Nelle provincie di PORDENONE, UDINE, GORIZIA, TRIESTE Il Friuli, una terra che non vuole rinunce. Ricordo di Bonaldo Stringher, banchiere della mia infanzia. Tristezza dei vivai. Certo, in Friuli, tira un’altra aria. Nel mio viaggio del vino, che ormai dura da tre anni, quante tappe avrò fatto? Forse un centinaio. E ancora non ero giunto in Friuli. Vi ero stato in un passato lontano, solo di sfuggita: in ogni modo, non per il vino. Era un tempo che bevevo più di oggi, forse, ma preferivo ebbrezze meno limpide e meno innocue. Poi, seguii quel consiglio dei saggi che ritrovo, tra altri proverbi enofili, nel bel volume di Tullio De Rosa : Andar per vini Quando il capello tira al bianchino lascia la donna e tieni al vino. Ecco, in Friuli, non vale neanche questo proverbio. Terra ardente e impetuosa, dove non si rinuncia a niente. Terra dove, sebbene si vinifichi in grandissima quantità, “si beve più di quanto si vinifichi”: così mi dice Stefano De Asarta di Fraforeano, che trovo a Poggio Stringher, in casa di Giovanna di Robilant Stringher. Ardita, , tenacissima, questa giovane si occupa personalmente dell’azienda agricola e vitivinicola: impara il mestiere, opera un ordinato, sistematico rilancio, dimostra qualità degne del proprio nome. Il nonno, infatti, nato a Udine nel 1854, fu dal 1900 al 1930 Governatore (ma, allora, credo si dicesse soltanto Direttore) della Banca d’Italia. Ricordo, l’ho sempre viva davanti agli occhi, la firma sulle banconote: Mi pareva che quei caratteri corsivi, compatti, decisi, suggerissero diversamente da tutti gli altri fregi che riempivano l’incisione, la presenza, all’origine, di una ben precisa individualità umana, quella appunto che la calligrafia rivelava, e dunque si identificassero, in qualche modo, con la potenza del denaro: irradiando, comunicando, al solo contemplarli, una forza quasi magica. E due coppie di pini ombrelliferi, mediterranei, stranissimi in questo paesaggio, piantati da Bonaldo Stringher sul prato davanti alla villa, di qua e di là da due cipressi toscani, mi paiono, adesso, il simbolo di un Ideale Unitario che a lui, nato sotto l’imperatore Francesco Giuseppe, doveva essere caro. Nel piantarli: “Anche la nostra patria era Italia”, avrà pensato con le parole del Cattaneo, il Banchiere dei miei verd’anni. positiva Bonaldo Stringher. La terra di Poggio Stringher è ghiaiosa, sparsa di pietre e di massi anche enormi, che bisogna rimuovere per piantare la vigna. Ma proprio da queste argille si producono i migliori vini: e il fatto che per lungo tempo, fino ad oggi, fossero poco sfruttate è un’altra condizione vantaggiosa: un altro auspicio favorevole alla giovane imprenditrice. Nessun concime, nessun’opera fertilizzante, neanche la più moderna, vale, per la terra, quanto il riposo naturale: il passaggio, dopo qualche tempo, ad una diversa coltura: la rotazione agraria. Imparo questa legge ancora meglio tornando indietro, da Poggio Stringher, verso occidente e rivarcando il Tagliamento in provincia di Pordenone. A Rauscedo, visito i famosi Vivai Cooperativi: forse, in tutta Italia, i più importanti vivai di vitigni. Esportano in Jugoslavia, in Messico, in Argentina, in Venezuela, in Brasile, in tutto il mondo. Sono immense distese di terreni soltanto presi in affitto perché, se una vigna normale può prosperare anche venticinque o trent’anni, il vivaio non frutta, sullo stesso suolo, più di due. Quando ci si abitua allo spettacolo delle vigne, sempre allegro e sempre vario, la ricognizione di un vivaio ha qualche cosa di triste. Il cuore si stringe davanti all’uniformità e al grigiore verdastro delle pianticelle, strette in serra, o all’aperto ma protette da appositi teli, o anche libere ma tutte così fitte, così ammassate, così minute, così regolari, che in nessun caso, guardandole, ci sentiamo di evocare il vino, loro ultima e vera vitalità. Non troppo diversamente accadrebbe a chi, lungo il corridoio di una , osservando le file delle piccole culle dove ordinatamente in ranghi i neonati dormono o poppano o strillano e la parete di cristallo pare ammutolirli, volesse fantasticare sul futuro di quegli esseri umani. Eppure, ciascuno sarà un individuo diverso dall’altro, ciascuno avrà la sua infanzia, la sua educazione, il suo destino. Così qui. Innumerevoli sono i tipi di vitigni coltivati. E ciascuno, trasportato in terre lontane e diverse, coltivato con diversi metodi, darà un diverso vino. maternità Una cura per scoprire il Friuli. Aria di Far West. La vitalità del Friuli nelle pagine del Nievo. Il dovere mi impedisce di tener testa a Vittorio Del Nin e alla grappa friulana. Quella sera, a Gradiscutta, presso Codroipo, Elio Bartolini, romanziere e sceneggiatore cinematografico, ci invita dal “Toni”. C’è Amedeo Giacomini, friulano anche lui e anche lui scrittore. E c’è Silvio Pellegrini, toscano, filologo, professore all’Università di Pisa, mio vecchio compagno di scuola, spirito libero e mordace, grande cacciatore, grande amatore di questi paesi. E la rivelazione del Friuli, l’ho qui. Vini (quando sono veri, naturalmente) tutti squisiti, e tutti alti, e anche altissimi, di gradazione alcoolica. Cibi potenti, gustosi, vibrati. Minestre spesse e fragranti: le minestre, nella tradizione locale, sono il piatto principale di ogni pasto. Carni, soprattutto alla griglia, e di ogni specie, ma sempre fresche: un’antica saggezza qui ha insegnato ad evitare l’abominevole pratica infranciosata dell’infrollimento. Nella sala terrena, in un camino al centro, arde un gran fuoco. A una tavolata accanto a noi, una comitiva mista di giovani e di non giovani, di uomini e di donne, urla e schiamazza a tal punto che sarebbe intollerabile e ci persuaderebbe a cercare un’altra osteria se presto non ci accorgessimo della loro generale, straordinaria simpatia. Non è una festa, infatti, non è una ricorrenza, un pranzo preparato e combinato. È una sera qualunque: sono conoscenti, amici che si trovano così, per caso, liberamente, al di fuori di ogni sospettabile conformismo. Niente di gretto né di borghese. Insomma, un’aria da Far West. E il maresciallo di Finanza Virgilio Girotto, nativo di Oderzo ma stabilito qui da anni, piccolo, pasciuto, entusiasta, che affettuosamente mi abbraccia, e il vecchio agricoltore Vittorio Del Nin, lungo lungo, magrissimo, sfavillanti occhi celesti da visionario, che mi racconta subito la sua vita, completano la scena in un crescendo di allegria e di libertà, che non ricordo di avere goduto in nessun’altra parte d’Italia se non forse, ma molto tempo fa, in qualche paese del Piemonte, tra Carmagnola e Savigliano. Penso al Nievo, alle sue pagine più esplosive e più vitali, quelle che riflettono e ricordano la sua felicità di adolescente in queste medesime terre del Friuli. Faccio il nome del Nievo. E Del Nin, di colpo dice “Varmo”, che è il nome di un villaggio e di un fiume, qui vicino. “Non ricordo che il Nievo parli del Varmo” osservo con qualche incertezza, e forse, inconsciamente, per provocare una reazione del vecchio. Ma lui balza in piedi: gli occhi celesti, nel viso scavato e infiammato, gli sfavillano ancora di più. Si libera delle pantofole, mi grida di aspettare, e a piedi nudi corre via lungo il campo di bocce, corre nella notte, corre a casa, e dopo qualche minuto ritorna con un opuscolo intitolato Ippolito Nievo e il Varmo. È ormai l’ora della grappa. Del Nin non si fa pregare. Purtroppo, non posso più tenergli testa. L’indomani mattina, con Bartolini e Giacomini, dovrò assaggiare, col dovuto raccoglimento e con la dovuta calma, in solitudine di amici, nei veri luoghi, nelle cantine di vinificazione e tra le vigne, i vini del Friuli, che stasera ho soltanto incominciato a indovinare. Ma esiste ancora il Picolìt? Supremo monumento di grazia a villa Florio. Ci accoglie Enrico Baldini, falegname felice tra le vigne. Assaggi mattutini: tra l’altro, di un deliziosissimo Müller-Thurgau e di uno strano Tazzalenga o “taglialingua”. Mi incuriosisce, tra l’altro, il famoso Picolìt: quel vino celebre da secoli e che forse non esiste più; quel vino che Italo Cosmo, a Conegliano, mi spiegò derivare da un vitigno antichissimo e, ormai, autosterile, un vitigno, cioè, i cui fiori, per dare frutto hanno bisogno di essere fecondati dal polline di un altro vitigno, piantato nelle vicinanze immediate; quel vitigno che fa così rari grappoli, e questi grappoli sono, a loro volta, così rari di acini, che la complessiva raccolta delle uve non supera mai il quantitativo minimo che sarebbe necessario a uno sfruttamento commerciale; quel Picolìt che i suoi scarsi produttori pigiano come possono, segretamente, mescolandovi un po’ di vino di altre uve, Verduzzo, Tocai, Malvasia, e dunque non si è mai sicuri della sua autenticità; quel vino che avrebbe un gusto unico, indefinibile, sublime, dolce ma anche asciutto, liquoroso ma anche oleoso, vino da dessert ma anche da aperitivo, vino che, dicono, assomiglia soltanto a un altro vino del mondo, lo Château Yquem, e tuttavia ne differisce nettamente; quel vino che quando si riesce a trovarlo e a comperarlo, costa anche dieci o quindicimila lire la bottiglia; quel vino che potrebbe essere definito pura fantasia, l’araba fenice dei vini: che ci sia ciascun lo dice, come sia nessun lo sa... In fondo al tunnel del viale che sale attraverso le colline rivestite di vigne, appare la villa settecentesca, bianca e verde in mezzo al verde. È una vecchia casa dei Florio. Florio, per intendersi, non siciliani e originari di Bagnara Calabra, industriali, armatori, produttori di Marsala. Ma Florio friulani e originari della Dalmazia, nobili della Repubblica veneta, gentiluomini georgici: soprattutto se, come suppongo, l’udinese Daniele Florio (1710-1789), poeta arcadico e amico del Metastasio, appartenne alla stessa famiglia. In ogni caso, la villa ha qualche cosa di incantevole: direi che è la perfezione di tutte le possibili