Nelle provincie di PIACENZA, PARMA, MODENA, BOLOGNA, RAVENNA, FORLÌ Una regione tutta di capitali. Le amorose congiunzioni dell’Emilia-Romagna: Nord e Sud, cibo e vino, pane e donne. Boston e San Francisco, a cinquemila chilometri di distanza, sono diverse ma non come, a cinquanta, Bologna e Ferrara. Certo, è l’Italia: il paese, in rapporto all’area, più vario del mondo. Ma nessuna regione italiana sembra varia come l’Emilia e Romagna. Le cause sono storiche: dei capoluoghi delle sue otto provincie, ben sette furono, lungo tempo, addirittura città capitali! E questa varietà si presenta con un’evidenza e un’immediatezza tanto maggiori quanto più omogenea, invece, è la struttura geografica della regione stessa: disposta sulla riva destra del Po, dal Piemonte fino al mare, in tre fasce continue, contigue, dolcemente sconfinanti, la pianura nei colli, i colli negli Appennini: incernierata nella Via Emilia, asse scorrevole che taglia la pianura poco prima dei colli e lungo cui sorgono tutte le sue antiche, nobili città, le grandi, le mediane, le piccole. Chi dunque percorra l’Emilia e Romagna di seguito, come a me è capitato per conoscere i suoi vini, ha l’impressione di compiere un viaggio spettacolare, diviso in tappe predisposte, inevitabili e, ciononostante, meravigliose e imprevedibili: oppure di assistere a una , una fantasmagoria ininterrotta e, ad ogni episodio, sempre nuova. féerie Ripetiamo: l’Italia sorprende dovunque; ma in nessun’altra parte troviamo le sue bellezze, ricchezze e singolarità così “messe in fila”, ordinatamente, quasi in una naturale sequenza espositiva. Gli stessi vini rivelano questo ritmo. Dalle Barbere miste a Bonarda coltivate nei colli piacentini, e che prolungano le scelte viticole ed enologiche dell’Oltrepò Pavese e ancora riflettono la comune origine monferrina: a tutti i Lambruschi, che, specialmente per il metodo di vinificazione, sono gloria di Sorbàra in provincia di Modena: ai Sauvignon e alle Albane: ai Sangiovese, che partecipano delle colture toscane, come dimostra lo stesso vitigno, che è una componente essenziale del Chianti, e come dimostra quella zona orientale dell’Appennino, che fu una volta territorio del Granducato e che ancor oggi accoglie, a soli venti chilometri da Forlì, un cuneo della provincia di Firenze: per tutta questa lunghissima linea obliqua, trasversale e collinare, da nord-ovest a sud-est, da Castel San Giovanni a Rimini, assistiamo a una rassegna trionfale, a un’immensa processione, a un fregio ininterrotto di vigneti svariati e conclusivi. Di qua e di là dell’Autostrada del Sole e poi, senza soluzione di continuità, dell’Autostrada Adriatica, lo spettacolo, nello splendore dei colori autunnali, ha qualche cosa di sbalorditivo: se non altro per la lunghezza e la vastità. E come il temperamento del popolo emiliano e romagnolo riassume i caratteri di tutti i temperamenti padani, piemontesi lombardi veneti, e li presenta già variegati di razionalismo o scetticismo toscano e centroitaliano, così, in qualche modo, anche il vino. Gli italiani dell’Emilia e soprattutto quelli della Romagna, se non tutta l’Italia, ne impersonano, o ne simboleggiano, abbondantemente, due terzi. I vini – quando genuini – non sono forse i più pregiati della nostra penisola: né sono certo, per la loro umile, fresca, aggressiva vitalità, i più rappresentativi. Ma il carattere discriminante, unico, formidabile dei vini di Emilia e Romagna è, infine, il seguente: che vengono offerti e gustati, normalmente e vorrei dire esclusivamente, ad accompagnamento dei cibi. Mi trovo, adesso, alla metà giusta del mio secondo viaggio: ebbene, finora, per assaggiare vini, non ho mai dovuto affrontare, e credo che non dovrò più affrontare, una cucina altrettanto copiosa e violenta. Il mangiare e il bere vino sono, qui, inestricabilmente e sacralmente congiunti. Devo anche precisare che, a questa congiunzione sensuale partecipa, meno visibilmente e meno materialmente, ma forse, proprio per questo, ancor più profondamente, un terzo elemento: il sesso. Eh sì, la donna è sempre implicita e implicata nelle mense emiliane e romagnole: o presente, anche se sta di là, come cuoca, e prima origine di tutto; o assente, anche se sta a casa, moglie amante innamorata, e di tutto ultima finalità. Il pane stesso di Emilia e Romagna, il pane più buono e più bello del mondo, è un monumento quotidiano e stupendo alla femminilità: levigato, liscio, rotondeggiante, evoca irresistibilmente con le sue curve, con i suoi rigonfiamenti, con le sfumature delicate e tenerissime della sua superficie, seni e cosce di donna. Non pare possibile che la ispirazione primitiva di queste sculture umili, viventi, tradizionali, meravigliose, non coincida con un desiderio, un ricordo, un omaggio rituale alla bellezza muliebre. È un pane che, prima di mangiarlo, l’occhio lo accarezza. Ed è un vino non pensoso, come i vini piemontesi; non folle, come i friulani; non fantastico, come i liguri. È un vino, più di ogni altro, amoroso. A Piacenza il vino “del posto” è diventato Gutturnio. Un nome tratto dalle “Antiquités Romaines” per un vino giovane, cordiale, padano. Tortellini, gnocchi al gorgonzola, “pissarèn” e Gutturnio come se piovesse. Hanno radici piacentine le glorie parmensi. Nel Piacentino. Visita iniziale al Castello di Livignano, dove l’amico Angelo Del Boca, dopo aver girato tutto l’orbe terracqueo come inviato speciale, si impegna e si prepara, seriamente, tecnicamente, a produrre il suo vino: e a produrlo su vasta scala. Mi rendo conto, qui, di quello che sarà, poi, con l’unica eccezione dei Lambruschi, il modulo fisso della vinicoltura emiliana e romagnola: aziende ai margini della pianura con la collina o, per meglio dire, piazzate sui primissimi rilievi: così che, da una parte, si goda la vicinanza delle migliori vigne, che ovviamente crescono in collina, dall’altra si goda la facilità dei trasporti immediati lungo le strade di pianura, che tutte raggiungono presto l’Emilia o quella Superemilia che è l’Autostrada. Così è, anche, presso Ziano, “la Solitaria”, moderna azienda vinicola del geometra Pietro Calabresi. Conoscevo, posso dire, da decenni, il vino classico di queste zone: Val Tidone, Val Trebbia, Val Nure, Val Riglio, Val Chero, Val d’Arda, e tutte le altre minori valli di quei torrenti e torrentelli che dai limiti della provincia di Pavia raggiungono la Valle dello Stirone, confine con la provincia di Parma. Era un vino che amavo moltissimo, per la sua affabilità e gustosità, per il suo carattere schiettamente “trino”, e cioè piemontese, lombardo ed emiliano insieme: