragionamento. Ma, proprio per questo, non era, per lui, che un documento: il massimo, il più interessante documento delle parole: ma sempre e soltanto un documento. Pascoli, d’Annunzio, Gozzano? Quando udiva citare un verso, o anche solo il nome di un poeta, il volto di Bartoli si illuminava, sì, ma di una luce strana e come distratta. Era chiaro, per chi conosceva Bartoli, che lui mica pensava al poeta o alla poesia, ma unicamente a qualcuna delle parole contenute nella citazione: oppure, nel caso il poeta fosse stato semplicemente nominato, era chiaro che quel nome aveva, per lui, evocato immediatamente certe parole. Le parole la letteratura Così per Cosmo non è che un prodotto, una conseguenza, un documento Certo, tutta la sua attività e tutta la sua opera sono coscienziosamente devolute alla prosperità della vitivinicoltura e ad assistere teoricamente e praticamente i vitivinicoltori; e anche adesso. Cosmo portava il bicchiere alle labbra, assaporava con attenzione quel dorato umore, dava, ogni volta, un giustissimo giudizio: ma un’ombra di lontananza passava intanto sul suo sguardo, che pareva, così, ancora più infossato: vi si indovinava una sfumatura quasi di disinteresse: come se il gusto, prima e più che definire il carattere del vino (amabile, frizzantino, acidulo, secco, ecc.) evocasse immediatamente in lui vigneti, germogli, fiori, tralci più o meno angolosi, foglie trilobate o pentalobate, come talvolta sono nel processo, i grappoli. Oh i grappoli del Prosecco! allungati, piramidali, alati, spàrgoli; dal peduncolo lungo, sottile, erbaceo; dai pedicelli lunghi, molto sottili, verdi; dal cercine poco evidente, verde-brunastro; dal pennello corto e giallastro... Sì, lo sappiamo: spremendo i grappoli di una vite si fa il vino: spremendo le parole di una lingua si fa la poesia. Ma che importanza ha il vino? Che importanza ha la poesia? Ben altro è ciò che mi appassiona! il vino della vite. Questo dicevano, al vino e alla poesia, gli sguardi e i sorrisi, assorti e come perduti dietro un altro pensiero, di Matteo Battoli e di Italo Cosmo. Il Prosecco di Vincenzo Pase. Il folle e commovente amore di Pilade Riello per la vite. Avremo un giorno il “Fendant” di Conegliano? A Scomigo, poco dopo Conegliano, visitiamo La Quercia, tenuta nuovissima, l’hobby e più che l’hobby del mio amico Pilade Riello. L’enologo è Vincenzo Pase: furlano, furbo fino all’onestà, concreto fino all’intelligenza, uomo di poche parole e poche idee, ma le une e le altre chiare e precise. Il suo Prosecco mi pare, di gran lunga, il migliore di quanti ho provato nella zona. Sono uve di Prosecco, dice, con un 10% di Pinot Bianco. Diraspa, ma lascia le bucce. Per tre giorni fermenta, con un “rimontaggio”. Questa operazione viene compiuta dopo il primo giorno di fermentazione e consiste, come dice la parola, nel sommergere “il cappello” in modo da utilizzarne i fermenti e ricavarne dalle bucce tutti i profumi. Il cappello è quella massa densa e piuttosto compatta di graspi e bucce (in questo caso, solo di bucce) che, simile a un coperchio, sopranuota al mosto quando fermenta. Il rimontaggio, spiega Pase, conviene soprattutto qui, in collina, dove le uve, per un 99%, sono sane: qui non si rischia l’introduzione di fermenti anomali, come sovente accade in pianura; a meno che non si dedichino cure speciali alla scelta delle uve. Anche il Merlot, Pase lo diraspa senza sbucciare; lascia fermentare per cinque o sei giorni, e opera il rimontaggio due volte ogni giorno. Lo tiene imbottigliato per due anni, e lo consuma nel terzo. Il Prosecco, invece, è buono dopo un anno, e non dura più di un anno oltre quello della vinificazione. La Quercia così si chiama da una vera e bellissima quercia che sorge sul ciglio e verso la metà del lungo dosso che costituisce l’intera proprietà. Il sole arriva da tutte le parti, dal mattino alla sera. Le vigne antiche sono a raggio, col sistema Bellussi, che è il più usato in tutto il Veneto centrale: quattro piante di vite radialmente disposte intorno a un gelso o intorno (adesso che la coltura dei bachi da seta è quasi abbandonata) a un palo morto. Le vigne nuove, invece, sono a filari rigorosamente orientati da nord a sud, affinché la luce e il calore del sole siano sfruttati con il massimo possibile equilibrio. L’amore di Riello per la vite ha qualcosa di folle e di commovente. In principio, poco tempo dopo aver acquistato la Quercia, preso da improvvisa ispirazione, decise di coltivare qui lo Chasselas Dorato. In uno dei suoi frequenti viaggi d’affari, era capitato anche in Svizzera, e precisamente nel Vallese, e aveva provato quel vino delizioso che si chiama Fendant. Illudendosi ingenuamente che qualunque vitigno e qualunque metodo di coltivazione fossero esportabili e intercambiabili, aveva portato con sé il buon Pase fino a Martigny, aveva studiato insieme a lui, particolare su particolare, tutta