Nelle provincie di CHIETI, FOGGIA, BARI, TARANTO Incontro con l’Abruzzo e con Agostino Tessitore, italoamericano “spontaneo”. Il grattacielo disabitato. Se viaggio in cerca di vini non è per nostalgia, ma per volontà di contrasto. Perché non è dato a tutti di bere un vino come quello di Raffaele Roselli? Un’Italia che resiste. A Vasto, antichissima città, ariosa, aperta, alta sul mare, ci attende Agostino Tessitore. Uomo d’affari, d’industrie e di commerci, dirige, tra l’altro, una grande azienda di trasporti, che è semplicemente la continuazione e la graduata trasformazione della paterna, ottocentesca impresa di diligenze a cavalli. Tessitore, dunque, non è, come si potrebbe pensare appena lo si vede e si comincia a conoscere, un reduce dagli Stati Uniti. Non credo nemmeno che sia mai andato in America. Ciononostante, piccolo, compatto, agile, testa rotonda, occhiali a stanghetta, occhi vivissimi, intelligente, pronto, pratico, diretto allo scopo in ogni minimo particolare, aggressivamente cordiale, imperiosamente gentile, e a volte duramente ironico, presenta tutti i caratteri (meno l’accento, italianissimo con pure cadenze abruzzesi) dell’italoamericano in gamba. Come mai? Tra le regioni d’Italia, la prima e la più importante per l’emigrazione, specialmente per l’emigrazione negli States, è senza dubbio l’Abruzzo. Dovremo dunque supporre che, in qualche modo, l’esempio dei compaesani tornati ricchi in patria, il costume e i tratti americani abbiano influito su Agostino Tessitore, lo abbiano addirittura formato? Direi proprio di no. E che bisognerebbe, invece, capovolgere la diagnosi. Se, infatti, penso ai molti abruzzesi “importanti” che ho conosciuto, sia a New York, sia in Italia, mi pare di poter ravvisare in tutti un comun denominatore di franchezza, cordialità, pragmatismo, intelligenza, spicciativa e fattiva attività: e, forse, di essere stato indotto a battezzare tali doti come “americane” solo perché, in grandissima maggioranza, quegli abruzzesi erano italoamericani. Probabilmente, sarei andato più vicino al vero battezzando le loro doti decisamente come “abruzzesi”. Caso mai, l’America sta all’origine. Quanto di americano entrò tecnicamente nella formazione della nostra attuale civiltà dei consumi, nostra ma ormai anche universale, produce, operando sull’etnos abruzzese, individui del tipo di Tessitore. Siamo arrivati di notte, per l’autostrada che già funziona, da Città Sant’Angelo Pescara fino a Vasto, snodandosi attraverso le montagne, sfiorando Chieti e Lanciano. Anche così, nell’oscurità, ciò che si indovina del paesaggio è fantastico e grandioso: soprattutto le luci di Chieti, che sfolgorano immense in cima al colle, e poi subito scompaiono di là da alti, incombenti contrafforti bui. A Marina di Vasto, all’albergo, ecco Agostino Tessitore. Parliamo immediatamente del programma per l’indomani. Gli dico ciò che cerco: vino genuino, una piccola e autentica cantina in mezzo alle vigne. E il Vino Cotto, che ho già provato ad Ascoli Piceno, ma che è anche, o forse soprattutto, una specialità di qua: specialità casalinga, che producono soltanto le vecchie famiglie del posto, e che conservano per decenni: tanto più buono quanto più vecchio. Tessitore ci mette a tavola, poi si allontana: ritorna dopo dieci minuti con una bottiglia, sua, di Vino Cotto. Quanto alla cantina, non ha ancora in mente niente; ma ci penserà questa notte, e qualche cosa troverà. L’indomani mattina, tramontana e sole, grandi nuvole che attraversano rapidamente il cielo, mare agitato, colori vivissimi. Vediamo il piccolo porto di Vasto, invaso e battuto da onde brevi e furiose: l’apertura, neanche a farlo apposta, è a nord, in direzione della forza del mare. Risaliamo alla città: vie spaziose, allegre, popolate di una fitta folla in faccende. Patria di Dante Gabriele Rossetti e di Filippo Palizzi. Nonché del nostro grande amico Raffaele Mattioli, protettore dei letterati: Tessitore ci indica la sua casa natale, un palazzetto umbertino, sulla piazza della Cattedrale. Poco più in là è il Palazzo d’Avalos, maestosa e lieta architettura del tardo Rinascimento, a picco su un precipite spalto che si affaccia sulla pianura sottostante e sul panorama della costa e del mare. Riattraversiamo la città per uscirne, diretti alle vigne dell’altipiano: e vediamo due veri e propri grattacieli, recenti costruzioni, condominii di abitazione o di uffici, assurdamente svettanti qui dove certo non mancava intorno lo spazio, barbaramente torreggianti tra queste vecchie o almeno basse case. Per il colmo, Tessitore ci racconta come uno dei due grattacieli da qualche mese sia chiuso e sfollato, perché minacciava di crollare. Ma la speculazione edilizia, riflettiamo, è solo un aspetto dell’onnipresente e onnitravolgente esagerazione consumistica. Che si salvino il pane e il vino, i più umili prodotti dell’attività umana, parrebbe pretesa esigua ma non è soddisfatta, tutt’altro! e, così, la regola atroce del “numero” sta per avvelenare e per annientare i