gran vino da pasto, da salumi, da lessi con la mostarda: vino da bere senza cerimonie e senza complimenti, in allegra compagnia: fresco di cantina, e giovane di un anno, al massimo di due. Questo vino non aveva un nome: era il vino “del posto”, e si chiamava, modestamente, col nome del posto dove erano le vigne, con le cui uve era fatto: Val Tidone, appunto, Val Trebbia, e così via, con tutti gli altri nomi delle piccole valli e dei torrentelli minori: Val Luretta, Val Perino, Val Magnana, infiniti nomi che non posso ricordare. Per le uve, formula di composizione era, però, sempre la stessa: Barbera e Bonarda. La percentuale di rito: Barbera 60% e Bonarda 40%. Tuttavia, secondo le località e secondo le annate, la percentuale poteva variare: e variava intanto il gusto di ogni “partita”, che era più o meno amabile, ossia più o meno dolce, secondo la quantità di Bonarda mescolata alla Barbera. Bene, cioè male: ho dovuto arrendermi a una innovazione, di cui già avevo udito parlare, ma che non credevo avesse preso piede fino a questo punto. Non c’è scampo. Quel vino umano e senza pretese ormai si chiama – ormai tutti se ne riempiono la bocca, prima che bevendolo, chiamandolo – col nome pomposo, romano, imperialfascista di Gutturnio. Come si può non pensare, non continuare a pensare anche a Littoria, Sabaudia, Cervinia e simili marmorei e mortuari appellativi? Chiedo al simpatico Calabresi, che è stato ufficiale di aviazione e che, oggi, oltre a occuparsi appassionatamente del vino, ha una piccola industria a Milano, gli chiedo come e quando sia nato codesto sciagurato nome, che, d’altronde, con . . . del 9 luglio 1967 e con iscrizione nella Gazzetta Ufficiale n. 203 del 14 agosto dello stesso anno, è stato riconosciuto come nome di “vino a denominazione d’origine ”! E Calabresi, lealmente, mi risponde ciò che crede di sapere. L’inventore del nome pare che sia il dottor Mario Prati, del Consorzio Viticolo di Piacenza. La data dell’invenzione pare che sia verso l’anno 1942. E l’idea gli è venuta, pare, dalla parola “gutturnium”, che probabilmente è una voce della tarda latinità, e deriva da “guttar”, che a sua volta deriva da “gutta”, cioè goccia. Ma “guttur” significa gola (degli uomini) o gozzo (degli uccelli). Il “gutturnium”, secondo un’indicazione che mi fornisce sempre il buon Calabresi, avendola trascritta dal del Cagnat, sarebbe un recipiente rigonfio e “munito sul davanti di un becco, e posteriormente di un’ansa per poterlo afferrare: e di cui ci si serviva soprattutto per versare acqua sulle mani prima e dopo i pasti”, dato che i Romani mangiavano con le mani. Si tratta, insomma, di una volgare brocca. L’idea di chiamare così un vino non è gentile né in alcun modo adeguata: tanto più che il suono, cupo e, appunto, gutturale suggerisce qualcosa di medicamentoso, revulsivo, rigurgitante. Ego quoque, tuttavia, sarò costretto, talvolta e mio malgrado, a non fare a meno della brutta espressione. 60% Barbera, 40% Bonarda, il Gutturnio di Calabresi è buonissimo. Lui lo tiene in botte per circa due anni, e intanto opera una quindicina di travasi. Lo filtra una volta sola: prima di imbottigliare. Col tempo, si intorbida lievemente e fa deposito. Ma il deposito, anche questa volta, come quasi sempre, denuncia semplicemente la genuinità. Sia detto e ridetto. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Molto difficile che un vino genuino col tempo non si intorbidi e non faccia deposito. È segno, soltanto, che il vino non è stato pastorizzato, né refrigerato, né stabilizzato. È segno, soltanto, che il vino “è continuato a vivere”, e ciò che distingue il vino da un vermut o da un liquore è appunto il fatto “che continua a vivere”. Ma questa fondamentale verità, i consumatori, nella loro grandissima maggioranza, non se la vogliono mettere in testa! Quando trovano deposito, feccia, in fondo alla bottiglia, dicono che si tratta “della polverina con cui il vino è stato fatto”. Inutile affannarsi. La limpidezza del vino sembra che sia una moda come quella del cellophane. E non avremo salvezza fino al giorno del pericolo opposto, allorché i sofisticatoli non intorbidiranno artificialmente il vino appunto per far credere che sia genuino. Quel giorno è ancora lontano. D P R controllata Lexique des Antiquités Romaines Facciamo colazione al Portichetto di Rivergaro, con Calabresi, e con Gianfranco Scognamiglio, letterato e giornalista di Piacenza. È cominciata l’Emilia: come ouverture, prosciutto, coppa, culatello, salame, e tre qualità diverse di pastasciutta: tutte e tre strepitose: 1. tortellini; 2. gnocchi di patate, farina e gorgonzola impastato dentro; 3. altri gnocchi, detti e fatti di farina, pan grattato e fagioli. Non parlo di ciò che seguì. E su tutto, come se piovesse, Gutturnio della Solitaria. Prima del levar delle mense, apprendo una notiziola con cui mi divertirò a punzecchiare i miei amici di Parma, Pietro Viola, Pietro Barilla, Attilio Bertolucci, e tanti altri: due delle loro glorie, Verdi e Toscanini, per parte di madre, pare che siano tutti e due di famiglia piacentina. pissarèn Borgo San Donnino cominciò forse la mia carriera di enologo dilettante. Celebrazione di vini della Val d’Arda nella tumultuosa cripta enologica di Italo Testa. Pippo Campanini o “il melodramma in bottiglia”. Elogio del vin dolce. Il giorno dopo, a Castell’Arquato, appuntamento davanti al Caffè San Carlo. Mi attendono Pippo Campanini e suo fratello Vincenzo, amici miei carissimi, e cittadini di una deliziosa città dal delizioso nome, con cui tutti gli italiani la conobbero per mille e cento anni, dal nono secolo fino al 1927, allorché fu ribattezzata “Fidenza”: nome non altrettanto ingiustificato di “Gutturnio” per la Barbera & Bonarda, ma altrettanto littorio, goffo, sciocco e vacuo. Chi mai sapeva, se non lo studioso specializzato in latinità, della sepolta esistenza di Fidenza? E chi mai ci teneva, se non qualche fasciofanatico ricercatore di blasoni romani? Ma il motivo che poteva avere persuaso i citrulli in quel tempo gerarchi della città a sollecitare il nuovo nome fu certamente la citrullesca e provinciale vergogna che tutti i cittadini più citrulli del Borgo provavano a sentir chiamare la loro patria con un nome che agli ignoranti poteva sembrare femmineo mentre non lo era donnino da dominino : e cioè da piccolo signore, piccolo padrone). A meno che tale vergogna non assumesse una particolare vibrazione allusiva dal fatto che qualcuno di quei gerarchi citrulli nutrisse inclinazioni particolari. Fosse come fosse, la continuità topografica della romana Fidentia con il medievale