Una regione tutta di capitali. Le amorose congiunzioni dell’Emilia-Romagna: Nord e Sud, cibo e vino, pane e donne.
Boston e San Francisco, a cinquemila chilometri di distanza, sono diverse ma non come, a cinquanta, Bologna e Ferrara. Certo, è l’Italia: il paese, in rapporto all’area, più vario del mondo. Ma nessuna regione italiana sembra varia come l’Emilia e Romagna. Le cause sono storiche: dei capoluoghi delle sue otto provincie, ben sette furono, lungo tempo, addirittura città capitali! E questa varietà si presenta con un’evidenza e un’immediatezza tanto maggiori quanto più omogenea, invece, è la struttura geografica della regione stessa: disposta sulla riva destra del Po, dal Piemonte fino al mare, in tre fasce continue, contigue, dolcemente sconfinanti, la pianura nei colli, i colli negli Appennini: incernierata nella Via Emilia, asse scorrevole che taglia la pianura poco prima dei colli e lungo cui sorgono tutte le sue antiche, nobili città, le grandi, le mediane, le piccole.
Chi dunque percorra l’Emilia e Romagna di seguito, come a me è capitato per conoscere i suoi vini, ha l’impressione di compiere un viaggio spettacolare, diviso in tappe predisposte, inevitabili e, ciononostante, meravigliose e imprevedibili: oppure di assistere a una féerie, una fantasmagoria ininterrotta e, ad ogni episodio, sempre nuova.
Ripetiamo: l’Italia sorprende dovunque; ma in nessun’altra parte troviamo le sue bellezze, ricchezze e singolarità così “messe in fila”, ordinatamente, quasi in una naturale sequenza espositiva.
Gli stessi vini rivelano questo ritmo. Dalle Barbere miste a Bonarda coltivate nei colli piacentini, e che prolungano le scelte viticole ed enologiche dell’Oltrepò Pavese e ancora riflettono la comune origine monferrina: a tutti i Lambruschi, che, specialmente per il metodo di vinificazione, sono gloria di Sorbàra in provincia di Modena: ai Sauvignon e alle Albane: ai Sangiovese, che partecipano delle colture toscane, come dimostra lo stesso vitigno, che è una componente essenziale del Chianti, e come dimostra quella zona orientale dell’Appennino, che fu una volta territorio del Granducato e che ancor oggi accoglie, a soli venti chilometri da Forlì, un cuneo della provincia di Firenze: per tutta questa lunghissima linea obliqua, trasversale e collinare, da nord-ovest a sud-est, da Castel San Giovanni a Rimini, assistiamo a una rassegna trionfale, a un’immensa processione, a un fregio ininterrotto di vigneti svariati e conclusivi.
Di qua e di là dell’Autostrada del Sole e poi, senza soluzione di continuità, dell’Autostrada Adriatica, lo spettacolo, nello splendore dei colori autunnali, ha qualche cosa di sbalorditivo: se non altro per la lunghezza e la vastità. E come il temperamento del popolo emiliano e romagnolo riassume i caratteri di tutti i temperamenti padani, piemontesi lombardi veneti, e li presenta già variegati di razionalismo o scetticismo toscano e centroitaliano, così, in qualche modo, anche il vino.
Gli italiani dell’Emilia e soprattutto quelli della Romagna, se non tutta l’Italia, ne impersonano, o ne simboleggiano, abbondantemente, due terzi. I vini – quando genuini – non sono forse i più pregiati della nostra penisola: né sono certo, per la loro umile, fresca, aggressiva vitalità, i più rappresentativi.
Ma il carattere discriminante, unico, formidabile dei vini di Emilia e Romagna è, infine, il seguente: che vengono offerti e gustati, normalmente e vorrei dire esclusivamente, ad accompagnamento dei cibi. Mi trovo, adesso, alla metà giusta del mio secondo viaggio: ebbene, finora, per assaggiare vini, non ho mai dovuto affrontare, e credo che non dovrò più affrontare, una cucina altrettanto copiosa e violenta. Il mangiare e il bere vino sono, qui, inestricabilmente e sacralmente congiunti.
Devo anche precisare che, a questa congiunzione sensuale partecipa, meno visibilmente e meno materialmente, ma forse, proprio per questo, ancor più profondamente, un terzo elemento: il sesso. Eh sì, la donna è sempre implicita e implicata nelle mense emiliane e romagnole: o presente, anche se sta di là, come cuoca, e prima origine di tutto; o assente, anche se sta a casa, moglie amante innamorata, e di tutto ultima finalità.
Il pane stesso di Emilia e Romagna, il pane più buono e più bello del mondo, è un monumento quotidiano e stupendo alla femminilità: levigato, liscio, rotondeggiante, evoca irresistibilmente con le sue curve, con i suoi rigonfiamenti, con le sfumature delicate e tenerissime della sua superficie, seni e cosce di donna. Non pare possibile che la ispirazione primitiva di queste sculture umili, viventi, tradizionali, meravigliose, non coincida con un desiderio, un ricordo, un omaggio rituale alla bellezza muliebre. È un pane che, prima di mangiarlo, l’occhio lo accarezza. Ed è un vino non pensoso, come i vini piemontesi; non folle, come i friulani; non fantastico, come i liguri. È un vino, più di ogni altro, amoroso.