popoli, cominciando dai più civili. Possibile che non esista rimedio? Nego, nego rabbiosamente che la nostra ricerca sia nostalgica, che il nostro viaggio dei vini sia estetizzante o edonistico. È, invece, volontà di contrasto. È lotta con speranza di vittoria. Non muoverei più un passo, non chiederei più di assaggiare un solo bicchiere di un vino che mi sia ancora ignoto, se temessi davvero che, un giorno lontano, vino genuino non sarà più concesso ai figli dei miei figli. Oh, nella tramontana, sotto il cielo azzurro sparso di nuvole chiare, tra le vaste distese crespe e arancione delle vigne, tra i prati e i campi verdissimi e nuovi, la strada corre sull’altipiano: in lontananza, dolcemente, la campagna declina, manca, e s’intravede il mare: coppie di pini mediterranei segnano gli ingressi delle proprietà, ai due lati dei viottoli di terra battuta, che raggiungono, verso l’orizzonte opposto e montano, le candidissime case coloniche. Una di queste è la nostra meta. Un uomo, laggiù, in grembiule bianco, va e viene sotto un pergolato, scompare, riappare. Scompare di nuovo appena vede la nostra macchina avanzare sul viottolo: rientra in casa sfilandosi frettolosamente il grembiule: riesce e ci viene incontro sorridente mentre noi arriviamo al pergolato e fermiamo. È Raffaele Roselli: padrone e principale lavoratore della tenuta. Stava preparando salsicce. Ma la sua occupazione più cara è proprio il vino. La casa è una vecchia villa rustica e nobiliare, che lui ha acquistato parecchi anni fa. A terreno, in fondo, la cantina: la sola porta imponente della modesta facciata. Tutto è pulitissimo, levigato, lustro, squillante di colori: pavimento in cotto, botti verniciate di verde, pareti incalciate. Se mai arrivassi a poter fare il mio vino, a possedere una cantina, non la vorrei diversa. Le uve sono quelle localmente tradizionali: 50% Montepulciano d’Abruzzo e 50% Sangiovese. Roselli le pigia separatamente, e poi, appena svinato, mescola. Fa sessanta ettolitri l’anno. Il vino “alza” da 14 a 17 gradi di alcool, secondo le annate. Le operazioni sono ridotte al minimo. Non filtra, non refrigera, niente. Unica refrigerazione è quella naturale, del freddo della cantina a dicembre e a gennaio. Infatti, a febbraio, opera l’unico travaso: elimina così, molto semplicemente, le sostanze che il gelo ha solidificato. Unico accorgimento, la pulizia perfetta: dei recipienti con cui l’uva è trasportata, dei torchi, delle botti, di tutti gli arnesi. Unica disinfezione, un po’ di zolfo alle botti, prima di riempirle. Gustiamo il vino nuovo, che ancora sa di mosto. E gustiamo quello dell’anno scorso: limpido, fresco, scivoloso, gagliardo, asciutto: a pasto, nessuno desidererebbe di meglio. Perché mai, ci chiediamo, perché mai non dovrebbe essere possibile, a tutti, dovunque, bere normalmente un vino così? Sono tre anni che mi occupo di vino, tre anni che vivo in mezzo al vino: ebbene, assaggiando questo, netto, vivo, semplice, decisamente alcoolico, ho la certezza assoluta che resisterebbe almeno un anno a qualunque trasporto e a qualunque trasferimento. D’altra parte, non si tratta mica di un miracolo. In Italia, i piccoli produttori come Roselli che fanno un vino di questo tipo sono infiniti. Basterebbe un’organizzazione di commercio capillare, ma seria e severa fino allo scrupolo. Basterebbe, almeno in questo, un po’ di religione. Prima che ci congediamo da Vasto, Tessitore ci vuole presentare a sua moglie. Andiamo dunque a casa sua, un normalissimo alloggio in una delle sue proprietà cittadine, vicino all’Azienda dei Trasporti. La signora, madre di vari figli, è in gamba come lui: giovane ancora, bruna, allegra, simpaticissima. È maestra alle elementari, e fa la maestra, regolarmente. Non potrebbe vivere, dice, senza l’interesse della scuola, senza il lavoro che ha sempre amato. Se l’Italia resiste, se l’Italia si salverà, lo dovrà, prima che a tutti gli altri, a gente come questa: che accetta la nuova civiltà ma solo fino a un certo punto; che non crede necessario, progredendo, rinunciare a tutto il passato; che non vede insanabili contraddizioni tra i costumi moderni e quelli antichi; che ha nelle sue mani anche l’avvenire del vino. Nella “fazenda” di Torre Quarto, estrema area orientale della ispanità, in quello che fu il più grande latifondo vinicolo del mondo. Il misterioso vitigno Malbeck. Lo straordinario “vino fatto qui” di Casimiro Cirillo Farrusi. Varcato il Trigno, si entra nel Molise. Abbiamo un appuntamento a Campobasso, da un amico di Nicola Mascione. Ma il tempo, che ci è concesso, stringe: si avvicina la stabilita fine del nostro viaggio, e dobbiamo rimandare. Gusteremo certo il Cerasuolo una prossima stagione, risalendo l’Italia per il terzo “assaggio”. Ed eccoci, adesso, in Puglia: provincia di Foggia, Cerignola: eccoci al castello, alla villa, alla tenuta o, se vogliamo, alla “fazenda” di Torre Quarto. Cortili amplissimi, sterminati, sterrati, simili a piazzali di una città disabitata: torrette, porticati, e qua e