Borgo San Donnino si trovava contestata dagli studiosi, primissimo il parmigiano I. Affò. Infine, nessuno avrebbe potuto sostenere che la gloria della città in qualche modo si collegasse all’ascendenza romana, mentre era affidata, con risonanza mondiale, alle sublimi sculture della facciata della Cattedrale: a opere, cioè, del XIII secolo, quando il nome del Santo Martire che proteggeva il suo Borgo era più riverito, e quando più era venerata l’urna delle Sue ossa, chiusa ancor oggi nella cripta della Cattedrale, che a San Donnino, appunto, è dedicata. Borgo San Donnino cambiò nome il 9 giugno 1927. Ricordo, dalla sua cattedra di filologia romanza all’Università di Torino, il modenese Giulio Bertoni, sebbene a quel tempo già fascistoide e poi genuflesso fascista, come deplorasse d’ufficio il volgare provvedimento, e come improvvisasse un commosso epicedio elencando le circostanze in cui, attraverso i secoli della civiltà neolatina, il nome “Borgo San Donnino” normalmente ricorreva e le più straordinarie occasioni in cui era ricorso. Ed eccoli, i due fratelli di Borgo, Pippo e Vincenzo Campanini: eccoli davanti al Caffè San Carlo, nella piazza inferiore di Castell’Arquato. Sono con loro ad accogliermi il sindaco ingegner Giorgio Freschi, e Italo Testa, massimo intenditore, produttore e commerciante di vini in tutta la zona, e il suo diacono monumentale, Adriano Ghiozzi. Di là e di qua di Castell’Arquato, a breve distanza, sui due fianchi della Val d’Arda, sono i vigneti di Vigolo Marchese e di Bacedasco, che già Pietro Viola, fededegno e meticolosamente preciso, mi aveva segnalato come l’optimum locale fra i terreni da vino. Più che settantenne, Italo Testa dichiara di non essere mai stato al cinema, di non avere mai visto un film. Non si tratta, dice, di partito preso. Nessun pregiudizio, nessuna preclusione ideologica, per carità! Soltanto, non ha mai avuto il tempo: il vino glielo prende tutto. L’azienda di Italo Testa, a mezza costa su un poggio, ha qualcosa di straordinario, anzi di unico: disordinata, apparentemente improvvisata e casuale: una casa, due case, tre case appiccicate l’una all’altra; e una un po’ più su, l’altra un po’ più giù; un capannone, un altro capannone; una cantina in cui si scende per una scala interna, un’altra che si apre come una polveriera di briganti, tra rocce e pareti mattonate, sul fianco stesso della collina, sotto una delle case. Cisterne e vasche di cemento. Immensi tini e file di botti di rovere di Slavonia. Carrelli da trasporto, montacarichi, trattori, pompe, filtri, torchi, pigiadiraspatrici. Piramidi di damigiane, cataste di casse e di cartoni di bottiglie. Da quando giro per il vino, non ho mai visto, soprattutto a queste dimensioni, un’azienda che dia meno l’impressione dell’industria e che dia più l’impressione di un artigianato rudimentale: quasi non penserei a nulla di serio, ma piuttosto alla manifestazione tumultuosa di un capriccio personale e subitaneo, di un hobby senile, se non mi tornasse a mente la stanza di doctor Daniel, a Trinity College, a Cambridge, o lo studio di Matteo Bartoli, in corso Vinzaglio, a Torino: spettacoli altrettanto formidabili, irrazionali, inquietanti: volumi, carte, schede, opuscoli, dizionari, atlanti; manoscritti in pile di ogni dimensione, lunghezza, larghezza, sottigliezza; costruzioni che giudicavi effimere e che ritrovavi identiche, millimetro per millimetro, a mesi di distanza: mucchi, barriere, torri, ammassi trasversali, obliqui, speroni e strapiombi periclitanti: una generale farraggine quasi post-esplosiva, scaffali tavoli e pavimento ingombri, così che attraversare l’ambiente poteva parere un’impresa da steeplechase. Ignoro le opere di Daniel e il loro valore. Ma Bartoli era un grande maestro, lo è ancora: le sue intuizioni sono ancora, scientificamente, validissime. Così i vini di Testa: non se ne dubita, dopo averli assaggiati: sono punti fermi in questa materia dal giudizio terribilmente opinabile ed instabile: sono sorprendenti e incantevoli. Fuori, su un breve spiazzo erboso davanti alla inferiore cripta enologica, e che si affaccia come un terrazzo sulle vigne della Val d’Arda, sediamo, ora, al tepido mezzogiorno autunnale, Pippo Campanini e io. Chi è Pippo Campanini? Non basterà un volume a descriverlo. Volendo, ad ogni costo, definirlo in poche parole, direi che è “il melodramma in bottiglia”. Sa a memoria musica e parole, libretto e orchestrazione, delle opere di Verdi, di Donizetti, di Bellini: e anche di Wagner. E canta, agli amici, interi atti di seguito: col bicchiere in mano, e il gomito appoggiato al tavolo dell’osteria. Da quando lo frequento, non vado più alla Scala. Campanini è molto meglio: evoca la recita, senza trascurare il suggerimento dei minimi particolari. Il comune amico Filiberto Lodi ama dire che, ascoltando e ammirando Campanini mentre canta, “si vede perfino lo scivolo della ribalta”. Ma tutto questo, naturalmente, significa che Campanini è persona di profonda cultura musicale e letteraria, di vivissima intelligenza, di finissima fantasia. Italo Testa, ora, vuole che proviamo una sua Malvasia appena svinata. Docili, eseguiamo. E Campanini, citando il , esclama: Falstaff Ber del vin dolce e sbottonarsi al sole: dolce cosa! Vin dolce. È il momento che devo fare una confessione. Da qualche tempo, inspiegabilmente, sono sempre più tentato di trascurare i vini secchi o amari e di preferire i dolci. La moda del “secco ad ogni costo” ha certamente imboccato, da una trentina d’anni a questa parte, una via trionfale. Esiste senza dubbio una coincidenza col progressivo potere che da occidente e da oriente sembra schiacciare la vecchia Europa e il suo vecchio cuore francese. Whisky e vodka avanzano inesorabili, riducendo sempre più, nella mappa del gusto mondiale, l’area del cognac e, ancora più, di tutti i liquori decisamente dolci. Non parliamo nemmeno dei vini: quando si beve ancora Sauterne, Graves, Barsac, Château Yquem, e quando i nostri grandi passiti italiani, Caluso, Sciacchetrà, Aleatico, Vin Santo, Moscatello? Eppure, è una decadenza, una rinuncia, una diminuzione. La Bonarda pura di Italo Testa è squisita anche a pasto. E così il suo Moscato e la sua Malvasia, che sono semplicemente perfetti con gli antipasti di salumi, e, ancora meglio, con gli spuntini di coppa o di cacciatorini. Non si tratta di una novità: non è un’idea mia. Nelle campagne piemontesi, gli asciolvere di salame crudo e Moscato d’Asti sono una tradizione antichissima e mai abbandonata. Per il dessert, poi, per le frutta, per i dolci di ogni genere, e per i formaggi, è addirittura