la locale tecnica viticola ed enologica. Poi, aveva terrazzato qui, la collina, esattamente come si fa nel Vallese. E aveva piantato seicento barbatelle acquistate a Martigny. Naturalmente, il sole delle colline di Conegliano, tutte aperte e offerte verso sud all’immenso spazio della pianura padana e ai venti caldi adriatici di scirocco e di austro, arde molto di più, e dura molto di più, sia nella giornata, sia nella stagione, del sole del Vallese, esigua striscia di terra coltivabile, stretta tra altissime montagne, e percorsa dallo spiffero dei ghiacciai. Le barbatelle vallesi dello Chasselas, che sul posto non crescevano mai più di trenta centimetri e non si espandevano mai in troppo fogliame, qui raggiunsero presto un’altezza e una foltezza per quel tipo di vitigno addirittura mostruose. E il vino, che in Svizzera è magro, leggerissimo, profumato, passante, qui fu denso, dolce, cremoso, feccioso. Riello non si confessò vinto. Cercò accorgimenti, studiò modifiche di ogni genere che gli permettessero di realizzare il suo sogno. Ancora oggi, infatti, sulle pendici occidentali della tenuta, e a breve distanza dalla famosa Quercia, si può notare un recinto terrazzato da cui la vigna sembra, addirittura, traboccare: sono viti tutte gonfie di fogliame spesso e scuro, i grappoli forse ci sono ma non si vedono. Ho voluto provare anch’io questo Fendant, questo emigrato svizzero. Non sono riuscito ad andare oltre al più lieve umettamento della punta della lingua. Nei volumi dei vitigni, consultando l’indice di Cosmo, vedo che lo Chasselas Dorato è “raccomandato” per una sola di tutte le provincie d’Italia, la provincia di Milano, e più precisamente per la zona di San Colombano al Lambro e Graffignana. Misteri e meraviglie della vite! Tuttavia, conosco Pilade Riello. È capace di tutto. Con grande buon senso, la grandissima parte di tutto il suo terreno, non ha esitato a metterla a Prosecco e a Merlot, i due vitigni tradizionali del luogo, e ne ricava ogni anno due vini di classe. In più, fa, per sé e per gli amici, piccole quantità di spumante e di “torcolato”, anche questi ineccepibili. Ma, come vedo da questo rettangolo rigurgitante di foglie, non ha perso le speranze di ottenere il Fendant. Chissà che, con qualche diavoleria, un giorno o l’altro non ci riesca. A due o tre chilometri in linea d’aria da Scomigo, è Vittorio Veneto: e proprio nel centro di Vittorio Veneto è la vecchia casa natia di Franco Marinotti. Quasi di faccia, il palazzo secentesco, che è ora dei suoi figli. Davanti al palazzo, un bel parco con grandi alberi e statue barocche; sotto, le cantine; da un lato, la piccola ma perfetta azienda vinicola. La cura l’enotecnico Francesco Fabris, il quale ci riceve con quella spontanea cordialità così naturale ai veneti, e così rivelatrice di quella civiltà, dice Bassani. Con Fabris, ritroviamo l’amico Narciso Zanchetta, presidente dell’Associazione degli Enotecnici Italiani: anche lui di Vittorio Veneto, si occupa delle Cantine Sociali. Le vigne di Marinotti vanno, a sud-ovest di Vittorio, da Tarzo fino a Corbanese: a est e sud-est, vanno da Cordignano a Baver, a Campardone e a Colle Umberto, che è quasi di faccia a Scomigo. A Colle Umberto, si coltiva Pinot e Cabernet; a Campardone, Pinot e Marzemino; a Villa di Cordignano, Cabernet e Merlot; a Baver, Pinot e Riesling. C’è anche, un po’ dovunque, del Prosecco: ma la cantina lo pigia come vino comune da pasto, o lo cede alle Cantine Sociali. Ciascun vitigno è piantato nel terreno che gli è particolarmente adatto, o, come si dice con parola tecnica, “vocato”. Il Marzemino, per esempio, viene bene a Campardone: , e cioè terreno ghiaioso. campus aridus Dagli ufficetti della casalinga azienda, scendiamo subito in una delle cantine. Quando si ha qualche pratica di vino (e io stesso, ormai, bene o male ce l’ho) si finisce col pensare che l’assaggio non sia indispensabile per dare un preliminare giudizio: basta il profumo del vino: qualche volta, basta il profumo della cantina! Questa è semplice, modesta, fresca, asciutta, pulitissima, ordinata: antica senza sfoggio di antichità, moderna quanto è saggio che lo sia. Ma la fragranza che vi si respira è tale, che parrebbe assurdo doverne uscire senza, prima, avere provato quel vino che è nelle botti. Conoscevo già i vini di Marinotti. Hanno un nome: Arcella, che è la chiesetta di Arfanta, presso Tarzo. Cabernet Arcella, Merlot Arcella, e Riesling, Pinot Bianco, Marzemino, Rosato Arcella. La palma, in cuor mio, l’avevo data al Marzemino. Vino antichissimo. I primi documenti risalgono addirittura ad autori del secolo XVI: 1553 (Ortensio Lando) e 1567 (Agostino Gallo). Dice il Cosmo: carico di tinta, e cioè rosso rubino con orli violacei; fragrante e fruttato (il profumo della cantina di Marinotti); abbastanza alcoolico; di corpo; sapido; e non privo di finezza. Un tempo abbastanza diffuso, specialmente