là, sparsi come a caso o per dimenticanza, attrezzi agricoli, camion, cataste di barili: basse, larghe, bianchissime costruzioni: si potrebbe rigirare dal vero o qualunque western di tipo messicano: a sud, il triangolo funereo del Vulture, in vetta al brullo profilo dei monti lucani, chiuderebbe convenientemente l’orizzonte. Qui vigneti, però, e campi di grano tutto intorno, all’infinito: eucalipti e pini mediterranei presso il parco della residenza padronale, centrale e floreale: oltre le alte siepi s’indovina una piscina. Un’aria elegante, romantica, fascinosa, di quella particolare trasandatezza che va sempre insieme a ogni lautezza naturale, forse inconsapevole e mai troppo faticosamente perseguita: dovunque, spazio: spazio, abbondanza, abbandono, rivelatori di antica ricchezza e nobiltà. Viva Zapata Né può stupire il carattere messicaneggiante degli edifici: tardissimo barocco che, stemperandosi e adagiandosi via via nel neoclassico e nel liberty, continuò lungo tutto l’Ottocento. La legge per cui gli estremi o le isole tendono a “conservare”, e il centro invece, tende a “innovare”, fu scoperta, forse, in linguistica: a me, la insegnò Matteo Bartoli, sempre lui. Ma è una legge fatale e universale, che ritroviamo applicata nell’architettura, nelle arti, nelle costumanze dei popoli, e perfino rivelata dai loro caratteri somatici: la ritroveremmo, chissà, in qualsiasi struttura associata. Naturalissimo, secondo questa legge, o addirittura inevitabile, che ai due opposti estremi dell’ispanità, da una parte in Puglia e dall’altra, poniamo, nella Bassa California (o Sonora, Sinaloa, Jalisco), vecchie case importanti abbiano tante apparenze in comune. Torre Quarto era, fino almeno al 1915, uno dei più vasti latifondi esistenti in Italia: cinquemila ettari! di cui ben duemila e trecento coperti da vigneti: la più grande proprietà viticola di tutta Europa. Il feudo pervenne a Casa Caracciolo nel 1418 dalla Regina Giovanna d’Angiò-Durazzo che ebbe come favorito appunto un Caracciolo, Sergianni, nobile, povero, prima oscuro notaio, poi elevato da lei alla carica di Gran Siniscalco. Dai Caracciolo, il feudo passò nel 1616 ai Pignatelli, e dai Pignatelli, nel 1809, per eredità, alla Duchessa Montieu de Montmorency: da questa ai nipoti de La Rochefoucauld. Nel 1892 Sostenne de La Rochefoucauld. Duca di Doudeauville e di Bisaccia, inviò a Cerignola un nuovo amministratore, certo Georges Millet, che trasformò completamente l’azienda, potenziandola di mezzi, per quei tempi, modernissimi. In un solo decennio, verso la fine del secolo scorso e i primi anni del ’900, venivano, infatti, “scompigliati gli antichi sistemi di coltivazione, introdotte le più audaci novità, azionati macchinari mai visti, costruite cantine colossali o bottami mastodontici, impiantate industrie nuove: una pompa eleva dall’Ofanto le acque per l’irrigazione dei pascoli, la vaporiera attraversa le vigne, i riproduttori degli ovini e degli equini sono acquistati all’estero...” Dopo la fine della Prima guerra mondiale, negli anni venti e trenta, questa immensa proprietà venne a poco a poco scorporata. Agli attuali proprietari di Torre Quarto, i Cirillo Farrusi, restano tuttavia alcune centinaia di ettari, dove producono, tra l’altro, un vino straordinario. La conduzione è diretta. Lavorano nell’azienda i tre giovani fratelli Michele, Fabrizio, Emanuele: vivono qui tutto l’anno con le loro rispettive famiglie, e continuano l’opera del padre, Marcello Cirillo Farrusi, recentemente e prematuramente scomparso. Li aiuta un espertissimo enologo, Alfredo Biagioli di Fano. Il vino è classico. Rosso, asciutto, sui 14 gradi di alcool, buono da arrosto e da cacciagione. Straordinario, non solo per la sua forza e la sua schiettezza, ma anche per la singolarità del vitigno: Malbeck. Che sia lo stesso Malbeck di Vittorio Veneto, di Céneda? Lo stesso con cui le cantine Marinotti pigiano quello squisito Rosato Arcella? (vedi pp. 306-309). Il Torre Quarto ha, in ogni caso, un carattere, una classe superiore. E la stessa incertezza della grafia (troviamo Malbec, Malbeck, Malbech e Malbek) dimostra che si tratta di un vitigno raro e poco noto. Qui intorno a Foggia, qualcuno dice che il vitigno Malbeck coltivato e pigiato a Torre Quarto sia, molto alla buona, un tipo di Negro Amaro, cioè del più comune tra tutti i vitigni pugliesi: qualcun altro dice che sia Montepulciano d’Abruzzo, e qualcun altro, che sia un misto, da cui non va escluso il Sangiovese. Per decidere, bisognerebbe essere un ampelografo ed esaminare la pianta, le foglie, i grappoli. Ma io mi fido e del mio gusto, e delle dichiarazioni di Alfredo Biagioli. Gustando il Torre Quarto, trovo un vino completamente diverso da tutti gli altri vini del luogo, o delle regioni prossime: caso mai, trovo una somiglianza con l’Aglianico, sebbene l’Aglianico sia nettamente più ruvido, più “duro”. Biagioli mi assicura che il vitigno è Malbeck e che fu importato, nella seconda metà dell’Ottocento, dagli amministratori dei La