antiche ville che mai abbiamo sognato di visitare o di abitare. A mezza collina, su uno spalto, come su un naturale terrazzo aperto sulla pianura e rivolto a mezzogiorno. Alberi del parco e vigne tutto intorno. Grandiosità ma non esagerata. Una via di mezzo tra il signorile e il campagnolo: quasi una cascina un po’ signorile, o una villa un po’ rustica. Simmetria, tranquillità di linee e di spazi architettonici, ma non severità. Le ringhierine rococò di ferro battuto ingentiliscono e alleggeriscono la rampa marmorea, altrimenti troppo solenne: così fanno i cespugli e i rampicanti fioriti: così i grossi vasi dei limoni e le ante di legno scrostate e stinte, di un delizioso mentuccia verdegiallino. Perché si capisce che la villa sta attraversando quel momento sublime (che le auguriamo lunghissimo ma che finisce sempre troppo presto) in cui l’arco temporale di un’opera umana e deperibile tocca il sommo della grazia: un equilibrio tra l’ordine e la negligenza, tra le cure e l’abbandono, tra la conservazione pia delle idee o delle fantasie antiche, e la misteriosa, dolcissima corrosione dei secoli consumatori. Resta, qui, una traccia, un po’ dovunque, di tutti coloro che amarono il posto e forse ne fecero il simbolo delle proprie gioie umane: una traccia sensibile se non visibile, magnetica o magica se non edile od orticola... Due secoli. Dal 1770 al 1970. La perfezione, appunto. Tra le due date, la lunghezza massima di tempo prima che trascorresse la quale la vecchia villa non era ancora bellissima, e dopo la quale comincerà ad esserlo un po’ meno. Due secoli: come se a tanto giunga il nostro cuore, e oltre, molto oltre, non si senta di palpitare. Inutile non confessarlo. Avverto, qui, davanti alla villa Florio di Buttrio, qualcosa di più che nelle ville canavesane care a Guido Gozzano. Che cos’è? Il ricordo (la traccia invisibile) del poeta Daniele Florio? Anche. Forse. In ogni caso, e senza dubbio alcuno, è il suggerimento di una società più colta, più intelligente, più vasta, meno provinciale di quella implicita nella villa Amarena della Signorina Felicita. Ci accoglie, festoso, il signor Enrico Baldini, cui Giuliana Florio ha affidato la cura delle vigne e la fabbricazione dei vini. Si tratta di un’azienda piccola, ma seria: un artigianato consapevole dei metodi moderni ma cauto nell’adottarli, un artigianato rispettoso dei metodi antichi non per pigrizia né per avarizia, ma proprio per intelligenza tecnica. Baldini, di professione, è falegname. Ma ormai, credo, passa tra i filari delle vigne e le file delle botti, con meravigliosa soddisfazione, tutto il suo tempo. Diceva Umberto Saba che la cosa più importante, nella vita di un uomo, è di riuscire a trovare un lavoro che gli piaccia. Il volto di Enrico Baldini dice a chiunque che lui è tra i fortunati. Adesso, percorriamo anche noi il camminamento tra le due file delle botti. La cantina occupa tutta un’ala del piano terreno della villa. L’altra, forse, sono granai, magazzini, antiche scuderie. Torniamo indietro e riusciamo in una galleria a volta, spesse mura di pietra e mattoni, che si apre su un cortiletto porticato, di fianco alla facciata principale. Qui, su un tavolo fratino, Baldini ha preparato grissini, prosciutto, rettangolini di , il locale formaggio artigiano. Bartolini siede al centro, Giacomini alla sua destra, io a sinistra. Siamo pronti a officiare. Comincia il regolare assaggio, come previsto. latteria Ecco il Tocai, ed ecco il Merlot del ’69. Non siamo assaggiatori di professione. E dunque, data l’ora mattutina, è solo normale che di più sui bianchi. Dopo il Tocai, beve, asciutto, amarognolo, proviamo il Müller-Thurgau, che proviene da un vitigno inventato, nel 1891, dallo studioso svizzero Hermann Müller-Thurgau. Si tratta di un incrocio di Riesling (renano, naturalmente) e di Sylvaner: non una mescolanza di vini o di uve, e nemmeno di un innesto, ma di un vero e proprio incrocio nel fiore. Italo Cosmo ne consiglia l’adozione soltanto per le provincie di Bolzano e di Trento, e particolarmente per le zone collinari più elevate: dai 500 ai 700 metri. Qui siamo in Friuli, sulle prime colline che sporgono sulla pianura, tra il Natisone e il Torre. Altitudine, al massimo 300 metri. Tuttavia, questo Müller-Thurgau è deliziosissimo. stiamo Profumo aromatico, molto intenso, quasi dolce. E il sapore... In proposito, devo lasciare la parola a Giacomini: nel volto barbuto e acceso, da giovane Sileno, improvvisamente gli occhi brillano diabolicamente, anche lui è friulano. “La scoperta del sapore del Müller-Thurgau, almeno di Müller-Thurgau, procede gradualmente: e cioè attraversa tre stadi distinti. In principio, senti il sapore del profumo: lo stesso identico. Poi, schiacciando la lingua sul palato, senti un che di amarognolo, come un’idea di mandorla. Infine, il retrogusto: secchissimo e leggermente salato.” questo Interviene Baldini: “È un vino che può anche invecchiare qualche anno,” dice, “ma che, normalmente, va consumato giovane, di un anno o due. Il profumo, è il terreno che lo dà: i sali di potassio.” Ci toccano, ora, i rossi: il Merlot, il Cabernet, e uno strano Tazzalenga, ossia “taglialingua”: scuro, di corpo, un po’ aspro, che può invecchiare anche dieci anni, e che somiglia a un Cabernet o Baldini dice che, prima, mescolava le uve del Tazzalenga a quelle del Merlot o del Cabernet, ora le pigia isolandole. Non posso dare un giudizio. Forse è un vino che, per gustarlo davvero, bisognerebbe berlo a tutto pasto. Ricorda il Terrano, azzardo. Baldini sostiene che non è Terrano, e che si tratta di un vitigno tutto particolare. Infiniti misteri del vino. più crudo meno rotondo. Ottimo il Picolìt delle zitelle di Buttrio, ma non è vero Picolìt. Il fantasma del vero Picolìt in un trattatello settecentesco. Da ultimo, proviamo un Picolìt. Sull’etichetta, bellissima, c’è scritto: “Amministrazione Casa Secolare Zitelle, Buttrio (Udine)”. È un dono, per noi, di Gino Michelutti, sindaco di Buttrio. Finalmente! esclamo appressando le labbra e l’anima al bicchiere. Ma Bartolini, solenne, mi avverte che non si tratta di vero Picolìt. E così, benché mi paia eccellente, spiritoso, dolce ma variegato di una certa amarognola asciuttezza, non sto a parlarne. Peccato, perché proprio questa era, un tempo, zona classica del Picolìt. Baldini ci mostra un prezioso taccuino, stretto e lungo, pagine avorio ingiallito, rugose, quasi crespe, vergate a mano con la naturale eleganza grafica dell’epoca, e intitolate: “ / de’ vari metodi usati nel fare / il Picolìt di Buri / cominciando / dall’ / / 1775”. Buri è l’antico nome di Buttrio. Segue un elenco di trentadue , cioè barili, ciascuno dei quali col suo numero, la sua capacità e il suo nome: Perù, Pekin, Brest, Setuval, la Belle Poule, Franklin, Voltaire, Rousseau... E un sottotitolo: “Osservazioni / sopra il Picolìt fatto / in Buri / da me Antonio Bartolini cav.re”. Un altro Bartolini, dunque, e cavaliere. DESCRIZIONE ANNO carateli Pagina per pagina, anno per anno, caratelo per caratelo, cominciando il 22 ottobre del 1775, e finendo il 14 ottobre 1780, Bartolini racconta minutamente e chiarissimamente come sia andata la vendemmia, quale intanto fosse il clima, il vento, il sole, e quali accorgimenti, ogni volta sempre leggermente diversi, abbia usato: quanti giorni abbia lasciato appese le uve; come abbia sgranellato i grappoli, eliminando più o meno gli acini ammuffiti; e come sia avvenuta la pigiatura, usando, secondo i casi, e a volte alternando, i piedi, le mani, il torchio; e quanto tempo il mosto sia rimasto nel tino, e poi travasato nel caratelo, e quanto tempo il caratelo in cantina, e poi trasportato nel granaio, perché prendesse più aria: e qui i giorni per l’evaporazione attraverso il foro del cocchiume, e le giornaliere colmature con altro Picolìt da altri calateli per far uscire le feccie galleggianti; e i successivi travasi; e l’assaggio e il giudizio finale. La raffinatezza delle osservazioni e dei procedimenti del cav. Bartolini permette di ipotizzare un vino che noi neanche ci sogniamo: soprattutto se teniamo conto del fatto che la terra, l’aria, le varie materie e i vari attrezzi messi a contatto con le uve e col vino erano, allora, indenni da qualsiasi velenosa alterazione. Anche se, infatti, un visionario, dotato dei mezzi necessari a realizzare la sua visione, volesse, oggi, sulla guida del taccuino del Bartolini, riprodurre il vero Picolìt del ’700, si può stare tranquillissimi che il sapore non sarebbe più quello. Dobbiamo contentarci di fantasticare: e di sperare che un giorno non lontano l’umanità intera si accorga della propria decadenza e si decida, perché no? a un secondo e diverso Rinascimento. Nell’angolo estremo delle Colline Orientali, “girano nel sole” le vigne del Picolìt. I grappoli rachitici. Dalla biologia vegetale alla psicologia umana: il Picolìt e Baudelaire. L’Abbazia di Rosazzo e gli “avversi numi”. Mentre viaggiamo da Buttrio verso Rosazzo e la sua Abbazia, Bartolini, Elio, quello ben vivo e ben moderno anche per la sincerità e la drammaticità delle contraddizioni, mi spiega che in Friuli si fa davvero “un gran vino” soltanto lungo un arco di colline prealpine relativamente breve e diviso in due successivi tratti: il primo va da nord a sud, da Tarcento a Faedis e a Cividale, fino a Rosazzo, a Prepotto, fino allo Judrio, ed è la cosiddetta zona delle Colline Orientali; il secondo va da ovest a est, dallo Judrio fino all’Isonzo, ed è la cosiddetta zona del Collio. Visiteremo oggi l’angolo estremo e più puro, meno famoso e, soprattutto, meno sfruttato, delle Colline Orientali. Domani sarà la volta del Collio: dove, però, i produttori di vino saranno così numerosi e organizzati che non avremo più bisogno della gentile guida dei nostri due amici udinesi. Rosazzo. In rapida salita voltando e rivoltando, entriamo in un paesaggio che assomiglia, per il naturale