Nelle provincie di PESARO, ANCONA, MACERATA, ASCOLI PICENO Contro l’ingiusta divisione in “Marca sporca” e “Marca pulita”. Dai cupi borghi dell’Appennino la poesia di Giacomo Leopardi. Gli “interminati spazi” che si aprono dalle strade in cresta. Il paese dei nonni. Se, tra le regioni italiane, l’Abruzzo è il Nord del Sud, e se la Romagna è il Sud del Nord, le Marche sono, insieme, il Sud del Nord e il Nord del Sud. Ma non si tratta di una semplice giustapposizione. Non è soltanto che la parte settentrionale delle Marche, ossia le provincie di Pesaro e di Ancona più una metà di quella di Macerata rappresentino il Nord, mentre l’altra metà di quella di Macerata più la provincia di Ascoli Piceno rappresentino il Sud. No: cotesta divisione, proverbiale, maligna e ingiusta, tra “Marca pulita” e “Marca sporca”, oltre a procedere da una stupida vanità settentrionalistica, si dimostra profondamente sbagliata, perché, nelle Marche, troviamo il cosiddetto “pulito” e il cosiddetto “sporco” mescolati un po’ dappertutto senza possibilità di distinzione. Indipendentemente dalla latitudine, le Marche sono un paese diviso in se stesso, diviso o, se vogliamo, duplice: complicato, contraddittorio, drammatico. Anche la Toscana, infatti, avrebbe le provincie del Nord ben diverse dalle provincie del Sud: ma la sua forte unità linguistica dura da otto secoli e, soprattutto, i confini di questa unità linguistica combaciarono lungamente ed esattamente con i confini di una decisa autonomia politica e amministrativa. Gli Stati della Chiesa, invece, andavano, attraverso le Marche, fino oltre Bologna: e a sud, tra l’Ascolano e il Regno delle Due Sicilie, non v’era, nella vita familiare, nelle costumanze e nei commerci, quel grande vuoto, quel no man’s land, o, come diceva Cardarelli, “quell’agro senza patria” che fino ai nostri giorni sembra, in qualche modo, circondare Roma separandola dalla Toscana. A ciò si aggiunga lo strano contrasto che, nelle Marche, per ragioni etniche, geografiche e storiche certamente indagabili ma apparentemente misteriose, esiste sempre, fortissimo, tra gli insediamenti urbani del litorale e quelli delle colline e delle montagne. Ancor oggi, le grandi comunicazioni si svolgono lungo la via adriatica: la stessa navigazione costiera collegava più rapidamente ed agevolmente genti e paesi lontani: ne risultava una vita più libera, più allegra, attiva, moderna. Mentre i centri “interni”, agricoli, feudali, ecclesiastici, anche quando vicinissimi al mare come Recanati, o relativamente vicini come Matelica, gravitavano verso una capitale troppo lontana, raggiungibile soltanto attraverso le strade impervie dell’Appennino, e rimanevano perciò chiusi in se stessi, cupi, isolati in quell’atmosfera e in quella malinconia che fu la sostanza e il nodo della poesia del Leopardi, e che ancor oggi traspare nelle forme e nei colori mesti e dolcissimi di quei colli e nell’architettura di quei paesi. Da un villaggio all’altro, dall’una all’altra piccola città, le strade seguono, di solito, le creste delle colline, oppure corrono poco sotto di esse. E l’effetto che ne deriva è, ora, di una straordinaria grandiosità, lo sguardo ha, tutto intorno, prospettive senza fine, paesi, poggi, valli, altri poggi, altri paesi, come stupefatti per la lontananza: ora, quando le strade corrono a ridosso delle creste, è l’incanto luminoso del cielo coi suoi “interminati spazi”. In ognuno dei due casi, sembra di viaggiare altissimi, mentre si è soltanto a duecento, trecento metri sul livello del mare. E quest’impressione di altezza non è severa o tragica come in montagna, poiché i colli sono costantemente coltivati, in una varietà, in un ordine, in un’armonia meravigliosa di colori. Il colore delle Marche, nel ricordo delle carte geografiche su cui sognavo da bambino, e anche adesso, nella realtà di questo viaggio, è “marron”. Marron, il tono base: cui si accordano, sfumature più chiare, tutti gli avana e i crema degli intonaci, degli antichi muri, dei tetti, tutti gli ocra, tutte le “terre” dei campi arati, e, completamente, tutti i verdi un po’ spenti delle colture. Non v’è zona, infine, di queste campagne, nei fondi pianeggianti come lungo i declivi più lenti e come su per i dossi più ripidi, che non sia in parte, e molte volte in massima parte, messo a vigna. La produzione del vino è, per le Marche, un fatto di grande importanza. E la vitivinicoltura riflette fatalmente il carattere duplice della regione: arcaico, chiuso, rusticamente raffinatissimo, ma anche, e forse per questo, come per contraccolpo o compenso, esposta, più di ogni altra regione, agli squilibri di una modernità inconsulta ed esagerata. “Le Marche” mi disse una volta giustamente l’amico Filiberto Lodi “le Marche è il paese dei nonni.” Credo che tutti gli italiani al di sopra dei cinquant’anni ritrovino, viaggiando nelle Marche, un poco della loro fanciullezza. In nessun altro luogo d’Italia, ho forse visto altrettanta gente, e case, e cantine, così immobili nel tempo: in nessuno, ho gustato vini così genuini e squisiti. Tuttavia, a distanza di pochi chilometri, e qualche volta di pochi metri, ho trovato, anche, le più tristi mistificazioni: le quali forse mi parvero tanto tristi proprio per l’immediata vicinanza con quegli esempi insuperabili di genuinità e di squisitezza. Asdrubale e il Tasso lungo l’Autostrada del Sole. Allori romani per il familiare Bianchello, trasformato in Bianchello del Metauro. La forse realizzabile utopia del dottor Anzilotti: vino fresco di botte per tutti. Il primo colpo lo ebbi sull’Autostrada. Appena entrato nella regione, restai allibito vedendo certi enormi cartelli che dicevano: A 2000 metri, a 1000 metri, Area di Servizio Metauro. C’era qualcosa di incongruo, qualcosa di grottesco e ridicolo, in quella dicitura. Come si può associare un nome così glorioso e sonante, il ricordo della morte di Asdrubale e il ricordo della Canzone del Tasso, con cifre di chilometraggio e con la parola “servizio”? Tant’è: a Fano, nel celebrato ristorante del cavalier Vagnini, insieme e durante tutta una colossale distribuzione di pesce freschissimo e superbamente cucinato (il brodetto con passatelli, il san Pietro freddo con una specie di salsamariglio; la sogliola con prosciutto e cognac; i gamberetti fritti; il “rombo a scottadito”; gli astucci: ma non ricordo, ahimè, ogni portata) il primo vino che mi toccò assaggiare si chiamava, neanche a farlo apposta, Bianchello del Metauro! Un nome, un’etichetta che era ancora più ridicola del cartello dell’Autostrada. Ricorro al solito ausilio: nel volume quarto della grande opera , trovo tutti i seguenti nomi: Balsamina, Morbidella, Bianchello (senza aggiunte). Greco Bianchello, Biancuccio, Biancone, Biancame. Poiché il vino è fatto, esclusivamente o quasi, con uve di questo unico vitigno, non poteva essere scelto uno qualsiasi degli altri nomi, tutti più antichi e tradizionali? Il vino, dice sempre l’opera citata, è “di colore giallo paglierino, profumo delicato, sapore asciutto, sapido, lievemente acidulo, di medio corpo, armonico. Vino da pasto comune e anche fine o da pesce, se invecchiato almeno di un anno”. È un vino leggero, gradevolissimo, passante, simile ai migliori Trebbiani. Trovo una contraddizione insanabile tra la pomposità imperiale, classicheggiante di “Metauro” e l’umiltà, la familiarità di “Bianchello”: senza contare che Bianchello aderisce al gusto del vino e lo definisce perfettamente. Se proprio si voleva aggiungere un predicato, non bastava “Bianchello di Pesaro, di Fano”? Principali vitigni d’Italia I produttori della qualità di Bianchello che ho assaggiato, e che, ripeto, ho trovato buonissimo, sono il dottor Giovanni Solazzi, fanese, e il dottor Guglielmo Anzilotti, fiorentino, che è genero del Solazzi. Tutti e due sono laureati in agraria e si occupano con passione del loro vino, che producono in società. Modernità e tecnica, ma... quanto basta. Hanno acquistato recentemente una Vaslin, che è l’ultimo grido per pigiare i vini bianchi: ma non usano refrigerare, grazie al cielo. E l’Anzilotti sostiene anche lui che l’optimum del vino sarebbe il vino di botte. Dice perfino di avere ideato, ma non ancora realizzato, un progetto che renderebbe scientificamente