Rochefoucauld. Lì per lì, propendo per un’altra ipotesi. Sappiamo quanto fossero stretti i legami tra i coltivatori veneti, delle zone intorno al Piave, e i coltivatori di Mendoza. Poiché il Malbeck esiste soltanto qui a Torre Quarto e in quelle due altre terre, tra di loro lontanissime, perché non pensare a una comune origine spagnola, che spiegherebbe tutto? , poiché nelle annate in cui la sua fioritura è minacciata dal cattivo tempo, parecchi fiori abortiscono.” significa , ossia all’intristimento del fiore. coulard Coulard soggetto alla coulure Abbiamo qui, in poche frasi, tre esempi della formidabile influenza del clima e del terreno sulla vitivinicoltura, e di quanto approssimativa sia la scienza enologica. Infatti. Primo: il Malbeck di Torre Quarto è ottimo da vecchio, anche da molto vecchio. Secondo: esiste, invece, un Malbeck rosato: il Rosato Arcella, sebbene ottenuto con una fermentazione sollecitamente privata delle bucce. Terzo: nell’altipiano riarso della Capitanata, il fiore del Malbeck non soffre, ovviamente, di nessun pericoloso freddo primaverile: e la produzione è quanto mai abbondante e rigogliosa: può anche darsi che, proprio partendo da questo principio, Georges Millet abbia avuto l’idea, se è stato lui ad averla, di piantare a Torre Quarto il Malbeck, o il Cot. Visitiamo, adesso, le cantine di Torre Quarto: sono multiple, intercomunicanti, profonde, altissime, disposte su vari piani, e davvero colossali. Le botti sono così enormi, che non avrebbero neanche potuto entrare dalle porte né essere trasportate per le pur ampie scale. Vennero qui, forse da Bordeaux, forse da Conegliano, intere squadre di operai. Qui vissero e abitarono per mesi o per anni. E qui costruirono le botti dentro le cantine, dove ancora funzionano. Ora, uno zio dei giovani proprietari, Casimiro Cirillo Farrusi, alto, magro, grigio, delicato, autentico e tipico gentiluomo borbonico, vuole stappare alcune bottiglie del ’25 che ha portato per me. È vino pigiato non lontano di qui, in un’altra tenuta, sua privata. Non mi dice, né io glielo chiedo, se anche codeste terre provengano dai La Rochefoucauld. I Cirillo Farrusi, spiega dolcemente Casimiro, sono una vecchia famiglia di origine calabrese. Il vino è eccelso: e ha quel lievissimo (ma assolutamente non sgradevole, anzi!) sapore di liquirizia, che ricordo di avere individuato, e quasi sorpreso, a Parigi, da Allard, in antiche bottiglie di Pommard, oppure nell’infernotto di un mio amico, in una villa vicino a Torino, bevendo Barbaresco della fine dell’Ottocento... o perfino, una punta, solo una punta, nelle migliori e nelle più vecchie bottiglie di Aglianico di Taurasi. “È Malbeck anche questo?” domando a Casimiro. “Non lo so cosa sia...” sorride piegando il capo, grigio e d’avorio, l’antico gentiluomo: “... era vino fatto qui.” Ecco, sarà un caso: ma è questa, questa e non altra, la risposta che ho sempre avuto dai più raffinati, sia aristocratici sia contadini, quando mi capitò di assaggiare un vino eccelso. La “tre giorni gastronomica pugliese”. Elogio della burrata, che mi ha riconciliato con il latte. Imparate, o borghesi, a fare la burrata in casa vostra. L’avvocato Nardino De Meo, di Foggia, che ci ha condotto, con pronta intelligenza, dai Cirillo Farrusi a Torre Quarto, mi ha affettuosamente sottoposto, nel giro di tre giorni, a quattro diverse, copiose, sorprendenti imbandigioni: una formidabile gara gastronomica, cui ho risposto come potevo, con le mie forze non rabelaisiane. Al ristorante M2, sulla strada che va da Cerignola a Foggia, cinque “minestre” preparate dalla signora Ninetta Mazzarella: , pasta piccola, fatta a mano, con farina di grano arso (cioè scottato naturalmente, dal sole) e condita con pomodoro fresco e ricotta dura; , orecchiette con broccoli di rape, olio, pomodorini secchi, aglio, peperoncini, il tutto saltato in una speciale padella, detta appunto sartaciniddu; , pasta lessata a parte insieme alla rughetta, e poi passata con olio e pomodoro; , cotti a fuoco lento con brodo e piccoli pezzi d’agnello, aglio e lardo; ultima, ma non inferiore alle altre quattro, una minestra di Seguirono lessi, schiacciati, conditi con olio, pepe, aceto. Si finì con la e con verdure crude, sedani, cicoria, finocchi, ravanelli. E devo dire che, malgrado l’abbondanza, il pasto ci parve leggerissimo: forse perché composto esclusivamente di idrati di carbonio e vegetali, con assenza quasi assoluta (unica eccezione, il sugo di seppie) di proteine. La verità, così commenta l’avvocato De Meo, la verità è che “la famosa dieta macrobiotica, di cui tanto si parla, qui da noi, in Puglia, è in uso da sempre! Paste fatte in casa, con verdure varie, e tutto condito con olio crudo! Latticini freschi, pane nero, teglie di patate, cipolle, pomodori, funghi, lambascioni! Assenza di grassi animali e di olii fritti!” cicatelli di gran ars sartaciniddu strascinai ca’ rucl spaghetti al cutturiello troccoli con sugo di seppie. lambascioni burrata A Lucera, nella cantina del vivissimo oste