suo orientamento, a quello di Lessona di Masserano di Gattinara in Piemonte, di Montevecchia in Lombardia, della Valpolicella e di Soave nel Veneto: e, cioè, colline con le spalle a nord, ai monti, e con la faccia a sud, alla pianura: ma con due fondamentali differenze. La prima, la più importante: che, in fondo a questa pianura, e a soli venti chilometri o poco più in linea d’aria, c’è il mare, con il suo potentissimo afflusso di correnti calde e di raddoppio solare, da maggio a ottobre. La seconda: che la morfologia di queste colline è straordinariamente anziché : è complessa, morbida, modellata, tutta a dolci protuberanze e dolci insenature, convessità e concavità, conche e mamme. Vediamo, qui, ammirando, le vigne continuamente Le loro terrazze, erbose e spaziose, una sull’altra come ampli e molli inviti di immani scalee, le vediamo disegnare continui e perfetti semicerchi, offrendosi al mezzogiorno oppure accogliendolo, secondo che, lungo le sue sinuosità, la sezione della collina si protenda o rientri. plastica rigida girare nel sole. E sono, fra queste, anche vigne del Picolìt, alternate a vigne di altri vitigni, per la fecondazione, come sappiamo. Picolìt: vigne rare di grappoli: e grappoli rari di acini. Si pensa, istintivamente, a qualche malattia che li abbia decimati. Ne spicco alcuni. Li trovo di una dolcezza meravigliosa, superiore a quella del moscato, perché, misteriosamente, niente affatto stucchevole. Una dolcezza, come dire? più consistente, più seria: piena di fragranze, pera pesca prugna mandorla, tutte commiste e amalgamate. Italo Cosmo e il suo maestro Giovanni Dalmasso studiarono a fondo questo strano vitigno. Quanto so in proposito, l’ho imparato da loro. Non c’è dubbio che nel secolo XVIII il Picolìt fosse famosissimo, e che figurasse sulle mense regali di tutta Europa. Non possiamo, però, stupirci che la sua coltivazione “non abbia mai avuto un grande sviluppo”: e che oggi il Picolìt sia, come dice il Cosmo, “un nobile decaduto”. Le cause vanno ricercate nella sua fruttificazione, così “avara”, e nella strana sterilità del suo “aborto fiorale”: e nel conseguente difetto dei grappoli, difetto che scientificamente si chiama “colatura”. Del resto, abbiamo visto nel taccuino del cavalier Bartolini quante cure delicate, e quanti successivi accorgimenti richiedesse già nel ’700 la vinificazione di questo prodigio. Personalmente, aggiungerò un’osservazione. Gustando quei pochi acini di Picolìt, mi viene un sospetto: che il loro sapore squisito e unico sia collegato, in qualche modo, alla povertà, alla gracilità, all’aspetto rachitico del grappolo: diciamo alla sua costituzionale malformazione. Così, tra i migliori vini che trovai in Toscana, ricordo quello del Calcione, a Lucignano: dove, allora, mi stupii al vedere vigne tanto malconcie e macilente, che le credei E se è lecito dalla biologia vegetale passare a quella umana, ricordo la celebre frase di Baudelaire: “Mes humiliations ont été des grâces de Dieu.” Il paragone non sembri illecito né empio. Allo stesso modo che molte volte (o forse tutte: pensiamo al Leopardi, a Villon, a Whitman, a Poe) diventa grande poeta un uomo psicologicamente e fisiologicamente malato, tarato, così un vino eccezionale, prelibatissimo, proviene da un vitigno anomalo e difettoso. tempestate. Incorniciata dai tralci del Picolìt, mi sono incantato a guardare, sull’orlo più alto del colle, una casa bianca e lunga, dalle finestre piccole, regolari, e un campanile che spunta a lato, di là dai tetti rossobruni. Si affaccia al mezzogiorno, si distende tranquilla sul complicato, ma morbido diramarsi delle vallette e dei poggi ricciuti di vigne, che le discendono intorno: è l’Abbazia di Rosazzo, residenza estiva, riposo antico degli Arcivescovi di Udine o dei Patriarchi di Aquileia. Mi dice Elio Bartolini, e mi aveva detto Gino Veronelli, che il genio di questa dimora che ammiro, di umanissima perfezione, era, fino a poco tempo fa, Luigi Nadalutti, vicario del vescovo, meglio noto col semplice nome di Don Luigi, persona straordinariamente vivace, originale, simpatica, e appassionato vinificatore, anche di Picolìt. Fino a poco tempo fa: perché oggi, in seguito a grave incidente, si trova all’ospedale, e non si sa quando potrà tornare alla sua Abbazia e alle sue vigne. La casa bianca è chiusa, adesso. Salito il colle, giriamo intorno, e ci affacciamo un momento al cortiletto deserto e silenzioso: ombra, malinconia, abbandono. Sento gli avversi numi e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta... Così mormoro tra me, istintivamente. Non ho conosciuto Don Luigi, ignoro se la citazione foscoliana si adatti. Ma l’avversità dei numi, quante volte, appunto, è segno di nobiltà e di vitalità. Perciò, caro e ignoto maestro, le faccio ogni augurio: ... e prego anch’io nel tuo porto quiete. Colazione con il signor Furlàn. Epifania del Picolìt, seguita da una rustica “tornata” accademica sul suo colore, profumo e sapore. Un vino “amaro, serio, gotico”. Ci rifugiamo nella vicina osteria, alla base della collina che, cento passi più in là, ricomincia a salire, vestita anch’essa di vigne, verso il cielo. E il posto, forse, è ancora più bello della stessa Abbazia. Perché l’osteria è come un balcone che sporge sul mantello verde di valli e poggi e delle loro dolcissime pieghe: ma la pianura si stende dinnanzi; in fondo s’indovina la luce e l’aria dell’Adriatico; e il vicino promontorio su cui spicca l’Abbazia forma una grande quinta, scura per il controluce, dando risalto e straordinaria prospettiva a tutto il paesaggio. Ci guida il signor Furlàn, che ha cascina e vigne poco sotto: nella stanzetta dell’osteria ha fatto preparare la colazione. I doppi vetri delle due finestre (civiltà mitteleuropea dei doppi vetri! penso ai venti invernali!) sono aperti, nel sole, al paesaggio suddetto. Come aperitivo, bevo per la prima volta nella mia vita la Ribolla (in slavo, Rebùla), vino bianco di color paglia con riflessi verdolini, leggerissimo sia di alcool sia di corpo, un po’ acidulo e senza pretese, ma vino che, proprio per questo, a volte può tornare gradevole: era noto con altri nomi, Rabiola, Rainfald, fino dal Medioevo (Cosmo). E adesso ricordo Marisa, la gentile giovinetta, snella, ridente, che rapida, dopo averci provveduto, al nostro ingresso, di un bottiglione di Ribolla, rapida ci ammannisce il cibo. Ricordo il menu, copioso e gagliardo: prosciutto, goulash con patate, polenta, fagiano del posto, insalata di radicchio e fagioli, formaggi di latteria. Oltre la Ribolla, ricordo il Tocai, la Malvasia, il Merlot. Ma ricordo tutto questo molto confusamente: la bottiglia di Picolìt, che il signor Furlàn ha portato e ci offre, cancella, sovrana, ogni altra sensazione. Non senza una certa solennità, sul finire della colazione, improvvisiamo tra di noi una rustica accademia di inesperti: procediamo concordi a un collegiale giudizio organolettico sul Picolìt: per essere esatti, su questa bottiglia di Picolìt. Discutiamo a lungo. Furlàn, Giacomini e mio figlio sono per “giallo dorato”. Bartolini, Bòccoli e io siamo per “giallo topazio”. Il Cosmo, nella monografia 43 del secondo volume sui vitigni italiani, dice: “paglierino carico”. Come si fa a decidere? E poi, ripeto, si tratta di Picolìt, e di bottiglia! Tengo duro sul “topazio”: ma potrebbe anche darsi che io sia suggestionato dal riferimento a una pietra preziosa, poiché prezioso è il vino di cui si tratta. – Il colore. questo questa Il Cosmo dice: “delicatamente profumato”, e niente altro. Noi abbiamo discusso per un quarto d’ora: mi spiace di non avere avuto un registratore, mi è impossibile ricordare, adesso, tutti i profumi che ognuno di noi ha evocato, mentre, assorto, a occhi chiusi, fiutava il suo bicchiere, girandolo e rigirandolo tra le dita, in uno spasimo di memoria. Il primo profumo che si avverte sembra, dunque, “di noce”. Tutti e sei siamo d’accordo. E Furlàn conferma che questo, appunto e inconfondibilmente, è il profumo classico del Picolìt. Ma poi, subito, e insieme al profumo di noce, avvertiamo quella particolare fragranza che proviene dalla decisa formazione di un “estere”, e cioè dalla combinazione di un alcool con un acido: freschezza, in questo caso, inebriante e che ricorda la gardenia, la datura, la zàgara, il bergamotto. – Il profumo. Torniamo ancora al Cosmo: “alcoolico, talora quasi secco, ma spesso anche amabile o dolce, armonico e gradevolissimo, da poter gareggiare con i migliori vini da dessert oggi conosciuti”. E il nostro piccolo collegio decreta che si possono registrare successivamente i seguenti sapori: 1. dolce, un dolce di mela e di miele; 2. dal miele si passa, di nuovo, alla noce; 3. un sapore finale lievemente amarognolo, come di mandorla, o, più precisamente, di quella mandorla che si trova nell’interno del nocciolo della pesca, e che, se non sbaglio, è dato dall’ , dato che il nome latino della pianta del pesco è Ricordo che, quando ero bambino, amavo moltissimo spaccare i noccioli di pesca per gustare la mandorla; e che i miei vecchi mi ammonivano di non esagerare: perché quell’acido, che loro chiamavano addirittura , in grande quantità poteva risultare velenoso. Sono certo, ora, che l’ultimissimo sapore del Picolìt si identifica con quel gusto antico, intenso, robusto, mordente e delizioso. – Il sapore. acido persico Prunus persica. prussico Liquoroso ma anche, e stranamente, oleoso. E questa, forse, costituisce la più marcata differenza col Château Yquem, il celebre vino francese a cui il Picolìt, come ho detto, viene paragonato. Per questa oleosità, che manca allo Château Yquem, e per una maggiore forza e maggiore asciuttezza, il Picolìt, a differenza dell’Yquem, può essere bevuto non soltanto come vino da dessert, ma anche, e vorrei dire soprattutto, con i formaggi, specialmente formaggi piccanti tipo Stilton, Roquefort, Gorgonzola, Castelmagno, vecchio Danish