Contro l’ingiusta divisione in “Marca sporca” e “Marca pulita”. Dai cupi borghi dell’Appennino la poesia di Giacomo Leopardi. Gli “interminati spazi” che si aprono dalle strade in cresta. Il paese dei nonni.
Se, tra le regioni italiane, l’Abruzzo è il Nord del Sud, e se la Romagna è il Sud del Nord, le Marche sono, insieme, il Sud del Nord e il Nord del Sud. Ma non si tratta di una semplice giustapposizione. Non è soltanto che la parte settentrionale delle Marche, ossia le provincie di Pesaro e di Ancona più una metà di quella di Macerata rappresentino il Nord, mentre l’altra metà di quella di Macerata più la provincia di Ascoli Piceno rappresentino il Sud. No: cotesta divisione, proverbiale, maligna e ingiusta, tra “Marca pulita” e “Marca sporca”, oltre a procedere da una stupida vanità settentrionalistica, si dimostra profondamente sbagliata, perché, nelle Marche, troviamo il cosiddetto “pulito” e il cosiddetto “sporco” mescolati un po’ dappertutto senza possibilità di distinzione. Indipendentemente dalla latitudine, le Marche sono un paese diviso in se stesso, diviso o, se vogliamo, duplice: complicato, contraddittorio, drammatico.
Anche la Toscana, infatti, avrebbe le provincie del Nord ben diverse dalle provincie del Sud: ma la sua forte unità linguistica dura da otto secoli e, soprattutto, i confini di questa unità linguistica combaciarono lungamente ed esattamente con i confini di una decisa autonomia politica e amministrativa. Gli Stati della Chiesa, invece, andavano, attraverso le Marche, fino oltre Bologna: e a sud, tra l’Ascolano e il Regno delle Due Sicilie, non v’era, nella vita familiare, nelle costumanze e nei commerci, quel grande vuoto, quel no man’s land, o, come diceva Cardarelli, “quell’agro senza patria” che fino ai nostri giorni sembra, in qualche modo, circondare Roma separandola dalla Toscana.
A ciò si aggiunga lo strano contrasto che, nelle Marche, per ragioni etniche, geografiche e storiche certamente indagabili ma apparentemente misteriose, esiste sempre, fortissimo, tra gli insediamenti urbani del litorale e quelli delle colline e delle montagne. Ancor oggi, le grandi comunicazioni si svolgono lungo la via adriatica: la stessa navigazione costiera collegava più rapidamente ed agevolmente genti e paesi lontani: ne risultava una vita più libera, più allegra, attiva, moderna. Mentre i centri “interni”, agricoli, feudali, ecclesiastici, anche quando vicinissimi al mare come Recanati, o relativamente vicini come Matelica, gravitavano verso una capitale troppo lontana, raggiungibile soltanto attraverso le strade impervie dell’Appennino, e rimanevano perciò chiusi in se stessi, cupi, isolati in quell’atmosfera e in quella malinconia che fu la sostanza e il nodo della poesia del Leopardi, e che ancor oggi traspare nelle forme e nei colori mesti e dolcissimi di quei colli e nell’architettura di quei paesi.
Da un villaggio all’altro, dall’una all’altra piccola città, le strade seguono, di solito, le creste delle colline, oppure corrono poco sotto di esse. E l’effetto che ne deriva è, ora, di una straordinaria grandiosità, lo sguardo ha, tutto intorno, prospettive senza fine, paesi, poggi, valli, altri poggi, altri paesi, come stupefatti per la lontananza: ora, quando le strade corrono a ridosso delle creste, è l’incanto luminoso del cielo coi suoi “interminati spazi”. In ognuno dei due casi, sembra di viaggiare altissimi, mentre si è soltanto a duecento, trecento metri sul livello del mare. E quest’impressione di altezza non è severa o tragica come in montagna, poiché i colli sono costantemente coltivati, in una varietà, in un ordine, in un’armonia meravigliosa di colori.
Il colore delle Marche, nel ricordo delle carte geografiche su cui sognavo da bambino, e anche adesso, nella realtà di questo viaggio, è “marron”. Marron, il tono base: cui si accordano, sfumature più chiare, tutti gli avana e i crema degli intonaci, degli antichi muri, dei tetti, tutti gli ocra, tutte le “terre” dei campi arati, e, completamente, tutti i verdi un po’ spenti delle colture. Non v’è zona, infine, di queste campagne, nei fondi pianeggianti come lungo i declivi più lenti e come su per i dossi più ripidi, che non sia in parte, e molte volte in massima parte, messo a vigna. La produzione del vino è, per le Marche, un fatto di grande importanza. E la vitivinicoltura riflette fatalmente il carattere duplice della regione: arcaico, chiuso, rusticamente raffinatissimo, ma anche, e forse per questo, come per contraccolpo o compenso, esposta, più di ogni altra regione, agli squilibri di una modernità inconsulta ed esagerata.
“Le Marche” mi disse una volta giustamente l’amico Filiberto Lodi “le Marche è il paese dei nonni.” Credo che tutti gli italiani al di sopra dei cinquant’anni ritrovino, viaggiando nelle Marche, un poco della loro fanciullezza. In nessun altro luogo d’Italia, ho forse visto altrettanta gente, e case, e cantine, così immobili nel tempo: in nessuno, ho gustato vini così genuini e squisiti. Tuttavia, a distanza di pochi chilometri, e qualche volta di pochi metri, ho trovato, anche, le più tristi mistificazioni: le quali forse mi parvero tanto tristi proprio per l’immediata vicinanza con quegli esempi insuperabili di genuinità e di squisitezza.