Lorenzo Carapelle: pizza pugliese, pecorino, taralli asciugabocca, e, soprattutto, quel meraviglioso vino rosato del posto, che chiamano “Cacc e mitt”, caccia e mette, appunto perché (questa, almeno, è la mia interpretazione dello strano vocabolo) si “mettono” nel torchio le uve, e subitissimo se ne “cacciano” fuori le bucce: il vino, fermentando così senza le bucce, resta “rosa”. A San Severo, nella cantina di Michele Vezzano, detta anche Cantina del Concerto della Banda Bianca, su un grande tavolo ricoperto di carta gialla da macellaio, oltre a pizze, ecco frittate di maccheroni, scamorze, “crudità” freschissime, e una gran grigliata sulla brace: costatine di agnello e di vitello, rognoni, fegatelli e “torcinelli”. I torcinelli sono budelle di agnello, ripiene di animelle, prezzemolo, pecorino, e fortemente arrostite, quasi bruciate. Mi ricordano la pagliata romana e lo scozzese: ma sono, fortunatamente, più delicati e più leggeri. haggis Infine, allo stabilimento Daunia Latte di Foggia, un ricevimento che non potremo dimenticare. Neanche se fossimo stati la commissione internazionale del , sei Ministri dell’Agricoltura, avremmo potuto venire accolti con maggiore e più sostanziosa magnificenza. Niente discorsi, però, nessuna cerimonia noiosa. Matteo Castelli e Alessandro Tursilli della Daunia Latte, il dottor Fesce del Consorzio Agrario, il dottor Villotti, il dottor Lacava ci guidarono, attraverso lo stabilimento, a una grande sala dove, da un lato, gli operai stavano in quel momento confezionando con le loro mani la famosa “burrata”; e dove, al centro, su una lunga serie di tavoli infiorati, erano trionfalmente disposti tutti i principali prodotti del luogo: con spicco particolare per i vari formaggi, freschissimi, freschi, stagionati, per le verdure e per i vini. MEC Non tenterò nemmeno l’elenco. Dirò soltanto della : questo piccolo otre tutto di formaggio, contenuto e contenente, e che viene fatto a mano, con lavorazione rigorosamente artigianale. È, in principio, una palla. Alternativamente, la si immerge e la si ritrae da un calderone di latte e acqua poco meno che bollente. A poco a poco, con le dita, la si scava. Così, via via, aumenta di volume: finché diventa un sacco, che da ultimo viene riempito di latte appena cagliato e di pezzetti tenerissimi di fior di latte. Gli orli, in graziosa forma di quattro petali, vengono chiusi e legati con un fuscello di paglia. Non esiste, tra i formaggi freschi, niente di più buono. E non inganni il nome. La burrata è tutt’altro che burrosa. Io, che, personalmente, detesto il latte e non ne posso trangugiare neanche una goccia sul tè, io, dopo aver provato la burrata di Foggia, ho dovuto convenire che il latte – purché rappreso, così, fino ad assumere una consistenza leggermente callosa; purché cagliato, così, fino a perdere ogni untuosità; purché asciugato, così, smagrito e salato fino a richiedere uno spargimento e coronamento di pepe nero, e fino a volere qualche bicchiere di vino bianco o rosato – il latte produce, mediante un’operazione tutto sommato semplicissima e rapida, il miglior cibo del mondo. L’unico guaio è che la burrata deve essere consumata sul momento, o nel giro di poche ore. Basta una breve permanenza in frigorifero per privarla di tutta la sua fragranza e levità. Morale? Imparate, o borghesi, o dannati al consumo, o ansiosi e ossessi dal problema del tempo libero, imparate a fare in casa la vostra burrata! burrata Macellerie, barbieri e Fornelli Pronti, da Putignano a Noci, sulla strada di Alberobello. È notte, ormai, allorché, diretti ad Alberobello, attraversiamo Putignano. Folla nelle strade, evidente vitalità, commercio, allegria, traffico di auto e camion. Procediamo a rilento, con soste continue. E cominciamo a notare, stupitissimi, il curioso risalto e la straordinaria frequenza delle macellerie. Ce n’è una ogni sei o sette case, una ogni cento passi: ciascuna sfolgora di luci e di candide piastrelle: ciascuna, accanto o sopra la porta, ha in bella mostra un grande avviso a lettere cubitali: . Che cosa diavolo sarà questo “fornello”? e che cosa c’entra con la macelleria? Usciti da Putignano, dobbiamo ancora passare il villaggio di Noci. Nella notte fresca e profumata, sotto un cielo di stelle quasi alpestre ma senza luna, bastano, a ricordarci che siamo in Puglia, le bande bianchissime dei muretti che fiancheggiano d’ambo i lati la strada: e, di là da questi muretti, le distese regolari e soffici degli uliveti, appena visibili, appena un po’ grige, appena un po’ meno scure del cielo, che è di uno scurissimo blu. Ogni tanto, nel raggio dei fari, balza incontro improvvisa, e tosto scompare, la massa sferica, frastagliata, ricamata, dall’apparenza quasi metallica, e dalla deliziosa tinta tra il rame e l’avana, di una quercia: foglie e rami come in ferro battuto, e come operati da una suprema officina barocca. FORNELLO PRONTO Al passaggio da Noci, di nuovo notiamo quella frequenza, per noi ancora inspiegabile, delle macellerie e dei Fornelli