possibile il consumo normale del vino di botte. Sono sbalordito e spasmodicamente incuriosito. Di che cosa si tratta? Come ho già detto nel capitolo precedente, il grande guaio, per cui il vino di botte è ormai un’utopia, consiste nell’aria che viene a crearsi tra il coperchio della botte e la superficie del vino man mano consumato: nell’aria che ossida e rovina gradualmente il vino. Soltanto le osterie di una volta, dove si consumava una botte ogni due o tre giorni, potevano permettersi di rinunciare alla bottiglia. Ora, l’Anzilotti ha immaginato un sacco di plastica, che automaticamente si gonfi col decrescere del livello del vino, con cui è a contatto: un sacco di plastica, che riempia, così, tra la superficie del vino, le pareti e il coperchio della botte, fino all’ultimo millimetro dello spazio che si viene a creare. La difficoltà sta nel trovare una materia plastica che assolutamente non sia solubile in presenza di alcool, e che, quindi, non comunichi al vino un gusto anomalo e sgradevole: non lo modifichi, insomma, non lo àlteri. Il progetto mi entusiasma. Ecco un caso in cui la tecnica del progresso può ricongiungersi alla tecnica del passato, recuperando tradizioni alla cui scomparsa ci eravamo ormai rassegnati! Mi auguro che l’Anzilotti non abbandoni le sue ricerche. Sarebbe un grande giorno, per chi ama il vino vero, poter acquistare una botte, tenersela in casa, e consumare quotidianamente il solo vino, giovane, genuino, fresco, che quotidianamente e normalmente si dovrebbe bere. Dopo la colazione, il cavalier Vagnini, antico navigatore, ci offre la “Moretta”: caffè caldo con anicione, rhum e cognac in parti eguali, più una scorza di limone. Bibita da marinai, bibita sovrana per chiudere un pasto di pesce. Andiamo, adesso, a vedere le vigne e la cantina. Lungo la strada, Solazzi mi dà una ricetta per condire i bucatini, ma che va bene anche col riso. L’ho trascritta, ed eccola qui: tonno, olive nere disossate, peperoni rossi dolci, sale; tutto tritato minutissimamente e mescolato con olio leggerissimo o anche di semi. Le vigne sono vicine a Fano, in località Bontà, Comune di Saltàra. Controllo gli apparecchi della cantina. Vedo la Vaslin: mi piace perché, in gran parte, è di legno. Vedo anche una semplicissima diraspatrice. Nessuna traccia di refrigeratori. Poiché il Bianchello è buono, sano, leggero, non ho bisogno d’altro: non esito a raccomandarlo. Il sortilegio di un nome – Fiuminata – mi fa scoprire un nuovo amico. I nomi? mi affido troppo ai nomi, vi do troppa importanza, vi insisto troppo? Forse. Ma i nomi, nell’oceano misterioso della realtà, sono come quei piccoli galleggianti muniti di banderuola, che, sulle onde del mare, tutte diverse ma diverse ad ogni istante, mutevoli e perciò indecifrabili, permettono ai pescatori di ritrovare le reti che hanno gettato e di tirarle su. Come potremmo vivere senza i nomi? Al mare, d’estate, sulle rocce del più meridionale golfo ligure, e nell’estivo congresso dei villeggianti parmigiani, avevo udito i coniugi Artoni, Ninì e Giancarlo, parlare di Fiuminata, paese in provincia di Macerata, sulle montagne, dove avevano, una volta, pranzato con una pecora arrostita sulla griglia, bevendo ottimo vino del luogo, vino marchigiano. Quel nome – Fiuminata – mi aveva, subito, vinto: evocava, chissà, un fuoco arcaico in una notte piena di stelle, in un luogo romito e selvaggio. Sapevo che, in autunno, per questo viaggio del vino, sarei venuto anche nelle Marche. Avevo perciò pregato Giancarlo di dirmi il nome del loro ospite e il suo recapito. Era il professor Memmo Mancia, marchigiano ma neurologo a Parma. Quando fu il momento, prima di partire da Milano, lo cercai: senza tuttavia riuscire a trovarlo. Di nuovo mi rivolsi agli Artoni; e gentilmente Ninì mi fissò un appuntamento col professor Mancia, per la sera del mio arrivo ad Ancona. L’albergo, tutto nuovo ma anticheggiante, modernissimo di attrezzature ma soave di arredamenti, era sul porto: proprio davanti alla Casa dei Doganieri, dove, nel marzo del 1936, sbarcando da Zara con Giacomo Noventa, fui perquisito e punito, per l’innocente contrabbando di mezzo chilo di tabacco da pipa. E lì, all’albergo, trovo ad aspettarmi: ma è un altro Mancia, Enzo Mancia, zio del Memmo. È un uomo di cultura e di lettere, pieno di interessi umani e politici, che vive pendolarmente tra Milano e Chiaravalle, grosso borgo tra Ancona e Jesi. Dove ci portava il discorso, scoprimmo di avere le stesse idee. Sapeva tutto sulle Marche. Breve: ci fu di compagnia affettuosa, di guida, di utilità grandissima nel nostro giro delle vigne e delle cantine, senza abbandonarci mai. E, direte, e Fiuminata? Ci siamo avvicinati, quando siamo stati a Matelica; ma Fiuminata è in alto, presso il displuvio dell’Appennino, e non ci sono vigne. La pecora, sarà per un’altra volta. L’importante è che il nome. Fiuminata, mi abbia condotto, come un sortilegio, alla scoperta di un nuovo amico. Mio tentativo (non riuscito) di corrompere l’Ispettore compartimentale Mario Marchetti. “Orazion picciola” agli enologi marchigiani intorno alla decadenza del Verdicchio. Verdicchio gelato: un nome che si beve. L’infelice anfora venuta di Provenza. L’indomani mattina, per cominciare, adunanza all’Ispettorato agrario. È stata un’idea di Mancia. Ci riceve l’Ispettore compartimentale, dottor Mario Marchetti. Convocati da lui, troviamo vari personaggi e funzionari del “ramo” vitivinicolo regionale: tra questi, il dottor Bruno Ciaffi, che è venuto apposta da Pesaro. Senonché, mi accorgo subito che l’idea di Mancia è stata, allo stesso tempo, razionale e pericolosa. Razionale: perché, volere o volare, tutta la produzione vinicola di una regione passa sempre sotto il controllo dell’Ispettorato; l’Ispettore capo conosce ad uno ad uno tutti coloro che fanno il vino ed ha assaggiato, almeno una volta, almeno un sorso, il vino di ciascuno. Pericolosa: perché l’Ispettore capo è costretto, dalla stessa carica che ricopre, a spogliarsi di ogni preferenza personale e perfino dei propri gusti, e a dimostrarsi imparziale come un arbitro di foot-ball, o, se non altro, come un ideale arbitro di foot-ball. Ogni vinificatore che ottemperi alle disposizioni vigenti della legge deve ricevere da lui la stessa attenzione. La riceve, in questo caso. Bisogna, però, dire che l’equità del comportamento dell’arbitro di calcio viene messa a repentaglio da due ordini di pressioni: la violenza psicologica dei giocatori e del pubblico: la possibilità di corruzione. L’Ispettore agrario si trova a dover fronteggiare soltanto quest’ultima. In ogni caso io, sebbene in senso buono, tento subito di corromperlo: corromperlo, con tutta la oratoria e con tutta la mia letteratura, alla sincerità, e cioè a voler distinguere, parlando con me, tra vini perfettamente legali, anche se infami, e vini semplicemente buoni, anche se (come purtroppo è possibilissimo accada) illegali. Tento: lo aggredisco, lo provoco quasi brutalmente. Ma faccio un buco nel vino. Marchetti è persona, ahimè, scrupolosamente equa. “Ricordo,” così esordisce la mia orazion picciola agli enologi marchigiani, “ricordo il Verdicchio di prima della guerra: il Verdicchio di trentacinque anni fa. Forse il più delizioso dei vini bianchi di tutta Italia. Come mai proprio il Verdicchio è stato, tra tutti i vini bianchi d’Italia, : quello che, precocissimamente, anticipando tutti i suoi colleghi piemontesi veneti romani e toscani, e battendoli tutti sul traguardo della ripresa produttiva nei primi anni del dopoguerra, si prestò al grande inganno del consumismo più spinto, alle pastorizzazioni, alle refrigerazioni, ai filtraggi e compagnia bella? Non mi ricordo di avere più bevuto un Verdicchio possibile dal 1938 o ’39. Come mai questo obbrobrio doveva capitare, prima che dovunque altrove, proprio qui, nelle antiche Marche, così oneste per temperamento e così visceralmente fedeli alle loro tradizioni?” il primo a crollare “Respingo la sua tesi. Ciò che lei dice non risponde al vero,” esclama il buon Marchetti, “ma, dato e non concesso che lei abbia, anche soltanto parzialmente, qualche ragione, ciò che sarebbe accaduto al Verdicchio, è accaduto perché la richiesta era superiore alla produzione: perché il Verdicchio