Blue. – Il corpo. È stato Elio Bartolini a dire che giudicare davvero un vino è un fatto, uno sforzo di memoria: ed è Bartolini, adesso, che, agli estremi sorsi, conclude: “In fondo in fondo, chissà, anche un sapore di... pera Williams. In fondo, il Picolìt è amaro, serio, gotico.” Nel grigioperla della Slavia. Incanto delle frontiere e apologia della bicittadinanza. La casa in frontiera di Gradimiro Gradnik. Davanti al Sabotino, nel più pacifico angolo dell’Europa. Il giorno dopo, affrontiamo il Collio. Andiamo subito a Plessiva, pochi metri dalla frontiera jugoslava. Già attraversando Cormòns (che scrivo con l’accento per avvertire che si pronuncia e si deve pronunciare così) la tinta quasi uniforme dell’intonaco delle case allude al colore classico slavo: lo stesso colore, perfino, delle navi sovietiche: un grigio malinconico e luminoso, un grigioperla. C’è un incanto che appartiene a tutte le frontiere, e risponde a quella commozione irrazionale, viscerale, che non può non provare, al cospetto di ogni frontiera, chiunque ami davvero la libertà. Sappiamo benissimo che, se passiamo , troveremo un altro ordine, un altro sistema di complesse organizzazioni politiche e sociali, un altro conformismo e un’altra burocrazia; sappiamo, insomma, che questo “altro” paese significa un’autorità più forte o più debole, più giusta, o meno giusta, della nostra, in ogni caso, sempre, un’autorità... Ma ciò che ci commuove e sconvolge regolarmente e gioiosamente quando passiamo il confine o anche soltanto quando ci avviciniamo al confine, è la sensazione di “cambiare” o anche soltanto di “poter cambiare”. Cambiare, infatti, vuol dire qualcosa di più che “sottomettersi a un nuovo tipo di autorità”: vuol dire liberarsi da un tipo di autorità a cui, fino a un momento prima, eravamo sottomessi. L’impagabile sensazione di libertà che proviamo, sia pure parziale e passeggera, non è, quindi, tutta illusoria. dall’altra parte Felici le persone che vivono presso i confini di Stato, da una parte o dall’altra! e che, in possesso della cosiddetta , possono liberamente andare avanti e indietro tutte le volte che vogliono, anche nella stessa giornata; che hanno una parte della propria famiglia di qua, e di là un’altra parte! Felici e privilegiate: in tempo di pace, si capisce, in tempo di pace tra le due nazioni! carta di frontiera Appartenere a due padroni, due strutture, due organismi, ciascuno dei quali riconosca e rispetti il tuo diritto e il tuo dovere di appartenere, in qualche modo e nello stesso tempo, anche all’altro, ti garantisce, forse, una libertà più grande e più piena di quella che ti garantirebbe l’appartenere a uno solo dei due, anche se questo è il più democratico, il più civile, il più umano. Nel quotidiano moto pendolare tra l’uno e l’altro dei due Stati tra di loro confinanti, l’individualità umana prende coscienza di sé, si esalta, esplode. Ciascuno di codesti fortunati si sente maggiormente se medesimo. Ed ecco perché, sebbene io mi sappia, dalla nascita e per costituzione, contrario a tutte le frontiere e di qualsiasi specie, benedico le frontiere per la gioia che si prova a superarle e, se necessario, ad infrangerle: gioia che non si proverebbe se non esistessero. Il signor Gradimiro Gradnik, che ha una piccola azienda vitivinicola proprio sul confine di Plessiva, appartiene naturalmente alla categoria dei fortunati. La sua casa è l’ultima prima della frontiera, e la sua fortuna è somma perché si tratta di una delle più belle, delle più poetiche frontiere che io abbia mai visto e che, penso, si possano vedere. Dicevamo che c’è un incanto in tutte le frontiere: ma l’incanto di Plessiva va diritto al cuore. Qui non veri uffici di dogana, né dalla parte italiana né dalla parte jugoslava: due baracchette, e basta. Grandi mezzi di comunicazione, merci, bagagli, camion e pullman qui non possono transitare. Plessiva è un semplice valico confinario, per turisti troppo distratti o molto intelligenti, e per le piccole faccende felici della gente del posto: i privilegiati, invidiabili pendolari della libertà. E anche la natura, qui, suggerisce beatitudine. La strada del valico è in cresta, su una collina: a occidente i brevi avvallamenti che scendono verso lo Judrio, a oriente quelli più lunghi e più vasti che raggiungono l’Isonzo. Oltre ai primi, di là dallo Judrio, in mezzo alle colline, riconosco la bianca Abbazia di Rosazzo, dove eravamo il giorno prima. Oltre ai secondi, nella pianura, in una leggera nebbia, le case e i tetti di Gorizia. Intorno, vicino e lontano, dovunque: vigne, boschi, frutteti. E, verso oriente e verso nord, colli più alti ma egualmente verdi ed egualmente dolcissimi, sebbene i loro nomi risuonino, per gli italiani della mia generazione, così tristemente: ma sì, quello è il Sabotino, e quello è il Vodice, quello è Plava, e quello è Monte Santo. E il grande mammellone che chiude il primo orizzonte è l’altipiano della Bainsizza. Più in là ancora, più alto e, per la lontananza, più grigio e meno verde, l’altipiano della Tarnova: Trnovski Gozd. Guardo, osservo, scruto attentamente, se queste colline gonfie di verde, questi dossi coltivati, lavorati, ricchi di frutta e di messi, rivelino, in qualche loro piega, in qualche anfrattuosità o in qualche colore non perfettamente naturali, ancora un segno dell’antico strazio. Ricordo: l’ultima volta che passai di qui fu nel 1931; quarant’anni or sono: erano soltanto dodici dopo la fine della Grande Guerra: già il verde ricopriva i pendii, ma era possibile discernere, un po’ dovunque, come cicatrici sul volto di un vecchio, le tracce delle trincee, dei camminamenti, degli squarci provocati dalle bombe e dalle granate. Oh, la terra si rinnova molto più rapidamente di un corpo umano. Oggi, più nulla. Chi non sappia, crederà di trovarsi nel più idillico, nel più soave, nel più pacifico angolo d’Europa... E mi viene in mente che, forse, sia sempre e dovunque così. Dovunque noi passiamo e restiamo, dovunque ammiriamo la pace della natura abitata e coltivata dall’umanità, là, in altro tempo, magari lontanissimo, e magari ignorato dalle istorie, quella medesima natura fu sconvolta da qualche grande e misterioso sacrificio, intrisa dal sangue dei nostri simili: Se tu vens cassù tas cretis là che lor mi àn soterât, a l’è un splaz plen di stelutis, dal mio sanc l’è stât bagnàt. Così dice una canzone di queste terre: “stelutis alpinis”: ma l’immagine evoca anche uno spiazzo del firmamento, nella pace di una notte estiva: e forse il mistero delle guerre, nella sua atrocità, non si spiega altrimenti che con una legge cosmica. Nell’abitazione e nelle cantine di Gradimiro Gradnik: ricognizioni e assaggi. Un meraviglioso trucco per meglio fiutare il vino. Tra i bianchi d’Italia do la palma ai vini del Collio. La casa di Gradimiro Gradnik è di fianco alla strada, e quindi, anch’essa, è sul ciglio del colle. Antica fortezza o convento, si affaccia alla valle dell’Isonzo, a sud-est. Racchiude un cortiletto ombroso, dove giganteggia, al centro, una formidabile quercia. Ma, tutto intorno, forse a correggere in qualche modo l’ombra, il grigiore, e cotesta impressione di fortilizio, sono, sui davanzali delle finestre, sui gradini delle scale di pietra, di fianco ad ogni porta, serie pressoché ininterrotte di vasi fioriti: gerani, dalie, fucsie, zinnie, margherite, una profusione di vividissimi colori. Qui l’abitazione di Gradnik, qui le cantine. L’azienda mi appare subito come un optimum: né troppo esigua da non giustificare l’investimento necessario ai più accurati e pazienti accorgimenti tecnici, né troppo vasta da far temere gli eccessi di tale tecnica, inevitabile quando la produzione superi, mettiamo, un centinaio di migliaia di ettolitri. Poiché Gradnik “fa tutto da sé”. È proprietario: le vigne da cui ricava il suo vino sono tutte qui intorno, e sono tutte “sue”. Ed è l’enologo, l’enotecnico, il direttore commerciale, il contabile, l’operaio. Gli avventizi di cui si giova nei giorni di vendemmia e di vinificazione, o dei necessari lavori in vigna, li conta sulle dita di una mano. Alto, atletico, robusto, ancor giovane: si presenta come di modi bruschi e, sul principio, diffidenti e scontrosi. Poi, si scopre allegro, cordiale, amicone. Da ultimo, non abbiamo dubbi che sia particolarmente astuto, sottile, perfino raffinato. Dopo averci condotto in una delle cantine, ad assaggiare i vini nuovi (il ’70, dice, sarà ricordato anche qui come un’annata eccezionalissima, sublime) e i vini dell’anno precedente, ci invita nel modesto, antico tinello che gli serve da ufficio. Una stanzuccia terrena. Una finestrella sull’orto, guarnita di tendine ricamate. Alle pareti, sotto vetro, e in bell’ordine, i diplomi e le medaglie ottenuti alle esposizioni vinicole: a Vienna e a Zagabria, a Firenze e a Milano. E vecchie fotografie di famiglia. Non manca un giovane ufficiale con feluca piumata, mostrine gialle, pantaloni celeste, redingote nera, l’ottocentesca divisa dell’Impero austroungarico: volto austero, aggressivi appuntiti mustacchi. Sediamo intorno alla tavola centrale, che subito si ricopre di bottiglie e di bicchieri. “Mio zio” dice intanto Gradnik “è famoso in Jugoslavia. Magistrato e poeta di lingua slovena. Luigi Gradnik. È morto tre anni fa. Proprio domani, qui a Medana, a un chilometro dal confine, si inaugura un museo nazionale nell’interno della sua casa natia, che è poi la casa dove ancora oggi abitano mio padre, che è suo fratello, e mia madre. Mia nonna, la madre del poeta, era di Mariano nel Friuli, una Godeas. Se lei vuol venire domani alla festa dell’inaugurazione, mi farà un grande piacere. Vi saranno autorità e personalità, di Nova Gòriza e di Lubiana.” Accetto con entusiasmo. Intanto, comincia la battaglia. Una dopo l’altra, Gradnik stappa le bottiglie che sono sulla tavola, e riempie i bicchieri, commentando ciascun vino. – Il vitigno, dice Gradnik, è, in