Pronti. Notiamo anche un’altra frequenza, a me particolarmente cara: quella delle botteghe da barbiere. Ho sempre sostenuto che l’invenzione dei rasoi di sicurezza e dei rasoi elettrici è stata di gravissimo danno all’umanità virile, invitando ciascuno, ogni mattina, alla malinconica segregazione e alla turpe solitudine di quei dieci minuti dedicati alle proprie guance, e privandolo dell’amabile distensione e dell’umile affettuosa conversazione che sempre offre il barbiere. Il vino del professor Mutinati “fatto con acqua e sapone”. Svelato il mistero dei Fornelli Pronti. La minuta civiltà delle Murge Verdi. Finalmente giungiamo ad Alberobello, all’Hotel dei Trulli, dove ci attende il professor Angelo Mutinati, nativo di Locorotondo, e direttore dell’Istituto Tecnico Agrario di Locorotondo. Per caso, in passato, avevo gustato il suo vino: il Bianco Locorotondo dell’Istituto Agrario; e lo avevo trovato così diverso da ogni altro bianco secco, così diverso per la magrezza estrema del “corpo”, così leggero, chiaro, fragile e puro, da voler scegliere e fissare, come primo appuntamento qui, un incontro col Mutinati. Con Mutinati ceniamo quella sera; da Mutinati torniamo la mattina dopo, all’Istituto; con lui passiamo tutta la giornata e la sera seguente. È un uomo carico di energia. Nero, magro, svelto, un pacchetto di nervi. E parla con la curiosa erre particolare a molti abitanti delle Murge dei Trulli (per esempio, anche a Paolo Grassi, che è di Martina Franca): un’eredità, forse, degli antichi insediamenti normanni, svevi, angioini. Svevi? Ma certo: Federico II parlava francese! In vena di profetare, dopo aver bevuto il suo vino, penso che Mutinati sarà, tra vent’anni, Ministro (vero, lui!) dell’Agricoltura: lo penso, ma taccio: glielo dico solo adesso. mouillée Il Bianco Locorotondo, ovviamente ligio al Disciplinare di Origine Controllata, è composto di Uva Verdeca per 50/65% e di Alessano per 35/50%, con parti di Fiano, Bombino, Malvasia fino a un massimo complessivo di 5%. La gradazione alcoolica va dai dieci agli undici. “Ma come mai” chiedo a Mutinati “il suo vino è così squisito? Vedo che è refrigerato con i metodi più moderni e industriali. Come mai, dunque, è così buono?” “Il segreto è semplice” risponde Mutinati: “noi facciamo questo vino con acqua e sapone!” Chiedo spiegazioni, non vorrei non aver capito. Ma no, è così: Mutinati sostiene che il segreto sta nella pulizia e nella misura: mantenere tutti i recipienti e tutti gli arnesi in costante, perfetta pulizia, durante la vendemmia, durante la vinificazione, i filtraggi, i travasi, l’imbottigliamento, sempre, e usare gli eventuali accorgimenti chimici con estrema misura, con trepida cautela. “Per esempio,” conclude “non c’è dubbio che il bisolfito sia almeno inizialmente necessario: ma bisogna graduarne la somministrazione al centigrammo! Ecco il segreto.” Dopo di che, a nostra richiesta, Mutinati ci dice dei Fornelli Pronti: “Nelle nostre città delle Murge Verdi, tutte le macellerie hanno il loro forno, e lo tengono aperto, regolarmente, ogni sera, dalle sette fino a mezzanotte e all’una. A Martina Franca, che è la città più grande e capitale, i forni sono accesi dalla mattina alla sera, notte e giorno, sempre. Oh, forni a legna, intendiamoci: e legna buona, asciutta, d’ulivo o di quercia. Si accende ore prima dell’uso, ogni giorno, finché si forma una montagnetta di brace. Questa brace la si raccoglie, tutta, da un lato del forno. Uno entra in macelleria, ordina ciò che preferisce: bistecche, braciole di manzo, vitello, agnello, maiale: fegatini, rognoni, testina, quello che vuole, scegliendo dal banco o dalla vetrina. E il macellaio, i pezzi scelti, glieli cuoce all’istante: o infilandoli in uno spiedo e appoggiando lo spiedo sulla parete del forno opposta a quella contro cui è raccolta la brace; oppure spargendo un po’ della brace sotto una griglia. Arrostita la carne, il macellaio la avvolge in spessa carta gialla. E il cliente o la consuma sul posto, su un tavolo di marmo, mangiando con le mani, e bevendo un mezzo litro comperato al bar dell’angolo, o, anche, corre, con la cartata che scotta, a casa, dove i suoi lo attendono per la cena. Oggi, nelle piccole nostre città delle Murge Verdi, l’automobile, ogni sera, serve soprattutto a questo! Carni allo spiedo e alla griglia, verdure crude e formaggi: ecco i menu tradizionali di qui. La pasta, sia pure fatta in casa, non è che ne andiamo pazzi.” Ci troviamo, dunque, in una Puglia ? diversa Ma certamente. Qui, da tempo, non esiste più il latifondo. Qui, l’insediamento nelle campagne è straordinariamente sparso; la proprietà, frazionatissima. Qui, il benessere, una minuta civiltà, e perfino piccole industrie. La piccola e capricciosa Svizzera dei Trulli. Dieci lire di elemosina per metterle nel salvadanaio. Dal Fortore fino all’Ofanto, il Nord della Puglia si chiama Capitanata, con i monti della Daunia a ovest, e quelli del Gargano a est. Ma a sud, dall’Ofanto fino all’istmo che congiunge Taranto a