era, come ha detto lei, il più buono di tutti i vini bianchi italiani!” “Va bene,” osservo, “ma la sua spiegazione vale, in ogni caso, soltanto per gli inizi del rilancio del Verdicchio, e cioè soltanto per gli anni 1945 e 1946: il Verdicchio può essere stato genuino, e cioè artigianale, soltanto fino allora... Il mio interrogativo riguarda gli anni seguenti, allorché, immediatamente, il Verdicchio diventò pessimo e quasi imbevibile. Certo, la richiesta continuò a essere superiore alla produzione. Ma non perché il vino meritasse, non perché la richiesta dipendesse da un’esatta valutazione del prodotto. Sciaguratamente, in materia di vini, questo non accade mai, oppure accade troppo raramente. La massa dei consumatori è profondamente ignara. È incapace di gustare e di giudicare. Si lascia ingannare da altre suggestioni...” “Le posso assicurare che non abbiamo fatto nessuna campagna pubblicitaria!” “Lo so, lo so benissimo! La pubblicità vera e più efficace è appunto quella involontaria e casuale: come senza dubbio fu quella del Verdicchio nei primi anni dopo la guerra...” A questo punto, mi rivolsi con una certa solennità a tutti i presenti e aggiunsi: “Mi ascoltino attentamente, prego. Sebbene a quel tempo non mi occupassi, neanche dilettantescamente come faccio ora, dei problemi del vino, il Verdicchio mi piaceva molto, e perciò ci stavo attento; nei ristoranti lo chiedevo sempre; insomma, lo seguivo. Ora, io sono matematicamente sicuro che il grande successo del Verdicchio in Italia, presso gli italiani e presso i turisti stranieri... come loro sanno certamente, il Verdicchio è, dopo il Chianti, il vino italiano più conosciuto e ricercato all’estero... dunque, io sono matematicamente sicuro che il grande successo del Verdicchio è dovuto a due fatti e , che non hanno nulla a che vedere con il gusto e la qualità del vino: primo, il nome; secondo, la forma etrusca o ad anfora, non so come la chiamate, delle bottiglie. Il nome, specialmente d’estate, e specialmente quando si mangia pesce, ha un fascino irresistibile: verdicchio, verdicchio, suona fresco, suona vivo, suona leggero, umile, gradevole, giovanile, naturale, grazioso, gentilmente pungente, vegetalmente acerbetto e piacevole, come un rametto verde pallido, croccante, cricchiante. Chiedere ad alta voce, pronunciare la parola , e, sì, sentirsi rispondere dal cameriere , è già una gioia, è già un bere, più di un bere, è uno scatenarsi istantaneo della fantasia intorno all’immagine poetica più bella che un vino bianco ed estivo possa assumere, è un desiderio che sta per realizzarsi e per venire soddisfatto: al punto che uno (non uno qualunque: il turista italiano o straniero, affamato, accaldato, beato di trovarsi in vacanza su una spiaggia e tra i tavoli di una trattoria), al punto che uno ha tanta voglia di trovare buono il vino corrispondente a quel nome, che poi, effettivamente, novantanove casi su cento, lo trova buono. La bottiglia, poi, compì l’opera nefanda. Per quanto si riferisce a me personalmente, dirò che mentre sono sempre stato sensibile, e lo sono ancora, al nome Verdicchio, la bottiglia non mi è mai piaciuta, dal primo attimo che ne vidi un esemplare. Un vino in quella bottiglia non può essere buono, mi dissi. Allo stesso modo che, in seguito, concepii un orrore immediato e sacrosanto per certe bottiglie di vino racchiuse in una reticella. Ma per forza! A parte, infatti, il pessimo gusto archeologizzante di quella maledetta anfora, penso che qualunque novità che riguardi il recipiente o, in un modo o nell’altro, la presentazione di un vino, sia come la spia di una cattiva coscienza del produttore, il quale, costretto dall’implacabile legge del consumismo a non dare più il vino pigiato con le uve giuste e con i metodi antichi e tradizionali, medita, studia, e finisce per inventare qualche diversa, sorprendente, illudente forma che lo contenga. Mi vogliono dire, loro, che certamente lo sanno, chi è stato ad avere, la prima volta, l’idea dell’anfora?” esterni ridicoli Verdicchio Verdicchio gelato “È stata un’imitazione, voluta dal più importante dei nostri produttori di allora, un’imitazione delle anfore di un vino bianco francese, Tanto è vero che, dopo gli accordi del , quel tipo di anfora ci fu interdetto: perché riservato, come un marchio, appunto al vino di Provenza. Lei avrà notato che, recentemente, abbiamo modificato un po’ la forma: non più ovale, ma a spigoli.” le vin de Provence. MEC Così il Marchetti. E io, tra me, rifletto con amarezza come si imitino sempre più facilmente le imitazioni altrui che non le altrui invenzioni genuine. Da quando esiste il fenomeno del turismo, la pubblicità della Provenza e dei prodotti provenzali fu impostata, violentemente, sull’atmosfera antico-romana e antico-greca di quella stupenda e ormai irrimediabilmente manomessa regione del Mezzogiorno francese. Infatti, il vino di Provenza non esiste più. O, piuttosto, esiste ancora certamente: ma non ho ancora avuto modo e tempo di percorrere la Provenza alla ricerca strenua e disperata dei vini genuini, come sto facendo qui. Anagrafe dei vini marchigiani. Alia ricerca di un sapore di gioventù: vino rosso con il limone. Il vino come memoria e fantasia. Per concludere, l’areopago degli enologi mi informa rapidamente della situazione. I grandi vini marchigiani, regolarmente riconosciuti dai Disciplinari di produzione come vini a denominazione di origine , e con tanto di mappe catastali dove sono minutamente disegnati i confini dei terreni delle vigne, i grandi vini marchigiani sono, a parte il Bianchello di cui abbiamo già parlato, soltanto quattro: due bianchi e due rossi. Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi, con la varietà extra chiamata Verdicchio Classico; Verdicchio di Matelica. Rossi: Rosso Cònero; Rosso Piceno. Si aggiunga la famosa Vernaccia di Serra Petrona, vino rosso, abboccato, spumante: vino antico, pare, e molto raro: il Veronelli nella sua guida ne dice mirabilia: è stata chiesta la denominazione, ma ancora non è stata concessa. Andrò anche a Serra Petrona, altro nome affascinante, e cercherò anche questa Vernaccia, e vedremo. In ogni modo, apprendo che vitigno e vino non hanno nulla a che vedere con le altre Vernacce che conosco: la Vernaccia di Vernazza nelle Cinque Terre, la Vernaccia Sarda, la Vernaccia Laziale, la Vernaccia di San Gimignano, e tutte le Vernatsch dell’Alto Adige. controllata Mi appunto, ora, sul taccuino, accuratamente, i nomi dei migliori produttori di ciascun vino, e le località delle cantine di produzione, infine vorremmo informarci dell’itinerario che bisogna seguire: ma è inutile, verrà con noi Enzo Mancia, che ha geografia e topografia del suo paese in testa e nel cuore. Sul momento di togliere la seduta, rivolgo a Marchetti e agli altri esperti un’ultima domanda: “Moltissimi anni fa,” dico, “quando ero appena maggiorenne e studiavo a Roma, avevo preso l’abitudine, per un lungo periodo di tempo, di pranzare in una trattoria marchigiana, in via Flavia, nei pressi del Ministero delle Finanze. E avevo imparato dai clienti, che erano tutti marchigiani, piccoli artigiani del quartiere o impiegati del Ministero, a bere vino rosso marchigiano con immerso nel bicchiere un bel quarto di limone. Regolarmente, con la forchetta o anche con un dito, il limone doveva essere ben spremuto nel vino. L’asprezza sorprendeva, le prime volte, ma poi ci si prendeva gusto, e in seguito non se ne poteva più fare a meno. Era come ‘imbiancare’ il vino rosso: come trasformarlo un pochino, sebbene rosso, in qualcosa che assomigliava al Verdicchio. Quando si tornava a provare lo stesso vino senza limone, pareva inerte. È davvero un uso marchigiano, questo? Lo si fa ancora, qui? Lo si fa sempre?” “Sempre,” dice Marchetti, “ma sempre col vino comune da pasto, non con le qualità pregiate, naturalmente.” “Non col Rosso Cònero, dunque, né col Rosso Piceno. Con che vino, allora, precisamente?” “Ma con vino andante, volgare, mescolanze di qualunque uva: le rosse come il Sangiovese o il Montepulciano d’Abruzzo, mescolate alle bianche come il Trebbiano: qualunque uva di quelle che si coltivano qui. Appunto perché questo vino, come dice lei, è un po’ inerte, l’asprezza del limone gli dà freschezza