sulle colline della Marca Trevigiana. Ma era coltivato un po’ dovunque nell’Italia del Nord e anche in Toscana, dove, durante il secolo XVIII, faceva concorrenza al Sangiovese, base del futuro Chianti. Per mio conto, durante il mio primo viaggio, avevo già trovato il Marzemino ad Avio, in provincia di Trento, l’avevo giudicato buonissimo, e l’avevo scelto. Ma questo Campardone è meglio: più schietto, più vivace, più profumato, più violento: il ’68 fa dodici gradi, e il ’70 fa nientemeno che quattordici! A pochi mesi dalla spremitura, è quasi perfetto. Come dirvi la gioia che Bòccoli e io proviamo nel gustarlo così giovane, direttamente spillato dalla botte? Questo, sì, questo è davvero vino mozartiano: lo stesso, senza dubbio, che il Da Ponte ammannisce alla cena di Don Giovanni: DONGIOVANNI Piatto! LEPORELLO Servo! DON GIOVANNI Versa il vino! Eccellente Marzemino! LEPORELLO Questo pezzo di fagiano. Piano piano vo’ inghiottir! Lorenzo Da Ponte (1749-1838), il librettista di Mozart, era ebreo: si fece prete cattolico, insegnò nel seminario di Treviso. Nel 1779 cominciò a girare il mondo. Poeta, avventuriero: stampatore, libraio, agente teatrale, droghiere, dantologo, spiritista. Nel 1792 emigrò a Londra, dove sposò un’inglese con rito protestante e dove visse undici anni. Nel 1805 partì per gli Stati Uniti, dove divenne professore di letteratura italiana alla Columbia University di New York, e dove morì. Ma con quale commozione, avere scritto, del Marzemino, che mi pareva e della cena di Don Giovanni, con quale commozione, andando a cercare nella Treccani i dati precedenti, leggo, inoltre, che Lorenzo Da Ponte era uno pseudonimo di Emanuele Conegliano: e che il suo paese natio era Céneda, e che l’antico comune di Céneda, fondendosi nel 1866 con Serravalle, comune posto poco più a nord, dette origine a Vittorio, così chiamato in onore di Vittorio Emanuele II. Le cantine di Marinotti, però, appartengono proprio all’abitato di Céneda. dopo vino mozartiano senza dubbio lo stesso Non ho sbagliato! orgogliosamente esclamo tra me. Né si può sospettare il Da Ponte di campanilismo. Al contrario. Quanti vini doveva conoscere il Da Ponte! Tanti: vini d’Italia, di Francia, d’Ungheria, di Alsazia, Slovenia, Moravia, Grecia, Cipro, Portogallo e Spagna... tanti quante le donne che, nel famoso catalogo, attribuì a Don Giovanni. Ma se un uomo così libero e così poco provinciale scelse il “suo” Marzemino, vuol proprio dire che lo giudicava vino supremo per quella cena suprema. Squisiti, ripeto, anche gli altri vini di Marinotti. Specialmente il Riesling. E l’indimenticabile, armonico, scuretto ma lieve Rosato, che si pigia, mi dicono, con uve di Malbeck. Malbeck? E chi diavolo era codesto Carneade dei vitigni? È vero che, differenziandomi almeno così da Don Abbondio, io il Malbeck lo avevo già sentito nominare. Ma invano avevo cercato, nella mia piccola biblioteca enologica, riferimenti. La grande opera del Cosmo accennava al Malbeck soltanto come falso sinonimo della Bonarda Piemontese e poi, in una nota, come correttivo del Merlot, nei vitigni da usarsi per la provincia di Treviso: correttivo utile perché dotato di elevata acidità, carattere che favorisce l’invecchiamento. Il Garoglio parlava del Malbeck dell’Università Agraria di Cuyo, presso Mendoza, in Argentina: laggiù, pare che il Malbeck sia diffuso “in netta prevalenza su tutti gli altri vitigni da vino rosso”. E il Veronelli, nel cosiddetto Catalogo Bolaffi, registrava due Malbeck: il Malbeck del Piave (Treviso e Venezia) e il Malbeck di Porcìa (Pordenone). Ora, l’esame organolettico del Veronelli su questi due Malbeck è talmente diverso dal nostro sul Rosato Arcella, che restiamo perplessi. Poi ragioniamo. Il Rosato (se non altro, il Rosato Arcella) implica una vinificazione e implica, come qualunque altro Rosato, stesso tipo di degustazione dei bianchi secchi: a bassa temperatura, su pesci o salumi. In ogni caso, codesto trattamento e codesto assaggio bastano a modificare profondamente il sapore di qualunque vino. Può dunque darsi che si tratti dello stesso Malbeck: cosa normalissima, data la vicinanza dei luoghi d’origine. Vedo, infine, che il Malbeck del Piave porta sull’etichetta, col nome della ditta vinificatrice, Bertoja, che ha sua sede nella vera bassa, a Motta di Livenza, un predicato: di Céneda, Bertoja di Céneda... Torniamo dunque a Vittorio Veneto e a Lorenzo Da Ponte: non possiamo più dubitare. senza bucce La Rolls-Royce delle botti. Incontro con il premio Nobel Emilio Segrè. Visita alla fabbrica di botti Garbellotto. La botte e il liuto. Una prova del nove per il vino. A Conegliano, oltre a Cosmo e a Riello, oltre la scienza e la follia, oltre al vino, ci sono, anche, fabbriche di botti. E ce n’è una delle più antiche e più famose, una nota e ricercata in tutto il mondo: perché la Garbellotto – almeno, così dice Bòccoli – è la Rolls-Royce