Brindisi, è un rettangolo compreso tra l’Adriatico e le valli del Basentello e del Bràdano: e questo rettangolo più lungo che largo si identifica con un altipiano di natura carsica, altitudine media tra i 400 e i 500 metri sul livello del mare, detto Le Murge. Non basta: il lembo estremo e meridionale delle Murge presenta una configurazione geografica, un clima, un carattere, una struttura tutta particolare, tutta a sé. Si tratta di una zona relativamente ristretta, che riguarda e raggruppa Putignano, Noci, Alberobello, Locorotondo, Cisternino, Martina Franca, con un suo centro figurativo nella Valle d’Itria, che è compresa tra le ultime cittadine. Di solito, si distingue questa zona col nome di Murge Verdi, oppure di Murge dei Trulli: perché qui appunto, specialmente in campagna, predominano le rustiche abitazioni coniche, quasi invariabilmente bianche, dette trulli: architetture graziosissime a cui gli abitanti dei luoghi furono certamente sollecitati dall’abbondanza delle pietre carsiche, o tufacee, in ogni caso bianchissime, quelle stesse con cui, liberando i campi per la coltivazione della vite o del grano, si fanno i muretti. Murge Verdi? Certo, perché la terra è fertilissima e interamente coltivata o boscosa. Ma il vero, meraviglioso colore di queste Murge è un altro. Spicca e canta, accompagnandosi al verde dei prati, al rosso della terra, all’azzurro del cielo (che, qui, pare sempre così vicino, appunto perché siamo su un altipiano) o ai colori morbidi e fradici, gialli e marroni dell’autunno: è il bianco. Il bianco, con tutti i suoi valori, negli accostamenti ad altre tinte, riassume le prime e le ultime impressioni, il ricordo e il desiderio di questa terra. La Guida del Touring dice perfino che “col predominio delle forme appiattite o lievemente ondulate, oltre che basse, e con la scarsità di vere e proprie valli, i rilievi pugliesi si differenziano nettamente da quelli dell’Appennino montagnosi e collinari; e in questo particolar senso si può anche non rifiutare l’espressione di un geografo tedesco, che la Puglia sia la meno italiana delle regioni d’Italia, tanto più che essa richiama certe piattaforme dell’opposta sponda adriatica per la larga diffusione dei fenomeni carsici...” Ma, nel caso della piccola zona delle Murge dei Trulli, si tratta di ben altro. Qui, senza dubbio, ha una grandissima influenza il clima. Natura, paesaggio, architettura, agricoltura, carattere della gente, tipo di società, tutto cambia allorché l’altipiano, continuando a prolungarsi verso sud, non è più difeso, non è più limitato, a ovest, dai monti lucani, i quali vengono a mancare, e sono sostituiti dal Mare Jonio. L’altipiano, allora, prima di declinare nella terminale pianura della penisola salentina, si trova, per un quadrilatero di cinquanta chilometri in linea d’aria, non di più, in mezzo ai venti dei due mari opposti: quasi tolda di una portaerei ciclopica e senza torre di comando. Di qui, l’aria sempre pura, sempre fresca, sempre ricambiata e viva. Di qui, i nervi, l’intelligenza, lo scatto di questa gente, continuamente frustata da una brezza inebriante, che è di monte e di mare insieme. Alle soglie delle Murge dei Trulli, qualcosa di nuovo accade. L’Italia della polvere e della confusione sembra arrestarsi, come per incanto. Si parla di piccola Svizzera: ma, senza far torto alla Svizzera, non bisogna fare torto neanche alla Murgia dei Trulli, dove l’ordine, il progresso, la pulizia, la precisione e l’attività, che fanno pensare alla Svizzera, vengono però corretti da una costante fantasia, e da individuale capricciosità: mentre la libertà e la dignità di ciascun cittadino sono salvaguardate. È vero, ad Alberobello, ancora oggi, mi è capitato, come quindici anni or sono, di vedermi accostare da un ragazzino che, cercando di affiancarsi, offriva di raccontare “la storia dei Trulli”. Rifiutavo, non senza stupore. Il ragazzino insisteva e, finalmente, chiedeva l’elemosina. Ma, sapete con quali parole me la chiedeva? Ecco la frase testuale, che certamente gli fu suggerita dai suoi parenti: all’orientale “Signò, mi date dieci lire, le metto nel salvadanaio!” Questa frase assurda potrebbe essere oggetto di lunga meditazione. Chi, infatti, chiede l’elemosina, lo fa perché è agli estremi: perché ha fame o perché altra assoluta necessità gli è negata. Non parrebbe concepibile che qualcuno chieda l’elemosina ! E tuttavia, questa battuta comica, degna del teatro di Eduardo, è stata escogitata dai parenti del ragazzino, o, addirittura, è normalmente adottata dai vari ragazzini che si offrono come guida ai trulli, come via di mezzo tra il comportamento di un popolo sottosviluppato e quello di un popolo che ormai, evidentemente, vive nel benessere, e dunque non è decoroso che chieda l’elemosina. Magia della piazzetta di Cisternino. Incanto dello spalto di Locorotondo, visto nella luce del tramonto, scendendo la Valle d’Itria, e voltandoci a guardare. E meraviglia di questa valle, sognato ideale, eden segreto, luogo perfetto e