e vita. A noi piace, insomma.” Per un piemontese, che fino allora era vissuto a Torino, limone nel vino era una bestemmia, un’assurdità. Ma la novità di quel gusto aspro e fresco, misto alla particolare qualità del vocìo alto e confuso dei clienti, alle strane cadenze del loro dialetto, così brevi e quasi tronche come per una musica trattenuta o una reticenza psicologica, e allo spettacolo dei loro volti accesi, duri e seri, furono la prima idea, la prima esperienza viva che ebbi delle Marche: Leopardi era tutto il resto, e stava sotto, nel profondo. “Vorrei ritrovare,” mormoro quasi vergognandomi e più a me stesso che al dottor Marchetti, “vorrei ritrovare il vino di via Flavia.” Andiamo a colazione in una trattoria famosa per il pesce. Ma è gremita, si dovrebbe aspettare. Come sempre in simili casi, mi rifiuto. Tanto più che dobbiamo sbrigarci: abbiamo in programma, per il pomeriggio, tutta la zona di Jesi e Cupramontana. Usciamo. Pochi passi più in là, entriamo nel ristorante deserto di un albergo di second’ordine. E qui ritrovo e riprovo, col limone, l’esatto gusto del vino di allora. Non è nessuna delle bottiglie offerte in lista o esposte in vista. È un vino vero e locale, che beve soltanto la padrona dell’albergo e di cui era momentaneamente sfornita: ne ha mandato a prendere un po’ al bar dell’angolo: me lo porta in una mezza bottiglia dell’acqua minerale. Questo è il vino. Memoria. Fantasia. Altro che denominazioni di origine e controllate. Dopo chilometri di cisterne e di autoclavi, improvviso a Montecarotto il profumo del Verdicchio ritrovato. Sandra Castellucci, vinificatrice intrepida con berretto alla raffaella. Profumo del Verdicchio e profumi della campagna. La domanda che il dottor Marchetti non fece. Verdicchio dei Castelli di Jesi e Cupramontana, e Verdicchio Classico. La zona è montuosa. Le vigne sono tutte intorno ai quattrocento metri di altitudine, arrivano anche ai cinquecento e forse più. Il Verdicchio, specialmente se buono e vero, assume una gradazione alcoolica piuttosto vibrata: 13, anche 14, e qualche volta verso i 15, mai sotto i 12. naturalmente Mi trovo, adesso, confrontato con una dolorosa necessità. Mi addolora il fatto che soltanto in questa occasione, e cioè soltanto a cominciare dalle Marche, io stia per adottare una severità a cui, prima, nelle altre regioni, non mi ero ancora elevato, o almeno non mi ero elevato fino a questo punto. Ma mi incita proprio l’ammirazione che ho per le Marche, la stima e l’amore che provo per il loro Verdicchio. Qui, come ho già detto, il vino “artigianale” sembra fatto meglio che altrove, e quindi sembra fatto peggio quello “industriale”. Insomma, non nominerò nemmeno tutte le cantine che ho visitato, tutti gli stabilimenti dove ho contemplato, non senza profonda costernazione, le enormi torri cilindriche così simili ai tank delle raffinerie di nafta: dove ho passato in rivista, corrucciatamente, le tetre fila delle cisterne di cemento, le lucide, scintillanti autoclavi, gli acciai inossidabili, gli apparecchi di pastorizzazione e di refrigerazione. Confesso che, malgrado l’ambiente, la prova del gusto mi aveva, lì per lì, quasi convinto. Dopo tutto, il Verdicchio proveniva, certamente, dalle vicine vigne che avevo visto, e dai colli intorno. E il gusto era, lo ripeto, non male. Lì per lì, anzi, pensai che avrei parlato di questi vini, che li avrei citati, e forse raccomandati. Ma poi, a notte, a Montecarotto, un paese un po’ in là e un po’ in disparte, e sempre a sua volta rigorosamente compreso nella “zona aurea” del Verdicchio Classico così come codificata dalla Gazzetta Ufficiale e topografata nei Disciplinari, ho trovato anche il Verdicchio vero: e allora, allora soltanto, ho capito che sarebbe stato sommamente ingiusto, da parte mia, ricordare tutti quegli altri vini che avevo assaggiato prima e che purtroppo avevano il diritto di fregiarsi, né più né meno del Montecarotto, con lo stesso, identico nome. Allorché, davanti alle cisterne e alle autoclavi, non mi ero trattenuto dal protestare davanti a tutti – e allorché, col bicchiere in mano e al naso, avevo biascicato incerte e provvisorie lodi, i miei compagni di viaggio e di assaggio, Bòccoli e Mancia, si erano detti in disaccordo... Adesso, a Montecarotto, nella vecchia, modesta, incantevole cantina dei Fratelli Castellucci, di colpo, appena accosta il naso al bicchiere di vino chiaro, Bòccoli mi grida, prima ancora di assaggiare il primo sorso: “Aveva ragione lei! Il profumo!” La verità è molto semplice: non parliamo della pastorizzazione (ossia il trasferimento rapido, violento e artificiale ad alte temperature), che è per qualunque vino; ma anche la sola refrigerazione (ossia il trasferimento rapido, violento e artificiale a basse temperature, intorno allo zero) ha almeno un’irreversibile conseguenza dannosa sul vino: l’annullamento quasi completo di ogni profumo. E che cos’è il profumo di un vino? Ma Gesù, sono sostanze, aromi, microrganismi che il gelo uccide, e privato dei quali il vino, che è qualcosa di vivente, qualcosa che continua sia pure lievissimamente a fermentare o, in ogni caso, a modificarsi con l’andar del tempo, muore, o resta menomato, sclerotizzato, paralizzato! D’accordo, con la refrigerazione i cosiddetti esistenti nel vino precipitano, si cristallizzano, si solidificano, e possono, così, venire eliminati mediante il filtraggio che sempre segue la refrigerazione. D’accordo, a partire da quel momento, e per tutto l’avvenire, il vino sarà limpidissimo, stabile, trasportabile, magazzinabile, maneggevole, maltrattabile. Ma Gesù, il profumo sarà scomparso per sempre, e, col profumo, almeno una parte del gusto. letale tartrati Qui, nella cantina Castellucci di Montecarotto, sembra di bere il più celebrato, il più raffinato Neuchâtel, come lo si beveva nella Belle Époque (sono, abbastanza vecchio perché si tratti quasi di un ricordo diretto) nel grill del Baur-au-Lac a Zurigo. Non c’è, nemmeno, Chablis che tenga. Siamo in presenza di un prodigio. L’antico Verdicchio sale alle nari, raggiunge il cervello, rianima il nostro oppresso e sfiduciato cuore. Ci aveva accolto, nel severo, nudo, nobile palazzotto che è sopra la cantina e davanti alla Collegiata, Sandra Castellucci: donna simpaticissima, intrepida vinificatrice. Credetemi pure: per fare un vino come questo, ci vuole, ormai, coraggio e fede. Sandra Castellucci è bruna, forte, elegante. Viene ad aprirci il pesante portoncino, e appare con un berretto alla raffaella che la completa e la definisce: e che me la rivelò sulla soglia del suo palazzotto, prima ancora che assaggiassi il suo Verdicchio. Bene ha fatto, la signora Sandra, a scegliere quel berretto: prima di tutto, le sta bene; in secondo luogo, la gloria e la pittura di Raffaello sono così universali che, malgrado le frequentissime aggiunte “di Urbino” oppure “urbinate”, si pensa alla sua patria come a qualcosa di astratto e celeste, e insomma ci si dimentica che Raffaello è marchigiano. Il profumo del Verdicchio, e forse dovrei dire soltanto “di questo Verdicchio”, è, dunque, intenso, fresco, pungente. Il colore è giallo paglierino-verdolino, molto chiaro. Il sapore, che al primissimo contatto, sulla punta della lingua, pare lievemente abboccato, e poi, strisciando la lingua verso sinistra o verso destra, accenna al salato e, procedendo contro la guancia, all’acidulo – d’improvviso, quando lo si pacchia al palato, sprigiona un gusto, e un retrogusto, decisamente aromatico: si pensa ai Riesling, ai Neuchâtel, agli Chablis, ai Gewürtztraminer e ai Pinot Grigi... La classe è la stessa, ma la composizione degli aromi è diversa, particolare al Verdicchio, o almeno a questo Verdicchio, e, insomma, unica. La gradazione alcoolica, per sua natura, è altissima: ogni anno sfiora i 14, o li supera. È spiacente dover ricordare, a questo proposito, che gli altri produttori di Verdicchio, dato che il Disciplinare non esige tanta gradazione, non esitano a ridurla, per aumentare la quantità! Con enorme soddisfazione, anche se con ritardo (ritardo dovuto, forse, alla commossa scoperta della bellezza dell’ambiente, la vecchia cantina ad circhi e a travi, e al presentimento, fuoco fuoco! ci siamo! che stavo per ritrovare il Verdicchio), noto