delle botti. Ieri l’altro, a Verona, ho avuto la fortuna di conoscere Emilio Segrè e di passare la sera con lui. Emilio Segrè, fisico atomico, premio Nobel, e attualmente professore a Berkeley, all’Università di California. Aveva letto il mio primo volume e aveva considerato, con amici, la possibilità di veder eseguire una ricerca del genere anche per i vini della California. Vino al vino È probabile che Segrè, a sua volta, viva sui “ventilati altipiani”. Ma nulla in lui, se non forse la straordinaria pacatezza del tono di voce e lo sfavillìo profondo dello sguardo, lo lascerebbe sospettare. Il motivo mi pare ovvio. La sua disciplina è così ardua che non ne può discorrere se non con gli esperti, che son rari, e perciò la sua conversazione può essere soltanto quella che è, di un uomo momentaneamente disceso da quegli altipiani, di cui però serba nello sguardo la luce e il silenzio nella voce. Ora, Emilio Segrè ha avuto la bontà di lodare i vini da noi scelti per l’Istituto Enologico Italiano. E quando ha saputo che, in quei giorni, ero stato a visitare la fabbrica Garbellotto, ha sorpreso tutti confessando di esserci stato anche lui: sì, per vedere se gli riusciva di ordinare alcune botti per un suo amico vinificatore di San Francisco. Manco a dirlo, la cosa sarebbe stata possibile solo a condizione di spedire le botti in America, e di farle accompagnare da un tecnico della Garbellotto il quale avrebbe poi, sul posto, provveduto a montarle. smontate È fatale, ma, a pensarci bene, normale, che tutto quanto riguarda il vino sia difficile, rischioso, complicato. Viviamo in un’epoca che speriamo, nonostante tutto, passeggera: quella del trionfo iniziale e sterminatore della tecnologia, della pianificazione, del consumo di massa, della omogeneizzazione e della intercambiabilità. Presto, speriamo, ci si accorgerà che ciò che ci circonda, e ciò di cui viviamo, deve necessariamente adeguarsi alle leggi di questo tipo di civiltà. Alcune attività possono, e anzi debbono, restare individuali, o affidate a gruppi di pochi individui: per esempio l’arte e l’artigianato. Il vino, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è quasi un’opera d’arte: nulla, o quasi nulla di ciò che ha a che fare col vino, può, dunque, essere prodotto in serie. Basta, per capirlo, affacciarsi all’immenso capannone della fabbrica di botti Garbellotto. Visto da fuori, è un capannone di cemento armato, in tutto e per tutto simile a qualunque altro dei moltissimi capannoni industriali sorti durante gli ultimi anni in ogni regione d’Italia. Ora, quando si entra in qualunque altro di codesti stabilimenti, siano tessili, meccanici, vetrari, alimentari, ecc., si prova sempre come un senso di angoscia e di costrizione. Il ripetersi continuamente identico di una certa funzione finisce per suggerire l’immobilità anche se la funzione, come accade abitualmente, viene esercitata dalle macchine con un moto continuo e magari velocissimo. Prigioniero di queste gabbie frenetiche, invariabili, ossessive, il nostro cuore si stringe. Qui, invece, fino dal primo momento, si allarga. Fermi ancora sulla soglia, e abbracciando con un solo sguardo il lavoro che si svolge nell’immenso capannone, grandi botti ondeggianti o rotolanti a pochi passi da noi, e raggi lontani di sole, fasci d’oro, che, penetrando dai finestroni come da vetrate di cattedrale, attraversano nuvole fumose che continuano a sprigionarsi su tenebrosi angoli, tutto ciò che vediamo ci comunica un’impressione di libertà, di varietà, di estemporaneità e di mistero. Nella grande penombra, le luci variano senza posa. Profumi gradevoli di legno affumicato, di rovere scaldato, rallegrano a quando a quando l’atmosfera. E perfino i rumori, il soffio sommesso di un fuoco lento e governato, lo sfrigolìo di una doga inumidita e sfiorata dalla fiamma, il cupo, solenne, profondo tuonare dei magli sui cerchi di ferro che stringono a poco a poco la rimbombante cavità della botte levata e preparata intorno al modesto rogo, perfino i rumori hanno qualche cosa di armonico e di liberamente ritmico, un’attività che si sviluppi e proceda, imprevedibile, variante, sempre nuova. non tutto non tutto Il rovere viene dalla Jugoslavia e, più precisamente, da quella parte della Jugoslavia compresa, grosso modo, tra Zagabria e Belgrado e chiamata anticamente Slavonia. Deve invecchiare da tre a cinque anni, secondo lo spessore delle assi. Le assi sono scelte e ordinate secondo la fibra, che deve essere diritta, compatta, ininterrotta, evitando i nodi. La stagionatura viene fatta in ordinate cataste, all’aperto: e le abbiamo viste, in un amplissimo terreno, a lato del capannone. La stagionatura diminuisce la naturale e originaria umidità del legno; stabilizza la fibra placandone la “nervosità”, ossia la tendenza a deformarsi; lava, infine, il legno dalle sostanze tanniche ed estrattive più grossolane, lasciandogli