qualche modo, parente del Tocai. Perfino la pianta è difficile da riconoscere. La si distingue da quella del Tocai soprattutto dalle foglie, che, sotto, sono più ruvide: e poi dalla forma dei grappoli, che nel Tocai sono triangolari, e nel Sauvignon cilindrici. Colore giallo dorato chiaro. Sapore “asciutto, caldo, di corpo, vellutato, talvolta un po’ molle...” così lo definisce il Cosmo: e non posso non dargli ragione: salvo la mollezza, che, nel caso presente, del Sauvignon di Gradnik, chiamerei piuttosto leggerezza, delicatezza: caratteri straordinari dato che il grado alcoolico è altissimo: addirittura 14. Il Sauvignon. – Gradi 13,6. Gradnik ne definisce il gusto con sorprendente esattezza: gusto asciutto, quasi di pomodoro, e lievemente caramellato. È la prima volta che mi capita di udire, da un tecnico del vino, una definizione così diversa dagli ordinari aggettivi. “E sa perché i vini del Collio sono così alcoolici, così gustosi, così di classe? Per la posizione del terreno, naturalmente: difeso dai venti del nord, e aperto al calore del mare. Ma anche per un’altra ragione. Tutte queste colline, devastate dalla guerra del ’15-18, sono poi rimaste incolte per molti e molti anni. Alcuni vigneti sono stati ripiantati soltanto adesso, dopo di allora. Così la terra è, di nuovo, ricchissima di tutti i suoi sali, di tutte le naturali sostanze minerali...” Il Pinot Bianco. – Il più alcoolico di tutti: 14,5. Vino eccezionale, da antipasto, da pesce robusto, da formaggi piccanti e da dessert. Ha, e deve avere normalmente, come questo di Gradnik, un colore dorato con riflessi rosati, o piuttosto di un leggero color mattone. A parte il Picolìt, troppo raro perché si possa pensare a una consumazione abituale, non esiste, fra i vini del Friuli e del Collio, niente di più squisito. Un Pinot Grigio autentico e buono, come questo di Gradnik, è, senza dubbio alcuno, una vetta della vinicoltura italiana: da mettersi a fianco di certi Baroli, Barbareschi e Gattinara. Nella categoria dei bianchi che è insuperabile, e direi anche che è la versione abbordabile, seppur decisamente più verso l’amarognolo, dell’introvabile e inesistente Picolìt. Il Pinot Grigio. – 14 gradi. Rubino chiaro quando è giovane, può invecchiare benissimo di qualche anno, e allora cambia colore: diventa rosso mattone, o anche più scuro. Profumato, sapido, amarognolo, gradevolissimo. Specialmente invecchiando, è un gran vino da pasto e da carni arrostite. Il Pinot Nero. A metà dell’assaggio, Gradnik chiede licenza di allontanarsi per un quarto d’ora: deve scendere verso Cormòns per telefonare. E anche questa mancanza del telefono mi seduce: l’ho constatata, nei miei viaggi del vino, solo un’altra volta: dai Biondi-Santi di Montalcino, i produttori del sublime Brunello. Non dico che sia sufficiente riprova dell’eccellenza di un vino, non dico che si tratti di una caratteristica reversibile. Ma ben difficilmente un’azienda vinicola non seria, non sicura del suo prodotto, e bisognosa e vogliosa di procacciarsi indiscriminata pubblicità, potrebbe rinunciare al telefono! In assenza di Gradnik, facciamo la conoscenza di sua moglie. Romana Gradnik: prosperosa, piacente, vivacissima, di una simpatia immediata e travolgente, e dall’aspetto giovane, sebbene sia madre di due ragazze già grandi: una donna, insomma, che ben si accorda con l’atmosfera della casa: che è patriarcale, rustica, ma insieme moderna, concretamente signorile, libera e gaia: di quella libertà e di quella gaiezza particolari, esplosive, che forse fioriscono soltanto nelle felici e invidiabili condizioni di vita che ho detto, sul confine di due Stati. Torna Gradimiro e, prima che finisca il prolungatissimo, e ormai inebriante assaggio, mi insegna un meraviglioso trucco per meglio fiutare il vino. Consiste, questo trucco, nel passare lentamente, più lentamente che si può, il bicchiere sul naso: strisciandolo contro il setto a partire dalla fronte e scendendo, Sempre lentissimamente, fino a che l’orlo del bicchiere raggiunga la punta: continuare, allora, con la stessa lentezza, contornare la punta e strisciare lungo le narici fino a incontrare l’ostacolo del labbro superiore: fermarsi qui, e fiutare. Ma fiutare, sempre, senza nessun particolare sforzo: senza aspirare intensamente né, in nessun modo, diversamente dal normale. Lasciare, dal primo all’ultimo momento dell’operazione, che il profumo del vino salga per sua natura nelle narici. Provare per credere. L’effetto è miracoloso, e il miracolo ha due spiegazioni: una, psicologica, consistente nella concentrazione che si ottiene, al contatto liscio e fresco del vetro contro il naso, con così lungo tempo dedicato allo strisciamento contro il setto nasale; l’altra, fisiologica, consistente nella dilatazione nervosa con cui le papille olfattive, all’interno delle narici, reagiscono a quel contatto dall’esterno e si preparano a registrare un profumo, che non percepiscono ancora e che poi accolgono di botto, durante la frazione di secondo che l’orlo del bicchiere, contornando la punta del naso, avanza sotto di loro. Il profumo, così, arrivando alle papille improvvisamente, sarà giudicato, nelle sue caratteristiche, con una precisione ignota ad ogni altro sistema: avvicinando, infatti, il bicchiere al naso normalmente, trasferendolo attraverso lo spazio necessario a sollevarlo dal tavolo, anche il profumo si avvicina normalmente e cioè gradualmente, si disperde prima nell’aria, si confonde con altri eventuali aromi nell’aria vaganti, giunge meno subitaneo e meno definibile. Nel pomeriggio, dopo il ristoro di una colazione strettamente urgente per dissipare i vapori dei vari vini, Gradnik ci conduce alla visita di alcune delle principali aziende del Collio, da alcuni colleghi vinificatori, che lui stesso, senza dirci nulla, aveva provveduto ad avvertire quando si era assentato per telefonare: fulminea, spontanea perfetta organizzazione, di cui Bòccoli e io gli siamo ancora grati. Andiamo da Vecchiet; andiamo alla Roncada; e da Stavro Santarosa, antico signore e allevatore di cavalli da corsa, oltre che serissimo produttore di vini. Andiamo a Lucinico, da Douglas Attems, altro gentiluomo e, nel suo vino, più che gentiluomo, galantuomo. Andiamo a Capriva, a Villa Russiz, Istituto Orfane di Guerra A. Cerrutti, dove il professor Matteo Marsano, di Gorizia, ci riceve e ci somministra, in gentile assaggio, sette tipi diversi di vino: Tocai del Collio, Pinot Bianco, Grigio e Nero, Sauvignon, Riesling e Merlot, la squisitezza certissima dei quali non sono, purtroppo, in grado di apprezzare personalmente, dopo la maratona mattutina nel tinello di Gradnik. Ma li ho provati giorni dopo, e a più riprese, tutti. E se dovessi, in un’ipotetica gara riservata ai soli vini bianchi, premiare una regione d’Italia, e se avessi a disposizione un solo premio, non potrei esitare: non potrei non decretarlo al Friuli, per i vini del Collio. E l’indomani è domenica 18 ottobre. Torniamo a Plessiva. Gradimiro Gradnik è lì che ci attende, con la sua macchina. Aria fina e leggera dell’autunno sul Collio, incontro e mescolanza delle opposte brezze che scendono dalle Alpi e che salgono dall’Adriatico. Cielo sereno. Non una nuvola. E sole bruciante, quello stesso che finisce di rosolare sulle vigne gli ultimi grappoli di Picolìt. Salgo nella macchina di Gradnik. Bòccoli e mio figlio seguono con la Citroën. Partiamo per Medana, dove s’inaugura ufficialmente il museo del poeta, lo zio di Gradimiro. Medana è , ma dista poco più di un chilometro. Era, una volta, il capoluogo di Plessiva. Si diceva: “Plessiva di Medana”. di là Alla baracca della dogana jugoslava, un’ufficialessa in divisa ammette senz’altro che mio figlio passi con le sue macchine fotografiche: ma, garbata e irremovibile, dice no all’apparecchiatura vistosa e complicata dei flash elettronici e al piccolo generatore di corrente. Per fortuna, c’è la casa di Gradnik: le due auto, con Gradnik, mio figlio e Bòccoli, tornano indietro a scaricare il materiale proibito. Io, intanto, a piedi, vado avanti: e passo così il confine: tranquillamente, beatamente, come un vero pendolare. Le prime due case jugoslave. Sono in pieno sole e in curva, sulla strada che sale. Un’agenzia turistica che volesse invogliare a visitare la Repubblica slovena con un cartellone pubblicitario, dovrebbe semplicemente far fotografare, da questo punto, in questa stagione e a quest’ora, le due casette. Una rosata e l’altra grigio-perla, quasi bianca. Rivestite di viti rampicanti fino al primo piano. E ornate, davanti, da vasi di gerani fioriti. Sono due vecchie case della prima metà del secolo scorso: deliziosamente proporzionate: con la facciata lievemente concava come per seguire e assecondare la strada, con i grandi tetti sporgenti, di colore rosso scuro: e con le finestre piccole, dai vetri a quadratini. Perché, uscendo dall’Italia, dobbiamo, tante volte, provare questo dolore, di vedere che rispettano il passato molto più di noi? Perché i nostri vicini hanno il buon gusto e il buon senso di non distruggere la bellezza, di non distruggerla inutilmente, come invece facciamo noi, solo partendo dalla stupida impressione che non sia più di moda? Possibile che il cosiddetto miracolo del consumismo italiano implichi fatalmente un’infatuazione così provinciale? Oppure, a salvare gli jugoslavi, è, appunto e soltanto, la minore prosperità economica: e un giorno, forse presto, appena staranno meglio, si vergogneranno anche loro di ogni vecchia, innocua, gentile apparenza, si affretteranno anche loro a sacrificare tutto sull’altare ignominioso della bruttezza superflua? gli altri Non saprei bene spiegare perché, ma sento che avrò maggiori probabilità di dare qualche risposta a questa domanda (se, cioè, il consumismo necessariamente corrompa le più belle tradizioni e degradi i più gentili costumi) solo quando avrò assaggiato in loco il vino sloveno. Le