che la forma di bottiglia scelta dalla signora Sandra non è l’anfora, ma – come pare giusto – la renana, a collo lungo e a pancia stretta, appunto perché il vino si raffreddi più rapidamente. E quando usciamo, a notte già alta, e risaliamo il viale alberato fino allo spalto che domina la valle del Fosso di San Fortunato, e le altre valli defluenti di qua all’Esino e di là al Misa, e restiamo a lungo affacciati al parapetto di pietra, scrutando nell’immensa oscurità i lumi sparsi dei villaggi e dei casolari più lontani, ci accorgiamo di un fenomeno stranissimo, che in qualche modo sembra prolungare il valore del Verdicchio: nella frescura della notte autunnale, la campagna dei dolci, e invisibili, se non per quei lumi, avvallamenti sottostanti, spande, esala fino qui una straordinaria fragranza: profumo di legna d’ulivo bruciata bene, profumo di vino ben pigiato, profumo di castagne bollenti e di mele appena colte e radunate nei granai... quali altri profumi? Starei qui tutta la notte, cercando di individuarli. Ma ci aspetta a Moie il dottor Marchetti, a cena dalla “Marescialla”. Dobbiamo andare. Salutiamo la signora Sandra, con un solo rincrescimento: il Verdicchio che lei è disposta a cederci, per i cartoni dell’Istituto Enologico, è molto poco. E la signora Sandra, allora, compie il suo capolavoro: ci indica altri produttori particolari, i quali, a Montecarotto, fanno il Verdicchio buono come il suo: i signori Gasparini, il signor Oreste Cardini. Purtroppo non posso tornare, l’indomani, a Montecarotto. Il nostro programma mi incalza. Attenderò, tremando, l’arrivo dei campioni che ho chiesto ai due montecarottini... Moie è giù, nella piana dell’Esino. Dalla Marescialla, a un tavolo, in un angolo del grande stanzone ormai deserto, il dottor Marchetti ci attende: fuma una sigaretta, tenendola graziosamente e, vorrei dire, settecentescamente, tra le dita arricciolate. Sì, è il gesto con cui si maneggiava, in quel tempo che per tutti noi è così lontano ma per i marchigiani, invece, è ancora misteriosamente vicino, la fragrante tabacchiera, a coperchio aperto, argento e smalto. Vedendoci entrare, Marchetti si leva sorridendo, e porta la mano alla sigaretta e con gesto lento la scosta a mezz’aria, per salutarci. Mi sembra che voglia parlare. Mi sembra che mi voglia rivolgere, subito, una domanda precisa. E mi sembra che, intanto, mi strizzi l’occhio. Ma no. Dice soltanto. “Buonasera. Abbiamo tagliatelle e spezzatino d’agnello alla griglia.” Niente altro. Ma nel suo sorriso leggo, voglio leggere, una pudica intesa: un’approvazione. E la domanda che Marchetti non mi ha rivolto, io ho creduto di udirla egualmente. Faccio conto di averla udita, anche se non è vero, anche se lui, giustissimamente, negherà perfino di averla pensata. Del resto, non era nemmeno una domanda, se non nella retorica formale: “L’ha trovato, il vero Verdicchio, eh?” Scopro il Rosso del Cònero con un “bancario” che discende da Quintino Sella. L’enigma dei veri e falsi Montepulciani. Controversie tra enologi sul Rosso del Cònero e mio parere di profano. Il fantasma della barba del bisnonno intorno al viso di Luigi Sella. Rosso del Cònero. Andiamo alla Fattoria Le Terrazze, dell’avvocato Terni, presso Numana, che è un amenissimo paese sulle falde meridionali del Monte Cònero, all’estremità opposta, rispetto ad Ancona, dell’alto, grande promontorio. Ci è compagno occasionale il dottor Luigi Sella, cugino di quel Venanzio Sella che, presso Biella, a Lessona, pigia l’omonimo vino, antico e squisito, con uve di Nebbiolo. Ho parlato a lungo di Venanzio Sella nel primo viaggio. Mentre Venanzio è un discendente laterale di Quintino Sella, Luigi ne è un discendente diretto. È Direttore generale dell’Istituto Federale del Credito Agrario per l’Italia centrale: quindi, interessato e coinvolto nella produzione vitivinicola. Altissimo, magro, dinoccolato, biondo, roseo pallido, con grandi e sporgenti occhi celesti. Molto giovane, ancora, soprattutto per l’importanza della sua carica. Ci tiene, subito, a precisarmi che lui non è un “banchiere”, bensì un semplice “bancario”. In tale dichiarazione, non posso fare a meno di , riconoscere lo stile, esatto e riservato se altri mai, della famiglia Sella. adgnoscere stilum Le Terrazze sono a mezza costa, rivolte a mezzogiorno, in meravigliosa posizione verso il mare. Uliveti, vigneti, campi coltivati a frumento, e un complesso di simpatiche costruzioni della fine del Settecento o del principio dell’Ottocento: case coloniche, cantine, magazzini, e una villa di proporzioni modeste e di architettura raffinata e tranquilla, dove si potrebbe vivere benissimo anche oggi e dove, infatti, l’avvocato Paolo Emilio Terni con la sua famiglia passa le vacanze. Ci riceve l’amministratore agronomo ed enologo dottor Giacomo Fenìli. Produce vari vini, ma il più importante e il più caratteristico è appunto quello che cerchiamo, il Rosso Cònero. La composizione delle uve prescritta dal Disciplinare è 60% Montepulciano d’Abruzzo, 40% Sangiovese: di questo 40%, un 10% può anche essere di altri vitigni, diversi dal Montepulciano e dal Sangiovese. Il nome Montepulciano è una delle più curiose stranezze, in questa stranissima materia della ampelonomastica, o nomenclatura delle viti. Dunque, esiste, a Montepulciano in provincia di Siena, il famoso vino Nobile di Montepulciano, detto anche, per brevità, Montepulciano, che è il vino immortalato dal Redi con l’endecasillabo tronco e finale del ditirambo (“Montepulciano d’ogni vino è il Re”: non abbiamo la prova che si tratti dello stesso Montepulciano di oggi, ma neanche la prova contraria), e la composizione delle cui uve, sempre secondo il Disciplinare, è questa: Sangiovese grosso 50-70%; Canaiolo nero 10-20%; Malvasia del Chianti e Trebbiano Toscano 10-20%. Come si vede, una formula molto simile a quella del Chianti classico; e in cui, ad ogni modo, signoreggia il Sangiovese. Non una goccia, dunque, proveniente da uve di vitigno Montepulciano, nel vino Montepulciano. Vuole dunque la stranezza che il vino Rosso del Cònero sia fatto principalmente con uve Montepulciano e secondariamente con uve Sangiovese, mentre il vino Nobile di Montepulciano è fatto principalmente con uve Sangiovese! Una specie di rompicapo, che avrà un codicillo nel Rosso Piceno, dove la formula è addirittura rovesciata: 60% Sangiovese, e Montepulciano 40%! La storia di questo nome – Montepulciano – è raccontata diffusamente nella monografia di Bruno Bruni, inclusa nel secondo volume dell’opera del Cosmo più volte citata ( ): sono tre fitte pagine che elencano tutte le sinonimie e tutti i nomi errati, e le probabili vicende della diffusione di questo vitigno nell’Italia centrale. Sta di fatto che, ancor oggi, molti si ostinano a confondere il vitigno Montepulciano e il vino Montepulciano, e il vino e il vitigno Montepulciano col vino e il vitigno Sangiovese. Per quanto riguarda i due, anzi i tre vini, essi sono tra loro diversissimi, anche all’esame e al gusto di un profano. Per quanto riguarda i vitigni, dice il Bruni che “pochi vitigni hanno differenze di caratteri e di attitudini così profonde come il Sangiovese e il Montepulciano.” E il Dalmasso: “questo nome Montepulciano viene usato per indicare vitigni tra loro assolutamente diversi. Si può dire che in un solo caso esso è appropriato, che negli altri si tratta di .” Naturalmente, il solo caso in cui il nome è appropriato include il Rosso Cònero e il Rosso Piceno. Principali vitigni da vino coltivati in Italia falsi Montepulciani La cantina delle Terrazze è vasta ed antica: pulitissima, ma senza la minima traccia di meccanizzazione. Il dottor Fenìli spiega brevemente come avvenga la lavorazione. Si vendemmia verso la metà di ottobre. Un decimo della quantità delle uve, scelte tra le migliori, lo si appende a spaghi, che infatti vedo tesi attraverso le botti, e carichi di grappoli. Gli altri nove decimi, li si pigiano normalmente. Verso la metà di dicembre, i grappoli appassiti in cantina, li si sgranano a mano, gettando acino per acino dentro il vino già pigiato fin da ottobre. Ricomincia così una fermentazione. E a marzo si travasa. Il vino è bevibile alla fine di luglio. Quello del ’68 fece 13 gradi di alcool; quello del ’69, 12. Si prevede un’alta gradazione per quest’anno, forse 14 o poco meno. Ho provato anche un Cònero del ’63. Buono, ancora buono, ma certamente non eccelso. Mi pare un vino che debba essere bevuto di uno, due, tre anni, non più vecchio. Tuttavia, bisogna (non fosse che per le conseguenze di quell’operazione di rigoverno) attendere fino a luglio. E questa è una delle differenze col Rosso Piceno e, in genere, coi vini dove predomina il Sangiovese, e che sono , o che almeno possono essere pronti, a febbraio. Quanto al gusto, il Cònero ha più corpo del Sangiovese: è, come dire? un vino più serio, con maggiore acidità, e si presta, perciò, a un invecchiamento relativamente più prolungato. L’analisi del Fenìli contrasta, qui, con quella del Bruni, secondo il quale il vino pigiato con uve a prevalenza di Montepulciano non invecchia bene, e lo stesso Disciplinare precisa che deve essere “smaltito” entro un massimo di due anni. Non è la prima volta che gli enologi si dimostrano di pareri diversi. Come ho detto da profano, dopo aver assaggiato varie annate, sto per il Cònero giovane, se non proprio giovanissimo. pronti Proseguiamo nel nostro viaggio, e Sella, che deve tornare ad Ancona, ci lascia. Saluta sulla soglia della cantina. Controluce, incorniciato dall’arco a tutto sesto, lo osservo mentre stringe le mani a ciascuno. E non dirò, no, che il lungo braccio respinga l’altro mortale, ma certamente lo distacca, gentilmente e nettamente, da se stesso, mentre il longilineo torace esegue un breve inchino. Un modo di salutare da sovrano, disinvolto, affabile, naturalissimo, ma da sovrano. Per un attimo, infine, mentre continua a salutare, gli immagino, quasi “gli vedo”, intorno alla scarne guance, la barba bionda e crespa, da alpinista-pioniere, di suo bisnonno. Sarebbe, nel 1985, il più bel Presidente che la Repubblica Italiana potrebbe avere. Verso Cupramarittima per il Rosso Piceno. La villa surrealista di Boccabianca e le vigne “astratte” di Monte Prandone. Ingresso in Ascoli all’ora del passeggio. Una strana assenza di tube. Rosso Piceno. Appuntamento, a Pedaso, con l’Ispettore agrario della provincia di Ascoli. Bell’uomo alto e grosso, cordiale, umanissimo. Si chiama anche lui Bruno Bruni, ma non è lo stesso che collaborò all’opera dei Dottore in agraria anche lui, si intende anche di vino, naturalmente, ma la sua vera passione è la botanica. Grande consolazione per me! Grande gioia! Ho sempre pensato che, se fossi miliardario, vorrei avere al mio fianco, quando viaggio, costantemente, un botanico. Non c’è pianta, fiore, erba che io veda e di cui non desideri sapere il nome. Eccomi, per una volta, accontentato. Principali vitigni d’Italia. Tutta la mattina e il pomeriggio, da Pedaso a Cupramarittima, da qui a San Benedetto del Tronto, poi a Monte Prandone, a Castel di Lama, e fino ad Ascoli Piceno, continuo ad affliggere il buon Bruni: e quello cos’è? e quello come si chiama? Non in una sola occasione sono rimasto senza risposta. Nel Comune di Cupramarittima, visitiamo a lungo l’azienda del Conte Giovanni Vinci, la fattoria e la grande e strana villa di Boccabianca. Ci accompagna l’amministratore Enrico Capocasa. L’aria è dolce, il sole splende, la giornata è magnifica. Dice il Bruni: “Vede? appena al di sotto del Cònero, il clima cambia. Qui non abbiamo più i venti boreali. Per dire la verità, intorno a Cupramarittima, abbiamo come un microclima, riservato a una zona relativamente ristretta.” Assaggiamo il Rosso Piceno nel giardino davanti alla villa. È un vino nettamente sangiovesiano: fresco di suo, indipendentemente dalla temperatura in cui è stato conservato e si trova: abboccato il primo momento, poi con un retrogusto molto amarognolo ma gradevolissimo. Quello del ’68, “alza” (come dicono qui) 14 gradi di alcool, quello del ’69 alza 12,5. Tutto quanto, nell’architettura della villa e del giardino di Boccabianca, ha un carattere anticipatamente surrealista. Anticipatamente, perché le costruzioni sono del principio dell’Ottocento. Qualcosa di funebre e di magico: un neoclassicismo archeologico e romantico. Colonne, capitelli, loggiati solenni, esedre: e i lecci, i cipressi, i bossi, altri sempreverdi debitamente sagomati inquadrano la marina come i fondali di certe composizioni del Magritte. C’è una vasca circolare con le ninfee. E, addossato a un muro di mattoni rossi, un enorme cespuglio di dature, dai grandi calici bianchi, penduli, profumatissimi: pianta rara nei nostri parchi. All’imbocco di un viale stretto, lungo, cupo, quasi un corridoio di altissimi sempreverdi, vedo un tronco liscio, chiaro e screziato, che sembra una colonna: e laggiù in fondo, una bizzarra costruzione cilindrica, con la base conica, che ripete, in grande, i colori e la forma di quel tronco. Si tratta di una torre-regalo. Percorro il viale, e copio l’iscrizione: “Al Conte Raffaello Vinci / sarà cara memoria / questo edificio erettogli / dalla madre amatissima / quando egli si sposava a‘ Bianca de’ Pazzi / correndo l’anno 1814.” Facciamo colazione a San Benedetto, in una trattoria di camionisti. Grande vitalità, gran buligana. La città è in spettacoloso sviluppo. Centro e ragione di tutto quanto, il commercio del pesce. Cominciamo ad assaggiare le famose olive giganti ascolane: buone da consumare al pasto o prima del pasto, coi vini bianchi, e non per farne olio. Ad Ascoli, mi dicono, le cucinano perfino ripiene e fritte: è una specialità. Visitiamo il porto, pieno di pescherecci. Poi partiamo verso l’interno. Pochi paesaggi viticoli ricorderò più grandiosi e più suggestivi, come quello dell’anfiteatro naturale di Monte Prandone. Uno spettacolo diverso ma assolutamente non inferiore a quelli delle Langhe, di Gattinara, della Valtellina o del Collio. Il paese, in cima. Sotto, verso mezzogiorno, la valle come un anfiteatro prolungato, a pendenze piuttosto ripide, e pezzato a grandi vigne, disposte, alcune di traverso, e cioè orizzontalmente, altre invece perpendicolari, secondo le linee di massima pendenza. Questo sistema si chiama “a ritocchino”, ed è preferito, oggi, perché la raccolta delle uve si fa più facilmente e anche a macchina. In nessun’altra regione come nelle Marche ho visto tanta varietà di modi nel piantare le vigne. Le moderne, come alcune di queste, sono a filari. Ma ce ne sono ancora molte all’antica: le cosiddette , con la vite maritata all’acero; e le cosiddette , tre o quattro canne incrociate a piramide, intorno a cui sale e si sostiene la vite. Infine, anche il , o pergolato, più o meno alto da terra. L’effetto pittorico delle vigne di Monte Prandone consiste appunto nell’originalissima varietà: sembrano disegni appositamente studiati come ornamento, come si farebbe per un giardino, sebbene, ovviamente, i motivi della varietà siano tecnici, e dipendano forse soltanto dalla personalità di ogni particolare agricoltore. In ogni caso, l’alternarsi di quelle geometrie si presterebbe a ispirare qualche pittura astratta: completata dai colori dell’autunno, vigne gialle o rosse, prati verdi, ulivi grigi, pini neri. alberate conocchie tendone Azienda Tamburi a Castel di Lama, Azienda Seghetti Panichi, Azienda dell’Istituto Tecnico Agrario Celso Ulpiani: assaggiamo Rosso Piceno, Rosato Pennile, Bianco Pennile e, di nuovo, di volta in volta sempre più “giganti”, sempre più morbide e tenere, le olive verdi in salamoia. A notte, entriamo in Ascoli Piceno, dove non ero mai stato, e finalmente vedo la famosissima Piazza del Popolo. Area pedonale, per fortuna! In quel momento, , rappresentazione locale e corale dove ognuno fa insieme da attore e da spettatore, si prepara al massimo crescendo del suo atto unico e quotidiano. È il trionfo della provincialità e, naturalmente, si identifica con un trionfo di tutte le ultimissime mode. Non ho mai visto, alle ragazze e ai ragazzi, tanti e tanto svolazzanti maxi, tanti capelloni e parrucconi. Se la vecchiaia consiste, talvolta, nel timore della vecchiaia, il provincialismo consiste quasi sempre nel timore del provincialismo e in una spasmodica cura di evitarlo. L’assenza delle automobili e la lunghezza di tutte coteste finanziere di cupi colori richiederebbero soltanto una seminagione di tube, che peraltro, data l’aria che tira, mi pare probabile