soltanto quelle più raffinate. Qual è la funzione del legno di una botte sul vino? È triplice. Funzione ossidante. Con la sua relativa porosità, il legno della botte lascia passare tanta aria quanto basta ad ossigenare garbatamente il vino. Questa può anche essere definita una funzione catalizzante. Funzione isolante. Con la sua relativa impermeabilità, il legno della botte permette al vino di sentire le stagioni, ma non le variazioni minime e quotidiane della temperatura e dell’umidità. Funzione aromatizzante. Il legno della botte trasmette al vino il suo profumo. Naturalmente, questa funzione non sempre è richiesta: per esempio, i vini bianchi e i vini che non devono invecchiare ne sono esclusi. Tanto è vero che, in questi casi, si provvede ad “abbonire” all’interno le botti mediante uno strato di paraffina. Sappiamo invece il vantaggio che vini come il Barolo, il Barbaresco, il Gattinara, e anche certi Cabernet e certi tagli bordolesi (Cabernet più Merlot) ritraggono da un prolungato invecchiamento in botti di rovere di Slavonia. Questa triplice funzione, evidentemente, non può essere assunta da cisterne di vetro o di cemento. Perciò, fino ad oggi, la botte di legno è insostituibile. E perciò, la lavorazione della botte avviene, sostanzialmente, nell’identico modo in cui avveniva secoli or sono. Con l’eccezione di alcune macchine, che però hanno un compito molto limitato e ausiliario, per esempio pialle elettriche, forni per i “fondi”, carrelli di sollevamento, gli operai fanno ancora tutto con le loro braccia, che devono essere robuste, e con il loro cervello, che deve essere fino. Nella tradizione narrativa e letteraria, il bottaio, infatti, è sempre una persona straordinaria, e non priva di un’aria quasi magica: appunto perché dotato, allo stesso tempo, di forza e di intelligenza altrettanto eccezionali. Il lavoro dei fondi si svolge in modo completamente diverso da quello delle doghe. I fondi (il profano direbbe “le assi dei fondi”) sono ammorbiditi a vapore in apposite celle, e poi curvati a pressione, sotto pistoni idraulici, che sostituiscono, senza grande differenza dinamica, i vecchi torchi manuali. I fondi restano sotto pressione ventiquattr’ore, finché si raffreddano. Li si accosta, poi, secondo la fibra, e li si salda l’uno all’altro mediante (cavicchi di acacia appuntiti da ambedue le parti) e mastice enologico, riempiendo con speciali fibre di erba secca le eventuali minime fessure tra uno spessore e l’altro, nelle vicinanze di ciascun sìgolo. Così riuniti, i fondi sono ancora piallati fino a una liscezza perfetta, poi segati tutt’intorno in forma circolare od ovale, e, nella misura giusta, da ultimo secondo un orlo cavo, perché possano entrare nella Capruggine è quella intaccatura interna delle doghe, dentro alla quale si commettono i fondi. sìgoli fresati capruggine. Quanto alle doghe, una delle prime operazioni del bottaio consiste nelle misure, che lui prende con lo , strumento antichissimo che permette di inclinare a forma di trapezio gli spessori. Perché tutto ciò che compone la botte è sbieco, trapezoidale, inclinato, variato, curvo. Tutto, e da tutte le parti, è, in qualche modo, concavo o convesso. L’architettura, la struttura, la statica, la resistenza della botte sono affidate, appunto, alle curve e alle angolazioni di ogni suo elemento. Le doghe non possono cedere verso l’esterno perché trattenute dai cerchi di ferro. Non possono cedere verso l’interno perché vi si oppone la loro sezione trapezoidale. squadretto Il lavoro del bottaio assomiglia a quello del carpentiere che costruisce barche e a quello del liutaio che costruisce violini, violoncelli, contrabbassi: assomiglia, anche, al lavoro del costruttore di organi. È una tecnica condizionata dalla materia prima, il legno, e, dunque, sostanzialmente, invariata per il passato, invariabile per l’avvenire. La botte, come lo strumento ad arco e come la barca di legno, è un manufatto che risulta in parte da calcoli razionali, in parte da esperienza trasmessa e acquisita, e in parte, anche, dall’ispirazione dell’operaio, il quale si trova davanti una materia organica, cioè sempre diversa da se stessa e sempre imprevedibile, e deve, perciò, affrontarla con trovate sempre, se pur lievissimamente, diverse dalle precedenti. di tutto quanto vediamo è il signor Pietro Garbellotto: ancora giovane, bottaio per tradizione familiare, e bottaio, lui stesso, fisicamente. Alto, grosso, robustissimo, e certamente scaltro. Mi dice, sul vino e sulla botte, qualcosa di definitivo. El paròn “Vede,” mi dice “il vino, se è buono, in botte migliora: se non è buono, si degrada, si rovina, si perde. Allo stesso modo l’essere umano, quando va in alta montagna, se è sano, si ossigena, si ritempra, si rinforza: se, invece, è malato, non resiste all’altezza, e muore. La botte è la prova del nove del vino.” Certo, concludo per mio conto: e poiché