poche bottiglie che ho provato finora dal Provera in corso Magenta, né quello che mi inviò una volta in dono da Voghera l’amico Sernagiotto di Casavecchia, furono sufficienti a un giudizio. Insomma, il vino sloveno, com’è? Se, infatti, i nostri vicini si comportano col vino con la stessa pietas e con la stessa delicatezza che dimostrano alle vecchie cose, non potrà essere che sublime. La strada continua alta, in cresta, tra boschi, campi, vigneti, in vista delle colline di qua e di là dell’Isonzo, le dolci e invisibilmente dolenti cime dell’altra guerra. Ora, i miei compagni mi raggiungono e mi riprendono a bordo. Arriviamo subito a Medana. Sole, campane, colori dell’autunno, è la piccola folla di una festa paesana: non troppo diversa da una folla nostra, di una festa nostra, in un villaggio nostro, ma... cinquant’anni fa. Tutti, giovani e vecchi, donne e ragazze, in abiti scuri. Delle ragazze, nessuna in minigonna... Ho detto troppo presto: no, ce n’è una! Il tailleurino è rosso geranio, la sottana finisce un palmo al di sopra delle ginocchia. E lei è piccolina, ben fatta, capelli biondo paglia, occhi celesti e sorridenti: molto carina. In ogni caso, e a parte la biondina, osservando tanti amici sloveni tutti insieme, ciò che salta subito agli occhi come qualcosa di decisamente estraneo a noi, a noi di una volta come a noi di adesso, è il loro tono: contenuto, solenne, serio: la serietà conformistica, tra religiosa e burocratica, di una delle due anime slave. La casa del poeta è antica anche quella. Un solo piano oltre al pianterreno. Rustica e infiorata, come quelle che mi erano apparse al confine. E viene spontaneo il ricordo – più gounodiano, però, che non goetiano: La casa del poeta sta su un breve ripiano, proprio in cresta alla collina, e domina, a oriente, tutta la vallata dell’Isonzo e la conca di Gorizia. Per parecchi mesi, durante la famosa battaglia della Bainsizza, fu dimora e fu osservatorio del generalissimo Luigi Cadorna. Salve, dimora casta e pura. Sono trasformate in museo solo le prime due stanze terrene: cimeli, manoscritti, prime edizioni, fotografie e disegni raccolti con accurato garbo, e senza nessuno sfoggio retorico, in apposite bacheche. C’è anche, incorniciato, il diploma della laurea conseguita da Luigi Gradnik a Vienna nei primi anni del secolo, e la venerata firma del famoso Meyer-Lübke, il filologo maestro di tutti i maestri, continuamente citato anche da Matteo Bartoli. Il resto della casa è ancora l’abitazione della madre e del padre del nostro Gradimiro, rispettivamente cognata e fratello del poeta. Quando arriviamo, la cerimonia, è già iniziata, e qualcuno sta pronunciando un discorso. Per tornare indietro a depositare flash e generatore, siamo arrivati con un leggero ritardo: e questa è gente puntuale. La piccola lapide, murata accanto all’ingresso del museo, sotto un minuscolo pronao di pietra e di legno, è stata scoperta da pochi minuti. Dice testualmente: V TEJ HIŠI JE USTVARJAL DR ALOJZ GRADNIK 1882-1967 SLOVENSKI PESNIK e cioè: In questa casa visse e creò il dottor Luigi Gradnik, 1882-1967, poeta sloveno. Lì vicino, al centro dello spiazzo gremito dalla folla attenta e silenziosa, un bell’uomo sulla sessantina, chiuso dentro un buffo podio, è lui che pronuncia il discorso. Il podio è angusto, non sollevato da terra, drappeggiato coi colori jugoslavi e con la stella rossa; e lo chiude, gli arriva al petto. Il bell’uomo, a differenza di tutti i suoi ascoltatori, è vestito chiarissimo, un ricco tweed grigio perla con riflessi lillà. Ha lunghi capelli bianchi: alta, spaziosa fronte, occhi celesti scintillanti: e il volto di un rosso rame, che contrasta aggressivamente col colore della chioma e della giacca. Prima di sapere chi sia, lo scambio, a causa forse dell’impetuoso ritmo oratorio, per un incallito politicante. Mi dico che dev’essere qualcuno non troppo diverso, sebbene con più vigore e durezza, dai nostri “avvocati onorevoli” del Mezzogiorno. Ma, per uno straniero che non intende la lingua del paese dove è appena entrato, e specialmente se questo paese abbia un governo di tipo autoritario, tutto assume senz’altro un tono fortemente politico. Si tratta, invece, di Ciril Kosmač, scrittore e drammaturgo sloveno. Dopo Kosmač, ecco il sindaco di Nova Gòriza, Rudi Scimaz: giovane, roseo, magro, occhi spiritati. Su di lui, da come parla, non ho dubbi: è uno che crede nel socialismo misticamente. Dopo il sindaco, entra nel podio una maestra biondastra e slava: recita, a lungo, pateticamente, alcune poesie di Gradnik. Il nipote, accorgendosi che mi annoio, con pronta intelligenza mi conduce in casa, su per una scaletta di legno, a una cameretta, a una vecchia scrivania. Apre un tiretto, cava fuori un fascicolo dattiloscritto tutto accartocciato: poesie di Gradnik che l’autore stesso ha tradotto in italiano. Da una finestrella lì accanto continua a giungere di sotto la lamentosa voce, Seggo alla scrivania e comincio a leggere: non sono le medesime poesie che la maestra sta declamando, ma non importa: mi sembrano molto belle, e mi commuovono subito. La madre del poeta era italiana, era una Godeas di Mariano nel Friuli. E i versi dicevano dell’amore che il poeta aveva per questa terra e le sue antiche tradizioni: parlavano appunto della madre, dei campi, della natura, di amore e di morte... Mi riscuotono, a un tratto, gli applausi. La maestra aveva finito. Subito dopo, mentre sto per riprendere la lettura, odo, di sotto, un trepestio sommesso, un fitto sussurrio; poi, subito, uno strano silenzio: e, nel silenzio, all’improvviso, un coro di voci virili... come dice il Giusti? Era preghiera, e mi parea lamento, d’un suono grave, flebile, solenne... Vado alla finestrella, guardo giù. Quasi tutti alti, robusti, giovani, biondi, e tutti senza eccezione vestiti di nero e con cravattini a farfalla neri che suggerivano la curiosa idea di un coro di croupier, si erano disposti in cerchio, nello spiazzo davanti al podio, e cantavano. Ma come cantavano! Sentia nell’inno la dolcezza amara de’ canti uditi da fanciullo: il core che da voce domestica gl’impara ce li ripete i giorni del dolore: un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e d’amore, uno sgomento di lontano esilio... Dopo tre o quattro pezzi, canzoni popolari o inni classici con parole slovene ed eseguiti quasi senza intervallo tra l’uno e l’altro, i coristi si ritraggono dal cerchio, che avevano formato, e che subito è ricostituito da altri giovani, egualmente atletici ed egualmente vestiti di nero. Anche i subentranti hanno i cravattini a farfalla, ma questa volta il colore è bordò. I primi sono una società corale del posto, Medana. I secondi di un’altra società corale, di Nova Gòriza. Il concerto continua, senza mai perdere di vivezza né d’incanto, per un’ora e mezza; i due gruppi, ogni tanto, si alternano. Scendo; ed ora osservo da vicino quei volti estatici, ebbri dell’armonia che producono e in cui sono immersi. Mi affascinano specialmente le espressioni dei , che fisicamente, al solito, sono i più alti di statura: e che sembrano vibrare come canne d’organo. Ma la commozione e l’intimo turbamento che una voce di basso suscita in noi (soprattutto quando canta in coro ed è, così, spersonalizzata e quasi purificata) nascondono, forse, ben altro segreto: non è quella, mi chiedo, ? bassi la voce del padre E che cosa cantano? Oltre ai motivi nostalgici, lenti, quasi sacri, che sono la maggioranza, ricordo un inno burlesco, l’Inno della Rana, eseguito con perfetto sincronismo di brevi colpi di voci basse, che imitano i salti del batrace, e con un continuo pedale di voci tenorili, che imitano il gracidio. Ricordo il “Va pensiero” del , cantato in sloveno, e, a dir la verità, un po’ troppo rigidamente per il nostro gusto. Ricordo infine un bellissimo pot-pourri di Canzoni Friulane, eseguito forse in nostro onore, e cantato senza alcuno sforzo nel dialetto che è nostro, ma che, certo, in qualche modo, è anche loro. Nabucco a tempo I volti dei cantori, adesso che li guardo a uno a uno, non mi paiono troppo diversi da volti di nostri connazionali del Friuli e della Venezia Giulia. Qualcuno, se lo incontrassi altrove, mettiamo nel metrò di Milano, direi, giurerei, solo al vederlo, che è una grinta triestina. E, mentre ascolto, ricordo senza volerlo la geniale teoria del Cagnetta, secondo il quale la musica popolare può distinguersi in polifonica, ossia corale, e in monodica, la melodia di una voce sola. La monodia è sempre un po’ come un canto di prigioniero, prigioniero almeno della propria solitudine: la troviamo, infatti, nei paesi mediterranei, dove la dolcezza del clima e quella spontanea anarchia, che è mancanza di organizzazione e di vita fortemente associata, quasi per fatalità la favoriscono: pensiamo al flamenco, alla canzone napoletana, alla nenia araba. Il clima generale caldo, l’inesistenza di un inverno, fa sì che gli uomini provino meno il bisogno di stringersi assieme. La polifonia, invece, si trova nei paesi più freddi: dovunque, e naturalmente, sia più vigoroso il senso di una vita associata: pensiamo ai cori pirenaici ed alpini, ai cori germanici, sardi, abruzzesi. Si potrebbe dire che il coro popolare si forma solo là dove cade la neve. Ma che cosa c’entra, col vino, tutto questo? C’entra. È mezzogiorno. Tra lunghi applausi, ora il concerto ha termine. Fulmineamente, come per un irresistibile bisogno di libertà o come se si vergognassero di alcunché di ridicolo cui si credevano costretti, tutti i coristi si slacciano i cravattini, e li sostituiscono, altrettanto fulmineamente, con normali cravatte lunghe e a varie tinte. Conserva la farfalla solo il maestro: era lo stesso, per ambedue i cori, ed era una delle facce “triestine”. Perché conserva la farfalla? Mah. Forse perché è l’unico, fra tutti, non dilettante: l’unico che si senta, in qualche modo, obbligato da una rimunerata e dignitosa