blasfemo, secondo me, non adottare regolarmente i vini dolci. Blasfemo, anche, nei nostri climi temperati, sorseggiare, dopo il pasto, whisky, mentre il Vin di Porto o qualunque dei nostri passiti è incomparabilmente più indicato. Provare per credere. Fiato sprecato? Propaganda a vuoto? Il tempo lo dirà. Fino a qualche anno fa, si sarebbe giurato che i giovani non avrebbero, in nessun caso, dimesso mai più la moda delle nuche rase alte. Oggi si giurerebbe il contrario. Tutto, per fortuna, cambia. I vini e i liquori dolci hanno un grande avvenire. A Sorbàra, per “allegrarsi” con il Lambrusco. L’umile champagne dell’Emilia-Romagna. Bevendo Lambrusco non si cambia vino: si cambia bicchiere. I “borlenghi”, colpo proibito della signora Angiolini, la donna che tutti avremmo sposato se fossimo stati saggi. Omaggio a Gino Friedmann. Il bello e il buono del Lambrusco (e del vino in genere). Italo Cosmo, nella monumentale opera da lui diretta , descrive ben otto diversi Lambruschi: Lambrusco Grasparossa, Lambrusco Salamino, Lambrusco di Sorbàra, Lambrusco Maestri, Lambrusco Marani, Lambrusco Montericco, Lambrusco Viadanese e Lambrusco a Foglia Frastagliata. Di tutti questi Lambruschi, dice il Cosmo, “quello di Sorbàra è senza dubbio il più importante perché dà un vino più pregiato degli altri; malauguratamente non si è molto diffuso al di fuori della sua zona originaria, a causa della sua difettosa conformazione floreale, la quale si traduce in scarsa e talora scarsissima fertilità... Oggi lo si trova tuttavia .” Principali vitigni da vino coltivati in Italia in quella parte mediana della pianura modenese compresa tra i fiumi Secchia e Panaro e che ha per centro la frazione di Sorbàra in Comune di Bomporto Come non ricordare il Tassoni? Tra la Secchia e ’l Panaro in un pantano, è Modena città di Lombardia, dove si smerda ogni fedel cristiano che si accinge a passar per quella via. È forse necessario spiegare che lo stesso Stendhal parlava anche di Bologna come di città di Lombardia, e che fino verso la metà del secolo scorso era comunemente chiamata Lombardia tutta l’Emilia? Ad ogni modo, i modenesi corressero il terzo verso del Tassoni così: dove s’allegra ogni fedel cristiano. E noi, oggi, poiché siamo sulla viticoltura del Lambrusco, possiamo benissimo, pensando all’abbondante concimazione che è indispensabile a questo particolarissimo vitigno, ripristinare senza offesa la lezione originale. Siamo dunque stati a Sorbàra, precisamente presso Bomporto, a Rami di Ravarino: e abbiamo visitato, a lungo, l’azienda modello del modenese Mario Angiolini. Angiolini fa ancora il Lambrusco vero, genuino, antico, seguendo in ogni minuto accorgimento i metodi tradizionali, molto più complicati di quanto sia in grado di descriverli un profano come me. Affiancano l’Angiolini nella sua quotidiana fatica, e nella sua passione di produttore, il dottor Giulio Bellini, enotecnico modenese, e il cantiniere Nello Colombi, scherzosamente nominato “caporale di campagna”, perché è sempre lì, tra le vigne e le botti. Carlo Levi, nel suo , quando torna dalla Lucania nel Nord, parla di “campagne matematiche”. Non ho mai visto, certo, vigne più “matematiche” di queste. La razionalità, la geometria erano favorite, anche in passato, dal fatto che la coltivazione si svolge tutta in pianura: ma oggi sono portate a un massimo di perfezione e di simmetria con l’adozione delle tecniche più moderne: applicate, però, nel rispetto assoluto dei sistemi, antichi, che sono integrati e migliorati, mai traditi. Soprattutto, c’è più spazio tra filare e filare. I vitigni sono in numero minore, ma ciascuno di essi produce più uva. La quantità finale del raccolto è praticamente la stessa, e così la qualità: ma la mano d’opera necessaria è molto meno ingente. Cristo si è fermato a Eboli Il Lambrusco di Sorbàra, dunque, è un vitigno autosterile: perché i suoi fiori siano fecondati e perché la vigna dia frutto, è necessaria l’impollinazione da altri tipi di Lambrusco. A questo scopo, Angiolini sfrutta il Lambrusco Salamino e il Lambrusco Maiolo, piantando un filare dell’uno o dell’altro ogni due filari di Sorbàra. La proporzione (40% Salamino o Maiolo, 60% Sorbàra) è poi la stessa che entra nella composizione delle uve alla pigiatura. Per facilitare, a primavera, l’ardua e delicata operazione dell’impollinatura, Angiolini usa speciali ventilatori intubati, che soffiano sui fiori del Salamino o del Maiolo e li sospingono verso quelli del Sorbàra: misto a quel soffio che lentamente percorre le vigne, è uno speciale “zolfo ormonico”, che aiuta e disinfetta il vegetale amplesso. Va da sé che il Maiolo e il Salamino fioriscono, naturalmente, alla stessa epoca del Sorbàra. Egregi “impollinatori”, sono, ambedue, molto mediocri, specialmente il Maiolo, quando, per avventura, vinificati da soli. Si vendemmia tardi: tra il 15 ottobre e i primi di novembre. Si pigiadiraspa. Si lascia fermentare, per i primi quattro o cinque giorni, con le bucce. Poi si lascia fermentare, più lentamente possibile, per circa un mese. Frattanto, avviene un’altra operazione, speciale per il Lambrusco, e che costituisce la sua principale caratteristica: appena la fermentazione si fa “tumultuosa”, si separa dal mosto un quantitativo corrispondente a un decimo del totale, e, questo decimo, lo si filtra: se ne ricava un liquido rosa carico, dolcissimo, tre gradi di alcool e quattordici di zucchero, e lo si lascia da parte. I nove decimi restanti non sono mai filtrati, solo travasati: in febbraio, vi si unisce il filtrato. Ricomincia, allora, un’altra fermentazione. E dopo un mese, si imbottiglia. Il Lambrusco, nella sua creduta umiltà, assomiglia così allo champagne: l’ultima e più importante parte della sua fermentazione avviene in bottiglia. Le bottiglie si tengono sdraiate fino a luglio, poi ritte. I tappi sono legati con lo spago, artigianalmente, da operaie specializzate: si tratta di un accorgimento indispensabile, per via della pressione esercitata, nell’interno della bottiglia, dall’anidride carbonica che si è venuta formando naturalmente con l’aggiunta del filtrato dolce. Il Lambrusco, così lavorato, è buono da bere verso la fine dell’estate successiva all’anno della vendemmia: e continua ad essere buono soltanto fino all’estate ancora successiva. In altre parole, il Lambrusco dura da un anno a due: non di più. E se esiste un vino per cui sarebbe necessaria quell’etichetta di scadenza, che il dottor Guido Marri di Faenza propone e propugna, questo è proprio il Lambrusco. Un’altra avvertenza. Come per il cosiddetto Gutturnio, anche il Lambrusco