otri di pelle, anfore di creta, vasche di cemento, recipienti di vetro, Sono meno consustanziali al vino della vegetale botte, si capisce benissimo che la tecnica del bottaio sia, a sua volta, la prova del nove della natura del vino, irreversibilmente organica, poetica e vivente. Un Prosecco e un Merlot venduti agli amici e agli amici di amici. Poche centinaia di metri, il vino di Merzavia “xè finìo”. Sosta a Fontanelle di Oderzo presso i Conti Marcello. Mi concedo più di quanto dovrei a un Cabernet del ’59. Il mio sonno tra voci amiche. A Masèr, nei cinquecento ettari cui presiede la famosa villa Barbaro costruita dal Palladio e mirabilmente affrescata dal Veronese esattamente quattro secoli fa, Marina Luling Buschetti nata Volpi produce vino. La strada, che va da Asolo a Cornuda e che passa sotto la villa, divide la zona collinare dalla zona pianeggiante: nella prima si fa soprattutto vino bianco, mille quintali di Prosecco: nella seconda soprattutto vino rosso, duemilacinquecento quintali di Merlot. L’azienda è direttamente curata dal signor Renato Romano, che pensa ad ogni cosa: alla parte agraria, a quella enologica, al commercio e alla contabilità. Un modello di semplicità e di efficacia. Un modello, anche, di probità professionale. Per esempio: il Merlot e il Prosecco messi in vendita sono sempre vini di un anno, non di più: e due anni, appunto, è l’optimum per il consumo di questi vini. In quell’anno che il vino resta a Masèr in botte, il Romano esegue, in media, tre travasi, e nessun filtraggio. L’unico additivo usato è da cinque a dieci grammi di anidride solforosa per quintale. Infine, il vino non è mai imbottigliato qui, ma venduto esclusivamente in damigiane ed esclusivamente a privati, i quali provvedono loro a imbottigliarlo. Chi sono i clienti? Amici, o amici di amici: nessun altro. Per il vino da pasto, e di consumo quotidiano, ho sempre sostenuto che una fornitura di questo tipo era l’ideale: bisognerebbe, ho sempre detto, riuscire a convincere il consumatore che la bottiglia rappresenta soltanto un’eccezione, un vino da consumare nelle grandi occasioni: e che il vino quotidiano deve essere giovane (al massimo, due anni) e imbottigliato in casa, con un po’ di sacrosanta fatica. Ma non credevo di trovare questo ideale realizzato proprio qui. Lo dico a Marina Volpi, che si compiace della mia lode, anche se, probabilmente, non l’ha cercata, e ha scelto questo metodo per istintivo senso pratico: per non avere la noia di provvedere ad imbottigliare un vino che deve essere consumato al più presto. Dobbiamo escludere, inoltre, che si tratti di pigrizia, o di semplice e irrazionale attaccamento all’antico. Nella stessa azienda, fianco a fianco con i vigneti del Merlot, ammiriamo una estesa piantagione di fragole, con teli di plastica, e complicatissimi dispositivi per l’irrigazione, che costituiscono tutto quanto c’è di più moderno: neanche in Israele, credo si arrivi a tanto! Ma bisogna dire che la fragola non è l’uva, e soprattutto che la fragola si consuma com’è: le estreme difficoltà della viticoltura vanno messe in rapporto con i problemi, infinitamente più delicati, della vinificazione. A Mezzavia, un piccolo podere a mezza collina, su in alto, lontano dalla villa, seppure sempre nel comprensorio dei suoi terreni, gusto un Prosecco di tre anni, lasciato fermentare sulle bucce, invece di tre giorni, sette: un perfetto vino da dessert, dolce e delicato, non locale, ma addirittura casalingo. Mi dicono, infatti, che appena lo si porta giù, soltanto giù fino alla villa, immediatamente si guasta: “xè finìo”, dicono. Eppure questo, proprio questo, non altro, molte volte è il vino. A Fontanelle di Oderzo, la villa e la tenuta dei Conti Marcello di Venezia. Vini rossi: si coltiva il Cabernet, il Merlot e il Raboso. Bianchi: il Tocai, il Verduzzo e il Sauvignon. Per due terzi, il quantitativo è rappresentato dai rossi, soprattutto dal Merlot. Per un terzo, dai bianchi, soprattutto dal Verduzzo. L’azienda comprende quattrocentoventi ettari. Il padrone è Alessandro Marcello del Majno, professore di biologia. Ma chi si occupa del vino, e se ne occupa con grande passione, dedicandovi tutto il suo tempo, è il figlio Marco, laureato in agraria. Si tratta dell’antica famiglia veneziana dei Marcello, la stessa cui appartennero, dal secolo XV fino a oggi, e ancora prima del doge Niccolò Marcello (1473-74), uomini d’arme, d’azione, di governo e di cultura, studiosi, religiosi, e il famoso musicista Benedetto Marcello (1686-1739). Difficilmente il vino sarà meglio onorato da tradizioni familiari, né meglio potrà onorarle. E Marco Marcello si dimostra, in tutto, all’altezza della più ottimistica immaginazione sul suo conto: persona gentile, semplice, umana, e questo parrà forse ovvio, ma anche, e questo è più raro, vinificatore attento, preciso, attivo, istruito e informatissimo. Sono un ospite ormai