Nelle provincie di CHIETI, FOGGIA, BARI, TARANTO

Incontro con l’Abruzzo e con Agostino Tessitore, italoamericano “spontaneo”. Il grattacielo disabitato. Se viaggio in cerca di vini non è per nostalgia, ma per volontà di contrasto. Perché non è dato a tutti di bere un vino come quello di Raffaele Roselli? Un’Italia che resiste.

A Vasto, antichissima città, ariosa, aperta, alta sul mare, ci attende Agostino Tessitore. Uomo d’affari, d’industrie e di commerci, dirige, tra l’altro, una grande azienda di trasporti, che è semplicemente la continuazione e la graduata trasformazione della paterna, ottocentesca impresa di diligenze a cavalli. Tessitore, dunque, non è, come si potrebbe pensare appena lo si vede e si comincia a conoscere, un reduce dagli Stati Uniti. Non credo nemmeno che sia mai andato in America. Ciononostante, piccolo, compatto, agile, testa rotonda, occhiali a stanghetta, occhi vivissimi, intelligente, pronto, pratico, diretto allo scopo in ogni minimo particolare, aggressivamente cordiale, imperiosamente gentile, e a volte duramente ironico, presenta tutti i caratteri (meno l’accento, italianissimo con pure cadenze abruzzesi) dell’italoamericano in gamba. Come mai?

Tra le regioni d’Italia, la prima e la più importante per l’emigrazione, specialmente per l’emigrazione negli States, è senza dubbio l’Abruzzo. Dovremo dunque supporre che, in qualche modo, l’esempio dei compaesani tornati ricchi in patria, il costume e i tratti americani abbiano influito su Agostino Tessitore, lo abbiano addirittura formato? Direi proprio di no. E che bisognerebbe, invece, capovolgere la diagnosi. Se, infatti, penso ai molti abruzzesi “importanti” che ho conosciuto, sia a New York, sia in Italia, mi pare di poter ravvisare in tutti un comun denominatore di franchezza, cordialità, pragmatismo, intelligenza, spicciativa e fattiva attività: e, forse, di essere stato indotto a battezzare tali doti come “americane” solo perché, in grandissima maggioranza, quegli abruzzesi erano italoamericani. Probabilmente, sarei andato più vicino al vero battezzando le loro doti decisamente come “abruzzesi”. Caso mai, l’America sta all’origine. Quanto di americano entrò tecnicamente nella formazione della nostra attuale civiltà dei consumi, nostra ma ormai anche universale, produce, operando sull’etnos abruzzese, individui del tipo di Tessitore.

Siamo arrivati di notte, per l’autostrada che già funziona, da Città Sant’Angelo Pescara fino a Vasto, snodandosi attraverso le montagne, sfiorando Chieti e Lanciano. Anche così, nell’oscurità, ciò che si indovina del paesaggio è fantastico e grandioso: soprattutto le luci di Chieti, che sfolgorano immense in cima al colle, e poi subito scompaiono di là da alti, incombenti contrafforti bui.

A Marina di Vasto, all’albergo, ecco Agostino Tessitore. Parliamo immediatamente del programma per l’indomani. Gli dico ciò che cerco: vino genuino, una piccola e autentica cantina in mezzo alle vigne. E il Vino Cotto, che ho già provato ad Ascoli Piceno, ma che è anche, o forse soprattutto, una specialità di qua: specialità casalinga, che producono soltanto le vecchie famiglie del posto, e che conservano per decenni: tanto più buono quanto più vecchio. Tessitore ci mette a tavola, poi si allontana: ritorna dopo dieci minuti con una bottiglia, sua, di Vino Cotto. Quanto alla cantina, non ha ancora in mente niente; ma ci penserà questa notte, e qualche cosa troverà.

L’indomani mattina, tramontana e sole, grandi nuvole che attraversano rapidamente il cielo, mare agitato, colori vivissimi.

Vediamo il piccolo porto di Vasto, invaso e battuto da onde brevi e furiose: l’apertura, neanche a farlo apposta, è a nord, in direzione della forza del mare. Risaliamo alla città: vie spaziose, allegre, popolate di una fitta folla in faccende. Patria di Dante Gabriele Rossetti e di Filippo Palizzi. Nonché del nostro grande amico Raffaele Mattioli, protettore dei letterati: Tessitore ci indica la sua casa natale, un palazzetto umbertino, sulla piazza della Cattedrale. Poco più in là è il Palazzo d’Avalos, maestosa e lieta architettura del tardo Rinascimento, a picco su un precipite spalto che si affaccia sulla pianura sottostante e sul panorama della costa e del mare.