presenta, e , se è a fermentazione naturale e se non è “trattato”, sedimenti fecciosi. Per questa ragione, quando si beve Lambrusco, bisogna cambiare bicchiere frequentemente: ogni due o tre bicchieri. È il contrario dell’uso comune: se non si cambia vino, appunto perché non lo si cambia, bisogna cambiare il bicchiere. Nell’eguale grigiore della nebbiolina, che occupa la semisfera del cielo tutto intorno, fino a combaciare col disco immenso dell’orizzonte, i vigneti di Angiolini appaiono, adesso, ancora più geometrici. E geometrici, qua e là, come termini miliari di uno spazio astratto, sono i perfetti dadi delle case coloniche, intonacati di un carico color albicocca, complementare al grigioazzurro del cielo e al verdegrigio delle vigne. deve presentare Al piano terreno di uno di questi dadi Angiolini ha fatto preparare la colazione dalle sue donne. La moglie, signora Franca, “superintende”: è un’emiliana di quelle che fanno pensare che, se fossimo stati saggi, avremmo, tutti, dovuto scegliere per moglie un’emiliana come lei: bella e brava in tutto e per tutto. La mensa è rustica, in un’angusta camera attigua alla vasta cucina. Il menu è strepitoso: una sfida che per parteciparvi con probabilità di vittoria bisognerebbe esservi allenati o, forse, avere qualche anno meno di quelli che ho. “In principio, erano i tortellini”: impasto lasciato amalgamarsi al fresco per tre giorni, e che comprende i seguenti ingredienti: prosciutto, mortadella, lombo di maiale appena scottato, polpa di vitello, polpa di gallina, parmigiano, pepe, noce moscata, uova. Secondo: zampone di Modena, con purea di patate e fagioloni grossi: naturalmente, si mangia e si deve mangiare anche la cotica. Terzo: i lessi, gallina e manzo scuro, marmorizzato di grasso, a spesse fette: salse crude. Insalata. Lambrusco su tutto, cambiando sempre i bicchieri. E, botta finale, che dobbiamo incassare senza batter ciglio, senza osservare che avrebbe dovuto essere, almeno, una botta iniziale, i Che cosa sono i ? borlenghi. borlenghi Una semplice pastella: farina, lardo, acqua (o anche latte), sale, aglio tritato e crudo, rosmarino, parmigiano. La cuoca misura a occhio un certo quantitativo di pastella su un testo di ferro. Il testo è una padella senza bordi e dal lunghissimo manico. La cuoca manovra abilmente il manico, inclinandolo di qua e di là, bilanciandolo, così che la pastella si stenda sopra il disco di ferro, e raggiunga tutto in giro i limiti ma senza mai uscirne. Mette il testo sul fuoco. Lo copre con un altro testo, identico. I due dischi, sul fuoco, combaciano perfettamente. La cuoca allora li tiene schiacciati con un pesante ferro da stiro. Li volta e rivolta. Dopo qualche minuto, ecco, i sono pronti: sottili come un’ostia, croccanti, sfogliati, profumati. Un cibo da knock-out. Viene soltanto il rimorso di non averlo saputo prima. E viene il desiderio, in futuro, per una volta, di fare un pasto esclusivamente composto di , ed esclusivamente accompagnato dal Lambrusco. È con noi Magli, l’industriale di Bologna. Bel tipo, tutto nervi, tutto scatti e “iniziative”. A tavola, si fa onore anche lui, accettando la sfida, borlenghi compresi, e forse cavandosela meglio di noi, diavolo d’uomo. borlenghi borlenghi Si parla a lungo, a tavola, dell’avvocato Gino Friedmann, che è morto, a novantatré anni, poco tempo fa. Friedmann, ebreo per elezione padano, pare che fosse una persona straordinariamente intelligente e moderna. Capì che per la delicata vitivinicoltura dei Lambruschi, e per la complicata lavorazione conclusiva, era necessario operare su vasta scala: soltanto vinificando una quantità relativamente cospicua di uve si poteva raggiungere un prodotto pregiato. Fondò, così, e non per scopi sociali, ma per motivi strettamente tecnici ed enologici, la cooperazione locale. Oggi, se nel Modenese si fa ancora del vero Lambrusco, lo si deve anche a Friedmann. A questo punto, resterebbe da parlare del Lambrusco in sé, come è, del sapore che ha. Si dirà: chi non lo conosce? Eppure, il vero Lambrusco, nella grande maggioranza dei casi, si crede di conoscerlo, e invece lo si ignora. Se quello che bevvi nel 1926 al Buffet de la Gare di Borgo San Donnino non era Lambrusco, posso dire di averne bevuto per la prima volta soltanto nel 1957, nel tinello del parroco di Sorbàra. Per un giudizio organolettico, sono, di nuovo, costretto a citare il Cosmo. Sarebbe inutile ogni tentativo di dire meglio. Il Lambrusco, dunque, alla fine di febbraio o ai primi di marzo, un mese dopo l’aggiunta del , e cioè quando è ancora giovane e amabile, lo si imbottiglia “allo scopo di ottenere un vino asciutto, o quasi asciutto, e frizzante. Si presenta, allora, di colore rosso rubino o granata, provvisto di un gradevole profumo speciale che ricorda quello della violetta, abbastanza di corpo, fresco, sapido e armonico, che ben si concilia specialmente con certe vivande a base di carne suina, di cui nel Modenese e in genere in tutta l’Emilia si fa ampio consumo”. filtrato Tuttavia, il Lambrusco che bevvi dal parroco di Sorbàra, era chiarissimo, quasi rosa: profumato, secco, spumante, di fragile corpo. Non esistono, per i vini, leggi assolute. Sono esseri viventi, al pari di creature umane. Riescono come riescono: imprevedibili, vari, capricciosi. Il loro bello, e il loro buono. A Imola, nel cuore politico e vitivinicolo della Romagna. Frutta colorata di veleno. L’Albana vinificata in bianco di Mario Neri. Di cantina in cantina (senza dimenticare le trattorie). Prime intuizioni sui segreti del Sangiovese. Quando si entra nel Palazzo Comunale di Imola, si ha l’impressione di entrare in un cuore dell’Italia: dell’Italia di ieri l’altro e di ieri nell’Italia di oggi, che qui appaiono complesse, unite, inestricabilmente avvinte. Costruito nel secolo XII, all’epoca dei Comuni, rivela tracce di tutti i secoli successivi, durante cui fu ampliato, abbellito, garbatamente modernizzato. Gli uffici del sindaco sono di splendida architettura e di intatto arredo settecentesco. Infine, ai quattro angoli dell’Aula Conciliare, c’è tutta la nostra storia più recente, rappresentata da quattro busti: il Conte Giovanni Codronchi, uomo politico di destra nel nuovo Regno e nell’Italia umbertina, deputato, senatore, ministro, amicissimo del Minghetti; Giuseppe Scarabelli, grande geologo e paletnologo (1820-1905); Andrea Costa, fondatore del partito socialista; Anselmo Marabini, fondatore di quello comunista. Ho detto “un cuore” e non “il cuore” perché, senza dubbio, l’Italia, per sua natura e per sue vicende, ha molti cuori. Ma la Romagna, forse, è quello che batte