abituato a riconoscere la vera nobiltà, quella che coincide con la gentilezza dell’animo, da un piccolo particolare: la scarsità, almeno apparente, o addirittura l’assenza, almeno apparente, di servitori. Dopo avere visitato le vigne, dove le vecchie raggere del sistema Bellussi stanno via via cedendo alla più moderna e razionale spalliera: dopo uno spuntino sull’erba del grande parterre davanti alla villa: restiamo, invitati a colazione: e vediamo, in tutto, una sola cameriera. Marco Marcello scende in cantina, ne ritorna con le braccia cariche di polverose bottiglie. Esita, mentre le stappa. Dice, ogni volta: “Speriamo che vada bene. Se fossi un industriale, sarei sicuro del fatto mio. Saprei com’è il mio vino. Ma sono soltanto un artigiano.” Naturalmente, il vino era meraviglioso: specialmente un Cabernet del ’59, a cui, forse, mi concedo più di quanto dovrei. Dopo colazione, andiamo a prendere il caffè sotto la volta fiabesca dei grandi alberi del parco. I bambini dei Marcello giocano lì accanto, sulla ghiaia, con bicicli e automobilini. Marcello e sua moglie conversano con Bòccoli, con mio figlio, e con la moglie di mio figlio. E, in quella musica di parole, in quell’ombra fresca e ventilata, mi accade, a poco a poco, di disertare la conversazione e di abbandonarmi insensibilmente al naturale sopore provocato dal Cabernet... Quando mi sveglio (mezz’ora, un’ora dopo?) odo tuttavia la musica di parole: ma più sommessa; e mi accorgo, infatti, che i Marcello e i miei compagni ospiti si sono spostati “un fìà più in là”, su un altro gruppo di vimini, in un’altra abside ombrosa che gli alberi del parco formano poco lontano. La vera civiltà è proprio questa: coincide, ho detto, con la gentilezza dell’animo: e con la libertà. Adesso, però, chiedo scusa alla Contessa Marcello: poiché mi accorgo di non averlo fatto allora. A San Donà di Piave mi accoglie Antonio Ca’ Zorzi, fratello di Giacomo Noventa. Nei greti del Piave i misteri del Raboso. Una gagliarda colazione alle Cantine Sociali di San Donà, accompagnata da vecchio Raboso e dalla recitazione corale di un brindisi di Noventa. A San Donà di Piave mi accoglie un vecchio amico, fratello maggiore di uno dei miei amici più cari: Antonio Ca’ Zorzi, fratello di Giacomo Ca’ Zorzi, che tutti conoscono meglio come Giacomo Noventa, il nostro grande poeta precocemente scomparso. Antonio Ca’ Zorzi, proprietario di una tenuta a Noventa di Piave, è presidente della Cantina Sociale di San Donà, cui conferisce, come gli altri soci, le sue uve. Fra tutte le cantine sociali d’Italia, quella di San Donà è certamente una delle più importanti e, attualmente, in maggiore sviluppo. Da circa 45.000 ettolitri che vinificava nel 1948, oggi è arrivata a 175.000. Le uve sono: 50% Raboso, o del Piave o Veronese; 30% tra Merlot e Cabernet; 20% bianchi. Il punto di forza o, piuttosto, di carattere è l’uva Rabosa, da cui si ricava il vino, un vino che serve soprattutto per il taglio, dato il grado alcoolico, il colore rubino carico, e alta l’acidità fissa, che parte da 9/10 per mille per poi, col tempo, ridursi a 4/5 per mille. Esistono due varietà di Raboso: quello del Piave, che è più duro e che raggiunge e anzi richiede un maggiore invecchiamento (fino a quattordici anni! pare); e quello detto Veronese, ma che, per concorde testimonianza, anche per quella di Italo Cosmo, si chiama così semplicemente perché è una varietà selezionata, nella seconda metà del secolo scorso, da un certo signor Veronese di cognome. L’uva Rabosa Veronese si presenta con grappoli e cioè meno compatti di quella della Rabosa Piave. Il vino è meno potente. più spàrgoli La grandissima maggioranza dei consumatori ignora la proprietà che il Raboso ha di invecchiare bene, specialmente quello del Piave. Due possono essere i motivi di questa ignoranza: primo, che il Raboso è usato soprattutto come vino da taglio; secondo, che i vini di pianure abitualmente non invecchiano. In altre parole, il Raboso è un vino pieno di mistero. Forse il segreto è nel terreno: in quelle “grave” del Piave, cioè in quei terreni ghiaiosi, in quegli antichi greti, in quelle golene tra il fiume e i suoi argini, dove si coltivano le vigne, e dove maturano le uve sotto un sole ardente, nell’aria del mare vicino. Antonio Ca’ Zorzi sostiene strenuamente che sulla qualità di un vino l’elemento che influisce più di ogni altro, “infinitamente più di ogni altro” dice lui, e cioè più della qualità del vitigno e più dei metodi di coltivazione, è la natura del terreno. E se guardo Antonio Ca’ Zorzi, sono tentato di credergli, gli credo. Il suo volto è quello di un personaggio del Tintoretto: di un uomo che non sogna, ma vede, considera, e ama, soprattutto la realtà, senza trascurarne nessuna delle implicazioni, nemmeno le più contraddittorie. Nei suoi occhi celesti e pensosi, nelle sue labbra protese e pronte al sorriso, brilla l’ironia, palpita