professione di musico. In ogni caso, con lo scioglimento dei cravattini, tutto si scioglie, tutto cambia. Tira di colpo un’altra aria. Esplode l’ Ed ecco, il vino comincia a circolare: o, almeno, ad occupare i pensieri di tutti, che dominerà, sovrano, fino a notte! altra anima slava. Dà l’esempio Ciril Kosmač, col quale, nel tinello dei Gradnik, trinco Tocai e Rebùla e subito faccio una grande amicizia. È una persona di simpatia travolgente: gli occhi gli sfavillano come zaffiri colpiti da un perpetuo sole: loquace, cordiale, affettuoso, spiritosissimo. Mio figlio, che durante i cori, dopo un iniziale entusiasmo, cominciava a intristirsi, ora è tutto preso da Kosmač, in un continuo divertimento, e non si staccherà più da lui per la giornata. Intanto, io esco sullo spiazzo col giovane parroco, che parla veneto spaccato, e gli chiedo di spiegarmi l’intestazione di una lunga, solenne, austrungarica lapide settecentesca, che avevo osservato, poco prima, incastrata nel muretto prospiciente la casa di Gradnik. Il parroco è roseo, biondo, occhialuto, anche lui simpaticissimo. Lo porto alla lapide. Non riesco a ricordare: che cosa significa quel Q.F.F.F.S.? Il parroco, colto in contropiede, lì per lì, annaspa. Ma, tosto, trionfa: “ ” La formula di rito con cui si accompagnava ogni menzione dell’autorità imperiale. Quod Felix Faustum Fortunatumque Sit! All’aria aperta, sotto il sole di mezzogiorno, il Tocai e la Rebùla, i bianchi secchi e freddi trangugiati a digiuno (non che in casa Gradnik non fosse offerta copiosa di formaggi e salumi, ma me ne ero astenuto) cominciano a farmi un certo effetto. Guardo i monti di là dall’Isonzo. Quello è l’altipiano della Bainsizza. Come dite voi? chiedo al parroco. Dicono Banjska Planota, E sto per cedere alla commozione, forse sto per abbandonarmi, con il buon parroco, a dichiarazioni che lo imbarazzerebbero, a espansioni romanticamente rothiane, che potrebbero essere fraintese, e scambiate addirittura per nostalgie di tipo fascista! Fortunatamente, a salvarmi, giunge in buon punto l’ingegner Zvonimir Simčič, enologo, organizzatore, direttore della vicinissima Cantina Sociale di Dòbrovo in Brda: Castel Dobro nel Collio: Brda è il nome sloveno per Collio. Simčič è ancora giovane: tarchiatello, robustello, rubizzo, scattante: persona seria, decisa, Lo avevo conosciuto tempo addietro, a un convegno vitivinicolo di Conegliano: mi aveva, allora, invitato a visitarlo: poi mi aveva scritto rinnovando con gentile insistenza l’invito. Stamane, trovandomi lì, inatteso ospite, in casa Gradnik, gli era parso non potessi più sottrarmi al piccolo programma turistico-enologico che aveva in mente per me. E adesso, dunque, io e i miei compagni dobbiamo partire. E dobbiamo affrettarci. Ritroveremo Kosmač e gli altri a colazione. Poi andremo alla Cantina Sociale. Ma adesso è l’ora, dobbiamo salire alla Torre di Goniace: non c’è scampo. Ci arriviamo in dieci minuti di macchina. Altissima sulla collina di Smartno (San Martino nel Collio), Goniace è il monumento tutto acciaio e cemento, tutto moderno e pop, della guerra partigiana jugoslava. Sulle contorte targhe ferree delle iscrizioni, non può mancare, e non manca, in lingua serbocroata e inglese, qualche accenno non precisamente gradevole per noi. Ah, inutile che neghi, inutile che cerchi di soffocare qualcosa che è il mio stesso respiro: per molte santissime ragioni, mi sento, in fondo, giuliano anch’io. Non provo odio, tuttavia; nessun odio, nessun risentimento. Solo, tristezza. E se fosse in mio potere cambiare le geografie politiche dei nostri paesi, prima ancora degli Stati Uniti d’Europa, che sempre vagheggio, vorrei vedere una Federazione Adriatica, Jadranska Savezna Država dell’Italia e della Jugoslavia unite. Temo che sia un’unione impossibile, perché squilibrata. Forse con l’Austria insieme? Ancora peggio! Ma se Tito facesse il miracolo? efficient. Dalla sommità della gran torre di acciaio, vagando con lo sguardo per l’immenso territorio delle Alpi, del Collio, della Brda, della pianura, del mare, ancora Italia là in fondo, verso ponente, Italia una volta qui sotto e tutto intorno, sbigottisco ed indugio, non certo a rimpiangere, ma melanconicamente a sognare... Il bravo, onesto ingegner Simčič, mi prende per un braccio, mi riscuote. Mi accompagna passo passo giù per l’interminabile chiocciola metallica e, così, finalmente, ce ne andiamo a colazione. La mensa è in un villaggio poco lontano: all’aperto, nel parallelogramma d’ombra che la facciata del rustico ristorante proietta su un breve terreno davanti alla strada. Troviamo Kosmač a capo tavola, ormai lanciatissimo sui rossi. Non beve che Merlot, e non fa che bere e parlare: parla in sloveno, in francese, in italiano, con eguale aisance. Prosciutto, minestra di patate, carni di tutte le specie alla griglia, insalata. Cibi rozzi e semplici, ma schietti, freschi, potenti. Quanto al vino, il Merlot, al suo solito, lo trovo fiacco. Questo, poi, mi pare perfino troppo passante. Un vino, forse, che, per capirlo davvero, bisogna berne in grande quantità, come fa appunto Kosmač. Siccome non me la sento, preferisco rimanere sui bianchi: prima sulla Rebùla, leggerissima; poi sul Tocai, più di corpo e più di gusto. Ad ogni modo: Tocai, Rebùla, Merlot, sono i tre vini della Cantina Sociale di Dòbrovo. Simčič mi dice di avere deliberatamente pianificato la produzione così, escludendo ogni altro tipo, e suddividendola quantitativamente in 60% di Rebùla, 20% di Tocai e 20% di Merlot. La vinificazione annua raggiunge i 63.000 ettolitri. I soci sono circa settecento: per legge, infatti, ogni socio non può possedere più di dieci ettari di coltivato, e ogni ettaro produce circa settecento ettolitri di , vino di Brda. Briska vino E sono, tutte e tre le qualità, eccellenti: vini freschi, simpatici, passanti: tutti e tre, nel loro genere da pasto e di grande smercio, una piccola perfezione. Al punto che, due ore dopo, quando andiamo a Dòbrovo secondo il programma stabilito da Simčič, e visitiamo lo Stabilimento delle Cantine Sociali, non so credere ai miei occhi. Si tratta di un enorme edificio, che si vede da lontano in mezzo alle colline: un mostruoso tempio rotondo con un’agghiacciante cupola, completamente moderno, e completamente costruito intorno e in funzione di tre ciclopiche vasche vetrificate, che sormontano colossali macchine in acciaio inossidabile per il filtraggio e la refrigerazione. Neanche nel nuovo stabilimento in Ozzano presso Bologna, dove i Sassoli de’ Bianchi fabbricano il brandy Buton, neanche là ho visto apparecchiature così fantascientifiche, che facciano pensare, come qui, all’interno di un sommergibile. Simčič, manco a dirlo, ne è tutto fiero. E Simčič è troppo convinto dell’assoluta bontà del progresso tecnico nell’enologia per non prendere come una lode queste mie immagini, che per me di lode non sono. Tuttavia, debbo dichiarare lealmente che, a mio parere, nessuna cantina sociale italiana, e nessun stabilimento italiano di queste dimensioni e di questa capacità produce vini di gusto altrettanto schietto. L’apparente assurdità si spiega osservando: primo, che la lavorazione di Dòbrovo, tutta meccanizzata come attraverso i ritrovati tecnici più moderni e più nuovi, è scrupolosamente onesta; secondo, e soprattutto, che l’imbottigliamento, il rifornimento ai rivenditori e il consumo di procedono a getto continuo. In altre parole, al Briska vino di Dòbrovo non accade mai ciò che accade così sovente ai nostri vini industriali: non invecchia mai in vasca né in bottiglia più di un anno, al massimo due: non ha tempo di inacidire, non ha tempo di maderizzarsi; viene sempre consumato, come si conviene a vini del genere, fresco e giovanissimo. Briska vino Domando ora a Simčič se, collateralmente, in Brda si producano altri vini, non industrializzati, non di grande consumo. Qualche Müller-Thurgau, insinuo, qualche Cabernet, qualche Marzemino, qualche Picolìt, da nessuna parte? No, no: Simčič lo esclude tassativamente: per i cittadini sloveni della zona, non è tanto un obbligo, quanto un costume ormai generalmente e gioiosamente accettato: coltivano solo i tre vitigni suddetti, e portano tutti le uve alle Cantine Sociali. L’affermazione di Simčič mi pare così recisa che, se anche esistessero eccezioni, piccoli coltivatori appassionati di vini più pregiati, il quantitativo totale della loro produzione sarebbe da trascurarsi. Eppure le colline sono le stesse, mi dico guardandole commosso mentre il sole al tramonto viene tingendole di delicati colori rosa e violacei: il terreno è lo stesso: e fino al ’45, senza dubbio alcuno, queste vigne erano coltivate come lo sono ancora oggi, a tre chilometri di distanza, le vigne di Gradimiro Gradnik! Concludo tra me che la nuova civiltà, sia pure nei limiti di una scrupolosa genuinità quanto alle materie prime e con l’esclusione assoluta di barbari additivi chimici, ha degradato anche le tradizioni enologiche della vicina Repubblica slovena. È chiaro: là dove economicamente il consumo lo richieda, gli jugoslavi non esitano ad abbandonare il passato. Il loro merito, caso mai, è di non fare come noi: di non distruggere implacabilmente ciò che è inutile distruggere. Il loro merito sta proprio nel rispetto di questo limite utilitario. Possiamo consolarci: se loro conservano, come noi non facciamo, certe loro deliziose casette antiche, noi a nostra volta conserviamo qua e là, come loro non fanno, i nostri deliziosi antichi vini artigianali. Dirà forse, allora, il socialista Simčič che si tratta di vini “costosi”, abbordabili solo alla borsa dei ricchi, e che il bello della Jugoslavia è che non ci sono ricchi, non ci possono essere. Protesterò io sdegnato che anche “la produzione”, mettiamo, di un pittore, anche l’opera d’arte è costosa: ma nessun socialista al mondo vorrebbe perciò eliminarla dall’ideale repubblica cui aspira, e infatti non