con maggiore violenza. Fascista, certo, e : ma, proprio per questo, e ancora di più, antifascista. “Le cooperative agrarie e industriali di Imola furono le sole che il fascismo non riuscì mai a distruggere”: questa è una delle prime cose che mi dice il giovane sindaco di Imola, Amedeo Ruggi, accogliendomi nell’antico Palazzo. Passo con lui l’intera giornata. Mi accompagna nelle vigne e nelle cantine. Mi svela la Romagna e, senza volerlo, se stesso. Di tutti gli amministratori pubblici che ho conosciuto, nessuno mi sembra, come lui, Dai suoi discorsi e dalle sue osservazioni, mi risultò che la caratteristica fondamentale del suo pensiero era una costante preoccupazione per tutti i cittadini: secondo la misura del bisogno, ma senza trascurare nessun ceto, nessuna categoria, nessuna idea, vorrei dire nessun individuo, e rispettando ciascuno con assoluta equità, come un vero padre ama dello stesso amore ciascuno dei propri figli. pour cause sindaco nato. La vitivinicoltura è una delle importanti attività dell’Imolese. I vini più pregiati, anche qui, come in tutto il resto della Regione, salvo la zona del Lambrusco, si fanno in collina. Sulle alture di Dozza, nel vecchio castello, visito la prima enoteca di mio gusto: perché non ha assurde, irrealizzabili ambizioni enciclopediche, ma si limita ad esporre tutti i vini del luogo, e soltanto quelli. Compatibilmente con l’ondosità del terreno, anche qui si venera, nelle vigne, la geometria. Le piantagioni sperimentali del dottor Umberto Lunati, capo dell’Ufficio agricolo della zona, sono attigue a quelle dell’azienda privata di Folco Galeati: e le une e le altre seguono senza deflettere dalla rigorosa orientazione nord-sud l’avvallarsi e il risalire, in grandiose prospettive, di una profonda piega collinare. Le chiude una selvetta di albicocchi, tronchi neri e foglie di un giallo carico trasparenti al sole, con un effetto cromatico che ha del miracoloso. Ad ogni modo, osservo come le foglie dell’albicocco, in questa stagione, prendano il colore esatto dell’albicocca matura. La frutta, non le albicocche, per fortuna, né le pesche, ma le pere e le mele sono uno dei più gravi crucci del signor sindaco: una vera disperazione. Anche quest’anno, nell’Imolese come altrove, per esempio nel Modenese, la produzione delle pere e delle mele superò la richiesta del mercato. Per “tenere su i prezzi”, fu dunque necessario gettare via e, anzi, annullare forti quantitativi, ammassandoli nei campi, e cospargendoli di veleni colorati che ne impediscono il consumo. Lo spettacolo stringe il cuore. Avrebbe dovuto essere possibile, in un paese civile e organizzato modernamente come il nostro, distribuire questo enorme ad ospedali, sanatori, ricoveri di mendicità, zone depresse. Senonché, manca il denaro necessario a coprire il costo dei trasporti e di relativi controlli, che la frutta distribuita per beneficenza non sia poi sottratta al suo scopo. Per fortuna, il boom del vino non accenna a diminuire: le vigne continuano a rendere. surplus Assaggiamo da Galeati Albana, Sauvignon, Trebbiano, Sangiovese. È straordinaria l’alta gradazione alcoolica, che tutti questi vini normalmente raggiungono qui, specialmente quando le uve sono di collina. Altra particolarità: l’Albana è una conseguenza del tipo di terreno su cui è coltivata: quando, cioè, le vigne sono vicine ai cosiddetti (bollitori), sorta di piccoli vulcanelli naturali simili ai geyser. Rendiamo omaggio, sempre nella zona di Dozza, alla cantina del professor Mario Neri, predecessore del Lunati nel suo incarico ufficiale, e adesso in operosissima. Neri, oltre ai vini locali, produce, in piccole quantità, e sempre con successo (lo dico perché li ho provati), vini di altre parti, i più impensati: fino al Pinot Grigio e a uno squisito Nebbiolo non dolce. dolce buldùr retraite La passione sperimentale del vecchio Neri commuove. Ma non è detto che sia un capriccio. Lui sostiene che i vini bianchi di Romagna dovrebbero, assolutamente dovrebbero, essere vinificati : ossia in bianco, senza lasciar fermentare anche le bucce. E, dopo le prove di assaggio che abbiamo eseguito, non è detto che abbia torto. L’Albana, infatti, ha quel colore dorato-ambrato carico proprio perché le bucce, con cui fermenta, sono ricche di tannino. Ed ha un gusto speciale, dolciastro anche quando non si tratta del tipo dolce, un sapore quasi di arachide tostata, che ricorda un po’ il Greco di Avellino, e che non a tutti riesce sempre gradevole. L’Albana di Neri è decisamente più chiara, più asciutta, più liscia: secondo me, preferibile. Né mi contraddico: normalmente, i migliori risultati, li si ottengono quando si rispettano le tradizioni locali: non bisogna, però, esserne schiavi. E quando un uomo dell’età e dell’esperienza e della passione di Neri patrocina un’innovazione, penso che valga la pena di tentare. La gente del posto, credo che darebbe sempre il proprio voto all’Albana pesante a cui è abituata: i forestieri, molto probabilmente, sceglierebbero l’Albana vinificata in bianco. alla tirolese Colazione a Sasso Morelli, in pianura, alla Sterlina, un’osteria dove, a me e ai miei compagni di viaggio, sembra che le donne di cucina, senza saperlo, siano entrate in gara con quelle di Sorbàra, di Castell’Arquato, di Rivergaro, per riportare la vittoria finale. Tre qualità di pastasciutta. Fra cui, i famosi fatti in casa con l’aiuto di un pettine da telaio, morbidissimi, quasi impregnati di ragù. E poi, una colossale grigliata di varie qualità di carne, primissime le braciole di castrato. E le , focacce piatte, salate, non lievitate, diverse dai borlenghi, più semplici, ma certamente non inferiori. garganelli piadine È stato qui, ad ogni modo, che assaggiando i vini del Neri, ammirando il pane che era in tavola, e spiando curiosamente nelle cucine, ho intuito, di colpo, l’esistenza di quel rapporto triplo che ho detto, e che esiste, in Emilia e Romagna, tra il cibo, il vino e le donne. Annotta, e vediamo ancora due cantine: quella dei Pasolini dall’Onda, e quella di Mario Bufferli. La grande azienda vinicola dei Pasolini è al castello di Montericco, presso Imola, un promontorio sulla pianura. Non bisogna confondere col Montericco del Comune di Altinea, in provincia di Reggio, patria dell’omonima varietà di vitigno Lambrusco. Desideria Pasolini ci riceve con uno sfavillio di gentilezze: e coi vini e con le piadine di rito, mi fa conoscere, per la prima volta, lo : un formaggio fresco, più liquido della ricotta, più lieve dello stracchino, scivoloso, saporoso, indimenticabile. squaccherone Dal Nobil Uomo Luciano Bufferli, in una