amenissimo, in un clima mite e non molle! per risparmiare La Trinità di Miali. Un vino che è “un’invenzione”. Spezzo l’ultima lancia contro la refrigerazione. Tentativo di confondermi i bicchieri e mio trionfo. Contraddizioni e misteri del vino. Martina Franca, all’estremità meridionale della Valle d’Itria, chiude e corona quest’isola resistente, questa enclave inconsapevole ed esemplare della Murgia dei Trulli: Martina Franca è tutta, o quasi tutta, monumento nazionale, per le meravigliose case barocche, cui Cesare Brandi dedicò un libro di studio e di illustrazione. Ciò malgrado, Martina Franca è una città in cui, a un certo momento, si potrebbe scegliere di vivere l’intera vita. Andiamo all’Azienda vinicola Miali, i cui prodotti già conoscevamo per lunga esperienza. E troviamo conferma assoluta e sicura nei suoi tre principali vini: il Bianco Martina Franca, che assomiglia, anche per la composizione delle uve, al Locorotondo di Mutinati; il Rosato (miscela, metà e metà, di Bianco Martina e di Aglianico vinificato in bianco, e cioè via dalle bucce dopo pochissime ore di fermentazione); infine, il pezzo forte: l’Aglianico lucano, pigiato da uve che Martino Miali in persona ha trovato, e ogni anno sceglie, nei territori di Irsina e Tricarico, ai confini della Lucania con le Puglie. Ecco un vino non tradizionale per la località dove è pigiato, ecco un vino moderno, e cioè “inventato” da una particolare persona. “Mi piangeva il cuore” dice Miali, alto, rossiccio, occhiazzurro, martinese da generazioni e tuttavia di indubitabile discendenza slava, “mi piangeva il cuore vedere quelle splendide uve non sfruttate. E così, ho deciso, e da una decina d’anni faccio questo vino.” Lo gustiamo con attenzione religiosa: è diverso, certo, dall’Aglianico di Taurasi: forse di minor classe, ma sempre un gran vino, che basterebbe, da solo, a riscattare il nostro Mezzogiorno dall’accusa di un’irrimediabile inferiorità enologica rispetto alla Toscana o al Piemonte. Torniamo al bianco. È refrigerato anche questo, come quello di Locorotondo: ed è, perfino, pastorizzato, fino a 40 gradi di calore, non più. Sebbene il vino sia eccellente, storco la bocca, avanzo le solite riserve. E Martino Miali, e il suo giovane fratello Francesco, mi rispondono con le solite giustificazioni: il trasporto, la stabilità, il gusto del cliente che rifiuta vini che s’intorbidino al gelo, ecc. I fratelli Miali mi sembrano persone degne di tutta la mia confidenza: “Ma dunque,” esclamo, “ma dunque neanche voi capite che la refrigerazione toglie al vino buono ciò che ha di meglio, il profumo, ossia il fiore del sapore?” E spiego ai due fratelli che, contrariamente a quanto credeva il buon vecchio Curnonsky, le sostanze che danno il profumo e il gusto a un cibo o a una bevanda non coincidono affatto con le sostanze, animali o vegetali, da cui il cibo o la bevanda proviene. La scienza ha dimostrato come, tutto al contrario, coincidano con di quelle sostanze: come ne siano il cascame, il rigetto, il rifiuto: nel vino in particolare, siano appunto ciò che la refrigerazione solidifica e il filtraggio sottrae ed elimina. Urbanamente, i due fratelli cercano di contraddirmi. Li prego, allora, di permettermi, una volta per tutte, di eseguire un esperimento: “Questo è Bianco Martina del ’67, annata buonissima, gradazione alcoolica 11,5 – e cioè di un grado e mezzo superiore al necessario. È un vino, lo so, me lo avete detto, refrigerato. È ottimo. Tuttavia, a che epoca della lavorazione, di solito, refrigerate?” i residuati del metabolismo “Prima di imbottigliare,” rispondono. “Avrete, dunque, Bianco Martina di una seguente annata non ancora refrigerato?” “Sì, il ’68, è un’annata un po’ scadente: il vino non arriva a 10,8.” “Potrei provarlo? È troppo chiedere?” Sono accontentato. Dalla cisterna vetrata, spillano per me un boccale di Bianco ’68, precedente la refrigerazione. La differenza è enorme. Non è necessario gustare. Basta fiutare. Il profumo (e perciò, poi, anche il gusto) del non refrigerato si stacca nettamente dalla quasi totale inerzia olfattiva (e perciò, poi, in qualche modo, anche gustativa) del refrigerato. L’esame ha ancora maggior valore, se si considera che il ’68 è un’annata meno felice. E provano, sì, i fratelli Miali, e mio figlio, e il dottor Bòccoli stesso, provano, scherzosamente, a confondermi i bicchieri: per prendermi in castagna, per controllare se esagero, e insomma per mettere a un’ultimissima prova il mio esperimento e la mia tesi. Ogni volta, con tutta facilità, distinguo il ’67 dal ’68. Ogni volta, irridendo, e solo accostando il naso, trionfo. Che cosa si aspetta, almeno per una categoria di bianchi extra, a rinunciare alla refrigerazione? Il bello è che questi vini, fregiandosi dell’appellativo “extra”, costerebbero di più. Mentre, a rigore, dovrebbero costare meno, perché sarebbero stati prodotti con minor dispendio di manodopera, di energia e di apparecchiature. Contraddizioni del vino, ma soprattutto del vino italiano: mistero senza fine.