la elimina. Nulla vieta che la produzione dei vini pregiati sia pagata dallo Stato, affinché non si perda, col tempo, l’arte di coltivarli e pigiarli. Nulla vieta che questi vini pregiati, per coloro che dimostrino di preferirli, siano messi sul mercato a un prezzo inferiore al costo: allo stesso prezzo degli altri vini. Poiché non tutti e non sempre vogliamo “perdrix”. E se il miliardario di un paese capitalista, in certi momenti, desidera semplicemente bere un uovo fresco, così qualunque cittadino di un paese veramente socialista, l’ideale repubblica che dicevamo, dovrebbe, se gli garba, poter fare colazione con una pernice. Nella grande Sala del Consiglio, che è curva come le case dopo la dogana di Plessiva, perché costruita, quasi una sezione di corona circolare, intorno al tempio rotondo della Cantina Sociale, ora, tutti radunati e seduti a un lungo tavolo curvo, lustro, gremito inverosimilmente di bottiglie, ricomincia l’assaggio del trio: Merlot. Rebùla, Tocai. Ma abbiamo anche il coro, adesso. Abbiamo, per l’esattezza, molti del coro di Medana e molti del coro di Nova Gòriza: quelli che, liberamente, hanno voluto intervenire anche il pomeriggio e cantano in maniche di camicia, bevendo tra un pezzo e l’altro. Questa è la vera festa, insomma. Il maestro, per sostenere il tempo e il tono, ora suona la fisarmonica. Riudiamo così alcune delle canzoni e degli inni di stamattina: e parecchi altri canti nuovi, che non erano adatti alla cerimonia o che, forse, i coristi non conoscevano tutti abbastanza bene da eseguire ufficialmente in pubblico: canzoni slovene, croate, serbe, tedesche, friulane, e perfino russe e perfino italiane. Nelle melodie lente, si levano e spiegano le voci dei tenori, vibrano profonde e lunghe quelle dei bassi, in un’armonia continua e fusa, come di un solo strumento, il più bello di tutti. Nelle melodie veloci, i ritmi scattano e martellano, marziali o danzanti: talvolta rapidissimi, come nel collo croato: e le voci gravi, ora, sembrano pizzicati di contrabbassi. In breve tempo, la seconda anima slava raggiunge un climax formidabile, che a notte fonda, quando noi, spossati, ce ne andiamo, non accenna ancora a placarsi, e arrivano intanto, sul lucido lungo tavolo, decine e decine di nuove bottiglie. Simčič e Kosmač, la prima e la seconda anima, cantano insieme. E canta, ora, per mia grande sorpresa, canta il giovane sindaco di Nova Gòriza. Canta con limpida voce di tenore, e con timbro e inflessioni antiche e popolaresche così struggenti, che va diritto al cuore. Proprio per questo, se lo osservo mentre canta, il volto infiammato e gli occhi fissi, mi fa ancora più paura di quando pronunciava il suo discorso patriottico politico. Mi fa paura e lo ammiro. Non vorrei averlo nemico, né in guerra né in pace. E guarda caso. La biondina in tailleur rosso geranio e minigonna è sua moglie! È di origine austriaca: conosce solo il tedesco e lo sloveno: di italiano, neanche mezza parola. Lei e la signora Romana Gradnik, qui presente col marito Gradimiro, gareggiano nell’incanto delle loro diverse ma egualmente irresistibili femminilità. C’è anche una vecchia signora croata, massiccia, capelli bianchi, occhiali (tipo, per intenderci, moglie di Krusciov), che si trasforma dalla gioia ogni volta che il coro canta in croato. E c’è una canzone, tra tutte, che il coro, a richiesta, esegue più volte: e tanto mi piace che chiedo la traduzione delle parole. Eccola: “Samo pridi”: è il primo verso, ed è il titolo: Samo pridi, solo vieni (solo vieni da me, basta che tu venga da me). Si immagina che sia una ragazza a cantare così, invocando il suo uomo: “Solo vieni da me / sei stato ieri sera / sei stato stamattina / vieni stasera, ti aspetto / solo vieni da me / se non vieni, non sono.” Grande popolo, grande razza: come si fa a non amarli? Lo Schioppettino: virtù sconosciuta di un unicum armoniosamente esplosivo. Esiste un vino chiamato Schioppettino. Lo avevo assaggiato, al solito, in corso Magenta, dal Provera. Il Provera me ne dava ogni tanto una bottiglia e mi diceva: “Quando l’ha stappata e ne ha bevuto un po’, la lasci lì per un giorno, o magari dalla mattina alla sera. La assaggi allora, e sentirà: uno zucchero, uno zucchero!” Lo Schioppettino è un vino rarissimo. Lo si pigia, con uve del suo vitigno, soltanto ad Albana di Prepotto, ancora in provincia di Udine, proprio al confine con la provincia di Gorizia, sulle rive dello Judrio: al di là, comincia il Collio. Le vigne raggiungono e circondano, presso il vecchio ponte sullo Judrio, quella casetta di tipo tirolese, dove fu l’antica dogana del Regno, dal 1866 fino al 1915. Arriviamo al Albana di Prepotto la mattina presto. Quattro vie deserte e quattro case sotto un gran sole, nel silenzio dei colli intorno. Cerchiamo del signor Giuseppe Toti, cui ci ha indirizzato il Provera. È uno dei tre o quattro produttori di Schioppettino, in tutto il mondo. Chiediamo a una bottega di alimentari, che fa da bar e da tabaccheria. Credo che sia la sola bottega del villaggio. Ci indicano la casa del signor Toti: è in fondo, laggiù, oltre quei prati, attigua a una piccola villa e ad una piccola chiesa. Andiamo. E, in pochi passi, siamo fuori, siamo lontano dal mondo: in un luogo delizioso e romito, prati verdissimi circondati da boschetti di pini alpestri, e, di là dai pini, vigneti distesi nella breve pianura. La villa sembra abbandonata, sul genere di quella Florio a Buttrio, ma più minuta, più modesta e soprattutto più malandata. Attigui sono i fienili; due casette coloniche, che forse fanno anche da cantine; e la chiesetta, che è dedicata (lo vedo da un’iscrizione) a Santa Giustina. Di fianco, un campaniletto. E, lungo un terrazzino che sormonta la gronda, alcune vecchie statue barocche, di Sante o di Angioli, mutilate, corrose, qua e là chiazzate di muschio: sembrano tendere le mani in preghiera verso le vigne, come per implorare sempre buone vendemmie. “Toti xè andà a Cividale,” dice la moglie che troviamo occupatissima in faccende e con una bimba piccola da governare, “mi del vin no so gnente.” Chiediamo il permesso di fotografare le statue. E, mentre mio figlio e Bòccoli si arrampicano sul tetto della chiesa e vi issano macchine e flash, comincio a gironzolare in quella beatitudine, vado fino allo Judrio, mi inebrio di solitudine. Quando torno indietro, vedo un signore anziano che mi viene incontro. È felice che ci siamo accorti della bellezza delle statue e che le fotografiamo. È il geometra Odo Rieppi, nativo del luogo, classe 1901, profugo a Fiesole nel 1917... Anche lui fa il vino lì, lui come Toti. Lo Schioppettino? Sì, ne ha qualche bottiglia. Da vendere no, sono troppo poche. Ma da gustare sì, che diamine. Andiamo in cantina, comincia a stappare. È una bottiglia di anni. Profumatissimo. Rosso con riflessi mattone. Di corpo e armonico. Amaro giusto. Ma niente gusto erbaceo, niente quel gusto del Cabernet, cui un poco assomiglia. E niente feccioso. Direi, infine, che mi pare, come già avevo indovinato a Milano, un grande vino, da avvicinare quasi i grandi piemontesi, ma con una grazia tutta sua particolare. Schioppettino, dico a Rieppi, non l’ho trovato, questo nome, nemmeno tra le migliaia di nomi e sinonimi del catalogo del Cosmo. Perché mai Schioppettino? “È un vino originale di qui, e lo si trova soltanto qui” risponde il gentilissimo Rieppi. “Il nome viene dal patois sloveno: Pòcanza. Perché gli acini hanno la buccia duretta, e, a schiacciarne uno tra l’indice e il pollice, fa poc, scoppia, con un piccolo scoppio. Ma ce n’è così poco, così poco. Se ne fa sempre meno, tutti gli anni. Questi vigneti che vede qui intorno, sono quasi tutti a Cabernet. Sa quanto Schioppettino si fa, l’anno, a Prepotto? Non più di venti ettolitri.” Ogni cosa, intorno, nella solitudine, nel silenzio, e nella grazia suprema come di una vita che c’era e che sta per abbandonare questo angolo di terra, si accorda magicamente al profumo, al gusto, alla rarità dello Schioppettino. Né la sua minima produzione né il suo infinitesimale consumo potranno mai persuadermi ad apprezzarlo meno. Il Picolìt, sì, è “un nobile decaduto”, ma se ne favoleggia, se ne parla anche troppo perché la sua nobiltà, prendendo cotesto lustro pubblicitario, non involgarisca. Lo Schioppettino, invece, è un solitario senza macchia: campione pressoché unico, tra i vini, di quella , che l’Alfieri, tra le umane grandezze, giudicava forse la più grande. virtù sconosciuta E l’ultimo giorno arriviamo anche a Trieste: ma non scendiamo fino alla città: ci fermiamo in alto, in Carso, tra le vigne riquadrate dai bianchi muriccioli di pietra del Carso, in vista del mare specchiante un gran sole, in vista del golfo dove la pianura padana sembra giungere estenuata e chiudere in quell’aspra dolcezza la sua ampia, lunga, sinuosa forma femminile. Dovrei dire del Terrano, o del Refosco, che è poi, secondo alcuni, una qualità di Terrano, e secondo altri, invece, soltanto un suo sinonimo. Rosso violaceo intenso, spiccata fragranza, asciutto, corposo, alcoolico non troppo, acidulo, tannico, talvolta aspro: in Carso, in vista di Trieste e del golfo, a Banne, da Ennio Dugulìn, lo abbiamo bevuto su tutta una serie di minestre, cioè jota, bòbici, zuppa di ceci orzo grani di granturco, e sui radicchi coi fagioli e sul pollo fritto. Non c’è, per chi ama Trieste, vino più potentemente affettuoso. Non potevo lasciare questi paesi senza gustarlo ancora una volta. Ma non consiglierei a nessuno di provarlo altrove, questo sapore di Carso senza l’aria del Carso. Lo Schioppettino viaggia, e come! Il Terrano, no. E nemmeno questo è un parametro di giusto giudizio. Resta da vedere se i vini più degni non sieno quelli più umili, quelli più immobilmente legati alla terra che li produce. Terrano, appunto. Nel congedarmi dalla Venezia Giulia, terra di tutte le terre, bevo alla tua salute, amico lettore, un bicchiere di Terrano.