la carità, ma ancora di più rifulge la consapevolezza, la concretezza, la lucidità di chi ha i piedi incrollabilmente piantati per terra. San Donà è provincia di Venezia. Veneziani, gran signori. E le immense distese dei vigneti, di qua e di là dal Piave, danno l’impressione, fino dal primo colpo d’occhio, di un’abbondanza, di un rigoglio, di una miracolosa ricchezza. Ma sono signori attivi: duecentocinquanta soci organizzati, intelligenti, all’antica, nella tradizione di quei loro avi, a qualunque ceto appartenessero, che fecero la grandezza della Repubblica. E uno di loro è Giovanni Giol, che emigrò in Argentina, e costruì a Mendoza la cantina più grande del mondo: un milione e duecentomila ettolitri. Un altro è Vincenzo Janna, figlio di Carlo Janna, antico presidente. E un altro ancora è un mio omonimo, che sarei felice di scoprire anche mio parente, Italo Soldati, il quale discende, per via materna, dai Bellussi, i famosi vitivinicoltori di Tezze di Piave. Italo Soldati è stato, a sua volta, e sempre per il vino, in Argentina: ha le vigne ad Eraclea, conferisce le uve alla Cantina Sociale, vive come tutti i suoi avi nel vino e per il vino. Dopo la visita alle vigne e agli impianti, la Cantina Sociale ci offre una gagliarda colazione. Oltre al presidente e ai consiglieri Velluti, Alverà, Cabernotto, Cassi, Fracasso, Janna, Rossetti e Soldati, partecipano molti dei soci e i due figli maschi di Giacomo Noventa, Alberto e Antonio, il quale ultimo, nel solco dello zio, si occupa anche lui del vino e della Cantina Sociale. Così che viene naturale, a un certo momento, ricordare il brindisi di Giacomo, e lo recitiamo insieme, quasi in coro, brillando alti, nelle mani di tutti, i bicchieri di vecchio Raboso. Una sola parola, è necessario tradurre perché la poesia sia capita anche da chi non ha famigliarità col veneto: , che significa “troppo”. Ecco il brindisi di Noventa: massa Amici, Un fià de schèi, Par tirar vanti, No’ xè miga massa. E una doneta, Che riçeva I nostri basi, Co’ quel gusto, Che ghe serve Par donarli, No’ xè miga massa. Ma un fià de vin, Amiçi, Co’ no’ ghe xè né schèi né amor, O anca se i ghe xè, Un fià de vin bevùo tra amiçi, Un fià de vin, E ancora un fià de vin, amiçi, No’ xè miga massa. A Malamocco, mangiavo pesce e bevevo vino rosso. Lo scarso Raboso di Gino Scarso. Ma non sarei sincero se non dicessi che al vino di San Donà, come a tutti i vini delle provincie venete che ho visitato in questi brevi giorni, ero stato preparato, senza che lo volessi, dai giorni lunghi che, per sbrigare altre incombenze, avevo passato, poco prima, nella laguna di Venezia, e precisamente nell’isola del Lido di Malamocco. Ogni sera tardi, andavo a cenare appunto nell’antico capoluogo, Malamocco, in una vecchia osteria con vasta pergola di uva fragola, già matura, e con vecchi tavoli dipinti di scarlatto, sempre belli e sempre comodi. Il giovane oste, Gino Scarso, di famiglia e di mestiere malamocchino da parecchie generazioni, è specializzato nel cucinare ogni sorta di pesce: ma il vino che mi dava era, contrariamente a tutte le regole che sul pesce lo vogliono bianco, rosso: ed era Raboso, Raboso Veronese. Scarso medesimo lo pigia nelle proprie vigne, che sono a breve distanza dall’osteria, in un terreno ghiaioso e sabbioso, là dove l’isola di Malamocco è più stretta, tra l’argine verso il mare e la sponda verso la laguna. Era vino di due anni. Scarso me ne ha fatto provare anche di più vecchio: ma, o perché di varietà “Veronese”, o perché di vigna lagunare, non poteva essere paragonato al Raboso vecchio di San Donà. Quello giovane, invece, andava benissimo. Vino da esterno; vino da estate; vino aspro, quasi duro, ma frizzante; vino amaro, quasi salato, ma pungente. Pizzicava la lingua e non insinuava... ecco non ho mai bevuto un vino che insinuasse minor sospetto di dolcezza, o che lasciasse prevedere minore eventualità di solletichi nauseabondi. Ecco forse perché, contrariamente a tutte le regole, andava benissimo anche sul pesce, sulle canocie, sulle moleche, sui gamberetti, sui calamaretti, sulle seppie, sugli scampi, sui caperozzoli, su tutto il ben di Dio marino che danno l’Adriatico e la Laguna. Un vino semplice, intendiamoci, un vino rozzo e brusco. Ma così autentico e così schietto che non ne avrei mai cercato un altro, finché rimasi al Lido. Il guaio è che lo trovavo solo da Scarso. Ed era, del resto, così scarso (quante bottiglie, amico Scarso?) che quando me ne andai era finito. Vino di vigna del posto, pigiato sul posto, conservato sul posto, bevuto sul posto: come vino abituale, nessun altro lo supera. E se come sostiene Antonio Ca’ Zorzi, è soprattutto il pezzo di terra, con le sue particolarissime qualità, che caratterizza un vino, non possiamo stupirci che il vino migliore sia, in ogni caso, il vino bevuto più vicino al pezzo di terra che, col carattere, ha dato vita alla vite.