e prossima: saremmo, così, in pieno 1870: un meraviglioso tableau vivant ispirato al Cammarano, sui lavoratissimi e quasi opalescenti scenari gotici e rinascimentali degli edifici e dei portici che chiudono d’ogni lato la Piazza. l’ora del passeggio L’interno del Caffè Meletti, ideale centro dispensatore dell’antica, deliziosa Anisetta, è, invece, un intatto liberty. Viene al nostro tavolo il dottor Silviano Meletti in persona, che stranamente assomiglia, non solo nei tratti ma perfino nei gesti e negli sguardi, al nostro Gianmaria Volonté dell’ultimo film di Petri. Non ama, però, sentirselo dire. E, in quella, si avanza e, con cordialissima, simpatica aggressività, si unisce alla nostra compagnia, l’ingegner Francesco Cimìca, anziano notabile e industriale, affiancato da Benedetto Marini giornalista cittadino. Il Cimìca tosto “esige” che io visiti all’istante una sua taverna privata, da lui escogitata per accogliervi gli amici, e munita, dice, di doviziosa cantina, e intitolata “Accademia del Vino de la Marca”. Mi schermisco, allegando l’ora tarda, la sincera mia stanchezza dopo travagliosa giornata, e la necessità di rientrare in Ancona. Poi, non so come, vengo a parlare del “Vino Cotto”, specialità che non si trova in commercio e che producono soltanto i “particolari”. Non l’ho mai assaggiato e mi propongo di cercarlo, la settimana seguente, in Abruzzo. “Ma il Vino Cotto si fa anche qui!” esclama l’ingegnere. “Si tratta di una specialità non solo abruzzese, ma anche, e forse soprattutto, ascolana e picena!” Devo, dunque, cedere. Andiamo all’Accademia. Nell’Accademia del Vino de la Marca assaggiamo un Vino Cotto di sessanta anni. Sua rustica squisitezza. Dodici olive bastano per un pasto. L’ingegner Cimìca dichiara inesistente la Vernaccia di Serra Petrona e visionario il Veronelli, che ne parla in una sua guida. Suspense per l’indomani. Iscrizioni latine, anfore, orci, e, alle pareti, mensole con bottiglie da enoteca, ferri battuti, marmi, travertini, frammenti di lapidi con iscrizioni. Nella cantina, una sottotavernetta. E, nella nicchia del sancta sanctorum, una botticella di Vino Cotto molto vecchio. Cimìca spiega amorosamente come il Vino Cotto, per antichissima tradizione, venga fatto. Si usano tutte le uve, pregiate e non pregiate, mescolandole senza guardare per il sottile, e, anzi, preferendo quelle che non sono state pigiate per ricavarne il miglior vino, Trebbiano o Rosso Piceno che sia. Si mescolano, e, prima ancora che cominci la fermentazione, si bolle questo in una grande caldaia di rame, da cinque, sei, sette ettolitri. Si lascia bollire per circa sei ore, badando continuamente, con un’enorme “schiumarola”, a ripulire il vino dalle impurità che si vengono formando e che via via risalgono alla superficie. Sei ore è il tempo normale. Ma, in ogni caso, si attende che il volume del mosto, bollendo, si sia ridotto di un terzo. Tale mosto, allora, viene chiamato “rinterzato”. Lo si lascia fermentare nelle botti per dieci, quindici giorni. Un grande imbuto, ficcato nel coperchio della botte, favorisce le esalazioni nocive. Prima che si possa bere, occorrono almeno sei mesi. Ma la grande particolarità del Vino Cotto consiste nella sua attitudine a invecchiare. È sempre buono: col tempo, sempre più buono. Chiaro, d’altra parte, che il Vino Cotto, originariamente, ha un carattere di accorgimento economico: rappresenta il recupero di una quantità di uve che, altrimenti, sarebbero andate perdute. uvaggio Proviamo questo, che conterà, dice l’ingegner Cimìca, una sessantina d’anni. Generalmente, avevo letto e avevo udito giudizi perplessi e sfavorevoli: gusto particolarissimo, di un bruciato dolciastro e amarognolo che piacerebbe soltanto alla gente del luogo, a chi ci è abituato. Invece, no. Capisco le obbiezioni. Ma lo trovo, come vino da dessert, ottimo. Di un bel colore rosso mattone a riflessi di oro cupo, il sapore strano, affumicato e ruvido della sua moderata dolcezza corregge ed evita quella dolcezza vischiosa e a volte nauseabonda di tanti passiti o “marsalati”. C’è qualcosa di affascinante, di profondamente rustico e montano, nel Vino Cotto: o, almeno, Vino Cotto. in questo Intanto, una conseguenza immediata del non breve assaggio è che decidiamo di rimanere ad Ascoli: rimandiamo a notte fonda il ritorno in Ancona. E vale la pena, perché conosciamo così la trattoria del Tornasacco, e l’oste Mariano Benedetti, alto, atletico, peloso, figura cinquecentesca e sorriso da finissimo diplomatico feudale. Per la cucina, è addirittura “un faro”. Scopro tosto il segreto della luce: la guardiana del faro è “mamma”, che sta “di là”. Non enumererò, adesso, gli scatti del menu: uno dopo l’altro, ritmici, graduati, sorprendenti. Dirò solo del clou: le olive ascolane, enormi, ripiene (se non erro) di un impasto di carne cacio erbe, e deliziosamente infarinate e fritte. Sembrerà esagerato quanto sto per affermare, ma è la pura verità: sei di queste olive possono costituire un piatto, dodici un pasto! L’ingegner Cimìca ci fa compagnia in piacevoli conversari, ma digiuna, non volendo trasgredire la saggia regola quotidiana che ormai si è imposta: la rinuncia alla cena. Assaggia, però, ogni vino. Gli dico che domani andremo a Matelica, per il Verdicchio di Matelica, e poi a Serra Petrona, per la decantata Vernaccia. A questo nome, lui, netto, mi blocca: “La Vernaccia? La Vernaccia di Serra Petrona non esiste più. Sono anni che sto cercandola. Non l’ho mai trovata. Mi ricordo di averla bevuta da ragazzo. Immagini un po’ lei quanto tempo fa. È rossa, spumante, abboccata, assomiglia un po’ al Lambrusco di Castelvetro: meno dolce, forse, e con molto maggiore corpo. Non esiste più, le dico. Se lei la trova, mi telefoni, ecco qui il mio numero, oppure mi telegrafi: le sarò grato.” Prometto solennemente. E, prima di partire, dato di piglio alla Guida del Veronelli, rileggo ad alta voce il fatidico brano: “La Vernaccia di Serra Petrona: già mi emoziona scriverne, immagini l’assaggio... Gran vino, degno di cru, degno di fama: colore rosso porporino, caratteristico personale sui generis largo e continuo bouquet, sapore dolce e tuttavia elegante, che va attenuandosi, sempre più , in bottiglia. Forse in, Francia si disputerebbero le poche bottiglie, da noi... bando a tristezze. Segnalo quali migliori produttori...” Segue l’elenco dei produttori, e lo leggo, fino in fondo. Senonché Cimìca mi lascia finire, e poi, fisso, sospira: spirituale “Lei conosce Veronelli? Ebbene, gli comunichi che lo giudico un visionario.” “E se domani trovo la Vernaccia che dice lui?” “Non la troverà.” L’indomani si annuncia con questa suspense. Rimorso per Recanati. A casa Mattei assaggiamo il Verdicchio di Matelica, così diverso da quello di Montecarotto. La felicità di Quinto Mosciatti, vinificatore di giorno e portiere di notte. Di buon mattino, andiamo verso Matelica. Sfioriamo Osimo, Montefano, Montecassiano. Ah, lo sguardo timido alla nostra sinistra, là, ombrato, si disegna sul cielo il profilo di Recanati! Ogni vero amore, ogni lunga venerazione assomigliano sempre a un rimorso. Il Conte Franco Leopardi, discendente della famiglia di Giacomo, è anche lui produttore di vino. Non avrò il tempo di accettare il suo gentile invito a visitare le cantine dell’antico palagio. A quel rimorso che dico, profondo come il ricordo dei traditi sogni dell’adolescenza, aggiungerò questo dispiacere. Matelica, municipio romano, poi antica sede vescovile, poi fortezza longobarda, poi libero comune, poi signoria degli Ottoni e, dalla fine del Cinquecento, dominio diretto della Chiesa, Matelica, microcosmo simbolico dell’Italia, è una cittadina melanconica abitata da gente vivacissima, allegra, attiva e intelligente. Sapevo che è patria di Enrico Mattei e di Libero Bigiaretti. Di Bigiaretti, ormai definitivamente esule in Roma, corro subito a conoscere, nella merceria della piazza, il vecchio amico Paternesi: baffi e tweed britannici, sguardo e sorriso fulmineamente e, credo, non incautamente allusivi un’estensione di quell’amicizia, verso di me. Ma non sapevo che Italo Mattei, fratello del grande Enrico, fosse produttore di Verdicchio. È una delle prime notizie di cui mi ragguaglia il dottor Monachesi, funzionario