Riattraversiamo la città per uscirne, diretti alle vigne dell’altipiano: e vediamo due veri e propri grattacieli, recenti costruzioni, condominii di abitazione o di uffici, assurdamente svettanti qui dove certo non mancava intorno lo spazio, barbaramente torreggianti tra queste vecchie o almeno basse case. Per il colmo, Tessitore ci racconta come uno dei due grattacieli da qualche mese sia chiuso e sfollato, perché minacciava di crollare. Ma la speculazione edilizia, riflettiamo, è solo un aspetto dell’onnipresente e onnitravolgente esagerazione consumistica. Che si salvino il pane e il vino, i più umili prodotti dell’attività umana, parrebbe pretesa esigua ma non è soddisfatta, tutt’altro! e, così, la regola atroce del “numero” sta per avvelenare e per annientare i popoli, cominciando dai più civili. Possibile che non esista rimedio? Nego, nego rabbiosamente che la nostra ricerca sia nostalgica, che il nostro viaggio dei vini sia estetizzante o edonistico. È, invece, volontà di contrasto. È lotta con speranza di vittoria. Non muoverei più un passo, non chiederei più di assaggiare un solo bicchiere di un vino che mi sia ancora ignoto, se temessi davvero che, un giorno lontano, vino genuino non sarà più concesso ai figli dei miei figli. Oh, nella tramontana, sotto il cielo azzurro sparso di nuvole chiare, tra le vaste distese crespe e arancione delle vigne, tra i prati e i campi verdissimi e nuovi, la strada corre sull’altipiano: in lontananza, dolcemente, la campagna declina, manca, e s’intravede il mare: coppie di pini mediterranei segnano gli ingressi delle proprietà, ai due lati dei viottoli di terra battuta, che raggiungono, verso l’orizzonte opposto e montano, le candidissime case coloniche. Una di queste è la nostra meta. Un uomo, laggiù, in grembiule bianco, va e viene sotto un pergolato, scompare, riappare.

Scompare di nuovo appena vede la nostra macchina avanzare sul viottolo: rientra in casa sfilandosi frettolosamente il grembiule: riesce e ci viene incontro sorridente mentre noi arriviamo al pergolato e fermiamo.

È Raffaele Roselli: padrone e principale lavoratore della tenuta. Stava preparando salsicce. Ma la sua occupazione più cara è proprio il vino.

La casa è una vecchia villa rustica e nobiliare, che lui ha acquistato parecchi anni fa. A terreno, in fondo, la cantina: la sola porta imponente della modesta facciata. Tutto è pulitissimo, levigato, lustro, squillante di colori: pavimento in cotto, botti verniciate di verde, pareti incalciate. Se mai arrivassi a poter fare il mio vino, a possedere una cantina, non la vorrei diversa.

Le uve sono quelle localmente tradizionali: 50% Montepulciano d’Abruzzo e 50% Sangiovese. Roselli le pigia separatamente, e poi, appena svinato, mescola. Fa sessanta ettolitri l’anno. Il vino “alza” da 14 a 17 gradi di alcool, secondo le annate. Le operazioni sono ridotte al minimo. Non filtra, non refrigera, niente. Unica refrigerazione è quella naturale, del freddo della cantina a dicembre e a gennaio. Infatti, a febbraio, opera l’unico travaso: elimina così, molto semplicemente, le sostanze che il gelo ha solidificato. Unico accorgimento, la pulizia perfetta: dei recipienti con cui l’uva è trasportata, dei torchi, delle botti, di tutti gli arnesi. Unica disinfezione, un po’ di zolfo alle botti, prima di riempirle.

Gustiamo il vino nuovo, che ancora sa di mosto. E gustiamo quello dell’anno scorso: limpido, fresco, scivoloso, gagliardo, asciutto: a pasto, nessuno desidererebbe di meglio. Perché mai, ci chiediamo, perché mai non dovrebbe essere possibile, a tutti, dovunque, bere normalmente un vino così?

Sono tre anni che mi occupo di vino, tre anni che vivo in mezzo al vino: ebbene, assaggiando questo, netto, vivo, semplice, decisamente alcoolico, ho la certezza assoluta che resisterebbe almeno un anno a qualunque trasporto e a qualunque trasferimento. D’altra parte, non si tratta mica di un miracolo. In Italia, i piccoli produttori come Roselli che fanno un vino di questo tipo sono infiniti. Basterebbe un’organizzazione di commercio capillare, ma seria e severa fino allo scrupolo. Basterebbe, almeno in questo, un po’ di religione.

Prima che ci congediamo da Vasto, Tessitore ci vuole presentare a sua moglie. Andiamo dunque a casa sua, un normalissimo alloggio in una delle sue proprietà cittadine, vicino all’Azienda dei Trasporti. La signora, madre di vari figli, è in gamba come lui: giovane ancora, bruna, allegra, simpaticissima. È maestra alle elementari, e fa la maestra, regolarmente. Non potrebbe vivere, dice, senza l’interesse della scuola, senza il lavoro che ha sempre amato.

Se l’Italia resiste, se l’Italia si salverà, lo dovrà, prima che a tutti gli altri, a gente come questa: che accetta la nuova civiltà ma solo fino a un certo punto; che non crede necessario, progredendo, rinunciare a tutto il passato; che non vede insanabili contraddizioni tra i costumi moderni e quelli antichi; che ha nelle sue mani anche l’avvenire del vino.