rustica villa-cantina-piccola azienda, tra la valle del Sellustra e quella del Sìllaro, comincio finalmente a capire che cosa sia il Sangiovese. Siamo raccolti davanti al caminetto, dove fiammeggiano frammenti di pali delle vecchie vigne. Bufferli stesso, che è venuto da Bologna per noi, e il suo cantiniere e factotum Anselmo Foresti (biondo e occhicerulo, longobardo: anche questa è Lombardia!) ci spiegano come fanno il vino. Travasano tre volte, non filtrano mai. L’Albana raggiunge 14 gradi, anche più. Il Sangiovese 13. Per un anno sta in botte, poi lo si imbottiglia. Il Sangiovese è eccelso: profumato lontanamente di lampone, colore rubino intenso, sapore asciutto un po’ tannico, retrogusto gradevolmente amarognolo, violento ma fresco di una freschezza sua naturale e indipendente dalla temperatura. Non c’è dubbio che possa invecchiare bene: ma, secondo me, solo in certi casi, e cioè secondo le zone in cui le uve sono coltivate. Per esempio, nel Senese, a Montalcino, il Brunello (che è fatto di puro Sangiovese) non è buono prima di tre o quattro anni: e migliora con il tempo. Qui, in Romagna, penso che il Sangiovese sia ottimo di un anno o di due. Ma non pretendo di affermare una verità assoluta. Forse, il giudizio sulle possibilità di invecchiamento del Sangiovese varia da cantina a cantina, da tipo a tipo. In ogni caso, sono invece sicuro che il Sangiovese è naturalmente un vino comune ma, talvolta, di classe: come, per esempio, il Beaujolais e la Barbera. Sono accolto dallo stato maggiore della Cantina Sociale di Faenza. Il Sangiovese è “anche” di pronta beva. Approssimazioni sui vini della Romagna dopo assaggi copiosi. Vado a Brisighella per vedere la casa di Giovanni Albonetti innamorato della libertà. La Comunità dei nostri sogni. Il giorno dopo, a Faenza, la Cantina Sociale. Tutto lo stato maggiore: il presidente Pasquale Baccherini; il consigliere Lino Celotti, cugino del mio carissimo Giovanni Albonetti; Antonio Mita, direttore e vice presidente; il dottor Alteo Dolcini, segretario generale del Comune e presidente dell’Ente tutela vini regionali, “inventore” del , un club che raduna esperti, letterati e personalità varie intorno alla celebrazione e alla promozione dei vini di Romagna. Arrivano, poi, anche Guido Marri, insegnante al locale Istituto Professionale Agrario, e l’amico Claudio Marabini, letterato e giornalista. Tribunato La Cantina Sociale di Faenza vinifica, ogni anno, circa 270.000 quintali di uva, ottenendo circa 200.000 ettolitri di vino. Sangiovese, Albana, Trebbiano. Una grande quantità è destinata al taglio, od è venduta per la fabbricazione dei vermut e dei liquori. Ma una parte è riservata al consumo diretto e, da qualche tempo, la Cantina Sociale ha provato, con grande successo, a produrre qualità pregiate. Non esiste nessun motivo perché ciò non avvenga e non possa avvenire. Oltre le immense cisterne di vetro e cemento per il vino di massa, ho visto bellissime botti di rovere di Slavonia, dove, appunto, si conserva il vino di qualità extra, prima di imbottigliarlo. I romagnoli, che si dedicano alla produzione vinicola, si lamentano, non senza ragione, che il , antico emblema delle Romagne, sia, invece, stato attribuito legalmente alle etichette di un certo tipo di Chianti a denominazione controllata. I romagnoli hanno provveduto a inventare un altro marchio: il volto barbuto del Passatore. Va bene anche quello. Ma non è la stessa cosa. E poi, perché continuare ad associare la Romagna al ricordo di un bandito, sia pure simpaticissimo? marchio del Gallo Antonio Mita e Alteo Dolcini partono in aperta polemica contro l’opinione comune che il Sangiovese sia un vino “di pronta beva”; buono soltanto da giovane. Insistono che si tratta di un pregiudizio, a cui portano il loro contributo gli stessi letterati e scrittori romagnoli: primissimo il Serantini. Dico sinceramente la mia. E concludo, che si può almeno essere tutti d’accordo sul fatto che il Sangiovese sia, , di pronta beva. anche Guido Marri, quello che vorrebbe la data di scadenza per certi vini, continua a sorprendermi: dice che un ottimo vino di Romagna è anche il Trebbiano che si fa in pianura, per esempio il Savarna. E infine predica contro l’uso della ceralacca sui tappi. La ceralacca, dice, è solubilissima nell’alcool. Basta un minimo frammento, basta un milligrammo che cada nel bicchiere, o che, lungo il collo, scivoli dentro la bottiglia appena aperta, per rovinare completamente il vino. Non possiamo non dargli ragione, e gliela diamo, collegialmente. Davanti a noi, è una tavolata, lunga parecchi metri, e carica di bicchieri, e di bottiglie di vini diversi, tutti romagnoli. Gli assaggi cominciano, e si accavallano. Noto, in particolare, i seguenti vini: il Sangiovese della Cantina Sociale di Faenza, anni ’66 e ’67; lo Spalletti di Savignano (Forlì), anno ’68; e quello di Marzeno (Ravenna). Poi quel Trebbiano che diceva Marri, della fattoria Brocchi dei Conti Gardi dell’Ardenghesca (Ravenna). E poi l’Albana amabile e frizzante, da dessert, del ’69, della stessa Cantina Sociale di Faenza. E infine l’Albana di Sergio Liverani, tredici gradi di alcool, prodotta a San Leonardo (Forlì). Ho assaggiato altri venti o trenta vini, mi sono parsi inferiori a questi che ho detto. Ma non ci potrei giurare. Dopo colazione, finché c’è ancora un po’ di luce, vado a Brisighella, la patria del mio amico Albonetti, uomo innamorato della libertà, il quale purtroppo non ha potuto raggiungermi qui come mi aveva lasciato sperare. Mi accompagna suo cugino Lino Celotti. Voglio vedere la casa di Albonetti. Brisighella è una cittadina meravigliosa, in leggero sbalzo sulla pianura, ai piedi di tre altissimi, scenografici colli: la snella vetta su cui sorge la Torre dell’Orologio; la Rocca centrale; la Chiesa di Monticino. Ma più mi affascina la via che scende dolcemente verso ponente, e dove, in fondo, a sinistra, è la casa del mio amico. È una via spaziosa, alberata. Le case sono una attaccata all’altra, di qua e di là, tutte eguali o quasi eguali come dimensioni e come disegno: tre finestre al secondo piano, tre al primo e la centrale col balcone, due al terreno con, al centro, sotto il balcone, un portoncino di legno dalla sommità centinata: e tutte, però, molto diverse di colore, in una gamma di squisite sfumature. Ve n’è una bianca avorio con le persiane gialle. Una bianca perla con le persiane grige. Una salmone con le persiane rosse. Una verde chiaro con le persiane verde scuro. Un’altra rosa con le persiane rosse. E un’altra ancora, grigio talpa con le persiane bianco latte. Vari toni si alternano