dell’Ispettorato, col quale abbiamo appuntamento sotto i portici del municipio. Decido, naturalmente, di andare difilato a casa Mattei. Ci accolgono la signora Leonella, moglie di Italo, e la figlia Rosangela. Senz’altro ci guidano in cantina, che è lì, la vera cantina della vera casa. Ma anche Leonella e Rosangela sono vere bellezze. E anche il loro Verdicchio è vino vero. Madre e figlia, ora l’una e ora l’altra, lo spillano dalle botti, appoggiandovi la scaletta, salendovi agili e abili. Tutto è autentico, qui, dai Mattei: tutto è gaio, aperto, fiducioso e generoso. Che famiglia simpatica! Leonella e Italo hanno sette figli, compresa Rosangela: due femmine e cinque maschi. E sono qui, vengono e vanno tra casa e cantina, aiutando all’assaggio e alle fotografie. Manca solo il primo dei maschi, che attualmente lavora in Africa. Proviamo il Verdicchio di tre annate. Sempre buonissimo, e sempre intorno ai 13 gradi: ma completamente diverso dal Verdicchio gustato a Montecarotto (cioè nella zona del Classico di Jesi). Se il Bruni, nel citato studio, non affermasse espressamente il contrario, sarei tentato di dire che si tratta, addirittura, di due vitigni, e neanche troppo simili tra di loro. Poiché all’esame ampelografico risultano uno solo, bisogna ammettere che tutte le differenze dipendono dal terreno e dal clima. Il Matelica non è così profumato, esterificato, raffinato ed alcoolico come il Montecarotto: in compenso ha più corpo, ed è più scivoloso: a tutto pasto, può anche venire preferito. Vogliamo, ad ogni buon conto, controllare questo risultato, o, piuttosto, quest’impressione, assaggiando anche il Verdicchio di Matelica vinificato da un altro produttore, il signor Quinto Mosciatti, che ci fu indicato fin dal primo giorno, in Ancona, dal consesso degli Ispettori. Ci guida, sempre, il dottor Monachesi. Andiamo sulla strada di Fabriano, prima di Cerreto d’Esi, in un podere su un piccolo poggio e di modesta altitudine rispetto al fondovalle pianeggiante, dove scorrono il fiume, la strada e la ferrovia. Deviamo per una stradina di terra battuta, attendiamo un buon quarto d’ora davanti al passaggio a livello. Intanto, Monachesi ci ricorda un particolare che avevamo dimenticato. Quinto Mosciatti, produttore di Verdicchio di Matelica, è un tipo originale: di giorno, in collina, coltiva le vigne e pigia vino, e di notte fa il portiere-di-notte al Motel dell’Agip, sulla strada provinciale, in pianura e di là della ferrovia. Pioviggina. Quinto Mosciatti ci viene incontro tra le vigne, a passo cadenzato e un cappelluccio di paglia, travestito da contadino. “È lei il signor Quinto Mosciatti, il portiere di notte?” Dice di sì. Ma, guardandolo nel viso, adusto e dall’espressione candida e ridente, capisco subito che il vero travestimento è quell’altro: l’insospettabile notturna redingote dalle chiavi d’oro. Mosciatti ama il vino, e considera fare il vino il suo solo, degno mestiere. Travasa due volte, non filtra, non fa niente altro. Quanto a refrigerare o pastorizzare, si direbbe che ignori perfino il senso di queste parole. Il suo Verdicchio è ottimo, e corrisponde in tutto, come profumo, colore, sapore e corpo, a quello di casa Mattei. Solo, è un po’ più alta la gradazione: almeno quella del vino pigiato nell’autunno del ’69, che alza netti 14°. Mentre, al riparo di una tettoia, sulla soglia della cantina, assaggiamo, guardo giù, dove chiaro nella valle il Motel Agip appare... Dico a Mosciatti che lo invidio: “Lei è non soltanto il più fortunato di tutti i pendolari, poiché l’oscillazione del suo pendolo è minima: ma il più fortunato di tutti gli uomini in generale, poiché il suo sogno e la sua realtà si alternano anche otticamente... Quando è là, vede qua: vede, nell’oscurità notturna, dal bancone del suo lavoro, un lumino solitario, a mezza costa, la stella che segna il luogo dell’ozio amato... Di qua, inversamente, vede là, e forse sospira: ma anche questa impossibilità di sognare completamente, questo continuo ricordo della realtà ha dei vantaggi.” E il Mosciatti ride, ma non approva completamente. “Che c’è che non va?” gli domando. E lui, crollando il capo: “C’è che questo passaggio a livello è troppe volte chiuso. E mi fa perdere tanto tempo!” Penso a quella favola di Andersen intitolata o , non ricordo bene. Il cruccio di Mosciatti si inserisce perfettamente in quella favola. D’altra parte, il luogo pare così solitario, la stradina di terra così raramente percorsa, che l’ultimo passaggio a livello a venire abolito in tutta Italia, sarà proprio questo. Suggerisco a Mosciatti un rimedio: “Si prenda un’altra macchina, una cinquecento, e la lasci dalla parte di qua del passaggio a livello, vicino alla casa del cantoniere! così il cantoniere gli fa anche la guardia: è impossibile che gliela rubino!” Uomo fortunato: ride alla mia proposta: forse la seguirà. La camicia di un uomo felice La camicia del giovane principe Risolto l’enigma della Vernaccia di Serra Petrona, che esiste e non esiste. Un vino che segue le antiche vie dello Stato Pontificio. Carattere vivente e fantastico del vino e inanità delle leggi che lo regolano. Piove più forte quando arriviamo, affamati, a Serra Petrona. L’aspetto del luogo, cupo, roccioso, addossato a un pendio ripidissimo e quasi in una gola montana, non tradisce la suggestione iniziale del nome. Ma la Vernaccia... la Vernaccia non esiste. Peggio, esiste, sì, ma non è un vino di cui si possa parlare. Anche se alcuni dei locali produttori, compresi quelli menzionati dal Veronelli, lasciano debitamente e tradizionalmente appassire le uve, appese in grandi stanze areate, accade, poi, che refrigerano e pastorizzano, spietatamente, aggiungendo, così, a questo sciagurato vino, un anno artificiale di vita: creandogli in pochi giorni un inverno e un’estate! Più tardi, siamo accolti in casa del nobiluomo dottor Antonio Peda, funzionario vaticano, e nipote del fu Cardinal Gasparri. La casa è in cima al paese: un palazzotto rustico, una villa-fortezza, un maniero fosco, romantico, incantevole, degno della penna di Bruno Fonzi. E qui, presso un caminetto ardente, in un salotto dalle cui pareti ci fissano, spettrali ma ancor vivi, ritratti settecenteschi di antenati, qui, finalmente, troviamo e proviamo la vera Vernaccia, quella di Veronelli. Non sto a ripetere la descrizione e le lodi. Ma è un vino che non ha assolutamente nessun rapporto con le bottiglie commerciate con l’etichetta “Vernaccia di Serra Petrona”. L’ingegnere di Ascoli aveva dunque ragione e torto insieme. Torto perché la Vernaccia c’è. Ragione perché ce n’è troppo poca per potersene procurare. Le rarissime bottiglie, credo che seguano regolarmente la via secolare, ma, in questo caso, anche curiale, dell’Appennino: e sono perciò gratissimo alla gentilezza del dottor Peda, che non ha esitato, per noi, a stapparne tre. Non potrò mai dimenticare il triste episodio della Serra Petrona. La nostra campagna contro il vino industriale si avvarrà, ormai, di un altro argomento. Se le grandi ditte talvolta riescono, come certamente riescono, a produrre un vino bevibile e perfino discreto, sono tuttavia responsabili della generale decadenza enologica: perché persuadono il piccolo e povero industriale a imitare il loro esempio senza però la possibilità di mettere in opera a sua volta quel minimo di accorgimenti e di immobilizzare il capitale per quel minimo di tempo necessario alla produzione di qualcosa di non ignobile. Quando si comincerà a capire che il vino appartiene a un’attività artistica o quasi artistica prima che a un’attività industriale e commerciale? che è un organismo vivente e fantastico? che sfugge ad ogni regola troppo fissa? che ha bisogno di cure appassionate, scrupolose, personali? e che, soprattutto, non è mai, in nessun caso, solo un oggetto di consumo? E pensare che i produttori di codesta Vernaccia hanno avuto il coraggio di chiedere la Denominazione Controllata. E pensare che probabilmente saranno accontentati. A volte, infami vini sono legittimi: e altri, illegittimi, squisiti. Perché la legge, nel suo sforzo, nobilissimo ma in estrema analisi vano, di essere eguale per tutti, finisce, a volte, col proteggere chi, applicando scrupolosamente la lettera, più nel profondo violi lo spirito.