negli intonaci e nelle persiane: vari bianchi, verdi, rosa, marrone, gialli, albicocca... E l’effetto generale è stranamente riposante: come di un paese idealmente ordinato e organizzato, dove, però, ciascuna famiglia o, piuttosto, ciascun capofamiglia sia libero di seguire i propri gusti, senza dare fastidio agli altri. Percorro adagio la via. Alla fine, mi accorgo che tutte le case, sul retro, danno ciascuna sul proprio orticello o giardinetto privato: una fila verso la pianura, e verso la collina l’altra... Amico Albonetti, non è forse la Comunità dei nostri sogni? Sangiovese di botte al Castello di Ribano. Da bambino, come tutti i miei compagni di scuola, avevo amato la distesa melodia di certi versi del Pascoli, che evocavano il paesaggio di Romagna intorno al villaggio natio. Ma soltanto adesso, uscendo dall’autostrada a Sant’Arcangelo, là dove finalmente le colline di Romagna vedono il mare mentre la pianura vi si confonde e muore: ripassando da Savignano, vicino, appunto, a San Mauro Pascoli: risalendo verso Borghi e Sogliano la sublime strada in cresta che divide i tratti ultimi e pianeggianti delle vallate dell’Uso e del Marecchia, quasi fuse in un grande estuario interrato, dalla valletta più alpestre del Rubicone: soltanto adesso mi rendo conto che la poesia non è tutta opera del poeta, ma è anche qualcosa che, misteriosamente e musicalmente, passa nelle parole dalla realtà che le ha ispirate. La giornata, forse, favoriva e completava quest’impressione: era la vigilia dei Santi, un sabato di grande sole e grande vento. Immensità: a sinistra, il mare, striscia cenerognola in cui degradavano la pianura coltivata, le spiagge, il tritume degli insediamenti balneari; vicino a noi, sulle colline che scendevano di qua e di là dalla nostra strada, e risalivano per ridiscendere e ancora risalire più lontane, l’ininterrotta, a perdita d’occhio, increspatura verdegialla dei vigneti; davanti, nereggiante, solenne, quasi tragica, la sagoma grifagna del Montefeltro, successive vette montuose, prolungate ed esagerate in rocche feudali, che dal Titano alla Perticara si protendevano verso l’Adriatico, tutte con lo stesso strano profilo adunco. Al Castello di Ribano, ci attende il dottor Luigi Bonfiglioli, enologo del Conte Venceslao Spalletti-Trivelli, che ereditò questi terreni per via femminile da Giulio, l’ultimo dei Rasponi-Murat e discendente di Gioacchino. Il “castello” è un castellaccio, una costruzione rustica ma antica e, per me, molto più simpatica di molti monumenti nazionali: abitabile, insomma, anche oggi, e senza paura di fantasmi. Un tempo era il casino di campagna dei monaci di Classe (Ravenna), dai quali fu costruito verso la fine del Cinquecento. Ora è la sede dell’Azienda Vinicola Spalletti. Sta in cima al poggio ventoso, ed è al centro di vigneti. La quantità della produzione, un massimo di 2500 ettolitri, rappresenta, forse, la misura ideale per una buona azienda vinicola: non tanto grande da sconfinare necessariamente nell’industria; ma abbastanza cospicua da permettere l’esercizio di un artigiano “illuminato”. Le cantine sono meravigliose: antiche ma pulitissime, areate, profumate. Facciamo, lì, tra le botti, uno spuntino a base di piadina calda, prosciutto e squaccherone. Proviamo il Sangiovese del ’69 direttamente dalla botte. 12,55 di alcool, mentre quello del ’70 ne ha 13,20. Fino a qualche mese fa, l’azienda del castellaccio non possedeva la corrente elettrica. Bòccoli dice che non esiste prova più sicura della genuinità e della tradizionalità di un vino: infatti, tutti gli apparecchi indispensabili ai filtraggi, alle refrigerazioni, alle stabilizzazioni di ogni tipo, sono azionati dalla corrente elettrica! Beviamo il Sangiovese di botte; e, di nuovo, ma definitivamente, mi convinco che il massimo del in fatto di vino è appunto questo: bere vino di botte. Naturalmente, la grande difficoltà consiste nel fatto che una botte, una volta incominciata, bisogna finirla entro due giorni l’inverno, ed entro un giorno l’estate: altrimenti, l’aria che a poco a poco, col consumo del vino, cresce infiltrandosi tra il coperchio e la superficie del vino, ossida il vino, lo maderizza, lo inacidisce, in un modo o nell’altro lo guasta. L’ideale, dunque, di un vero e serio bevitore di vino sarebbe frequentare un’osteria, una bottiglieria, un locale pubblico qualsiasi che sia in grado di consumare quotidianamente una botticella da un paio di ettolitri. In botti più piccole, il vino è meno buono. Una volta, osterie, bottiglierie, locande del genere erano comunissime. Vi si vendeva solo una o due qualità di vino, ottimo, e – appunto – di botte. Ma oggi? Forse in qualche grosso borgo del Piemonte troviamo ancora questo optimum? Lo troviamo, più probabilmente, a Roma: ma non si tratta di botti vere e proprie, sibbene di vaschette di vetro rivestite di legno; e poi, il vino dei Castelli, buono, c’è ancora? gusto buono Beviamo e ribeviamo il Sangiovese; e, nonostante il continuo rinforzo di piadine e di squaccherone, presto siamo anche troppo felici. Usciamo all’aria. Nel sole e nel vento, nell’immensità dell’orizzonte, sia verso il monte e sia verso il mare. Giriamo per le vigne. Bonfiglioli ci mostra una macchina modernissima e magica: un erpice munito di “tastatore elettronico”, che procede tra un filare e l’altro estirpando meccanicamente le erbacce, ma che evita “da sé” le radici delle viti: ritraendo, rinfoderando le lame ogni volta che passa “al traverso” di una pianta! Addio alla Romagna nella trattoria Noti. Invito Federico Fellini a perdonarci i nostri peccati in nome del “coniglio-in-porchetta”. L’addio alla Romagna, lo diamo alla trattoria Noti, a San Martino di Converseto. È un locale moderno, per turisti senza pretese, per weekendisti borghesi: ma stupendamente panoramico, e insuperabilmente cuciniero. Come se una Divinità segreta avesse guidato e predisposto il nostro viaggio, qui tocchiamo le vette della cucina romagnola. Mai altrove, e mai più, tagliatelle come queste! Mai più e mai altrove, come questa, una grigliata! Sapete che cos’è il “coniglio-in-porchetta”? Forse no. E non lo sa, forse, neanche Federico Fellini, l’altro amico romagnolo al quale sto pensando da stamattina, quando ho visto che il casello di Sant’Arcangelo, dove abbiamo lasciato l’autostrada, si chiama ufficialmente Rimini Nord. Invito Federico Fellini, e invito con lui Giovanni Albonetti: li invito insieme da Noti, al Coniglio-in-Porchetta e al Sangiovese. Se sarà urna bella giornata come questa, ci perdoneremo a vicenda, senza neanche bisogno di confessarceli, tutti i nostri peccati.