Nel “continente Sardegna” il vino è buono malgrado l’etichetta. In questa isola di gente dura, seria, dignitosa dovevo fermarmi solo pochi giorni, e invece rimarrò un mese. Una Lancia mi tallona: un attimo di suspense. Il figaro introvabile di Porto Torres e i miei quattro rasoi.
Fine settembre, domenica mattina presto, ma con un sole che brucia come in piena estate, sbarchiamo a Porto Torres venendo da Genova. Ero già stato in Sardegna, in aereo o per mare, venendo da Roma o da Livorno e arrivando a Olbia o a Cagliari: tuttavia, sul molo, mentre attendo mia moglie che esca dal traghetto con l’auto, mi guardo intorno, e capisco per la prima volta, in un attimo, la verità dello slogan “la Sardegna è un continente”.
Ho l’impressione, non saprei bene dire perché, di sbarcare all’estero: più che all’estero. C’è qualcosa nell’aria, nelle pietre, nelle forme delle case, nei volti e nei modi della gente, come uno squallore, una serietà, una calma, una durezza che non si trovano in Italia e nemmeno negli altri approdi mediterranei, Dalmazia Grecia Provenza Spagna. “In Sardegna non ci sono mai terremoti e non esistono vipere.” E fino dal 1921 D.H. Lawrence, nel suo libro Sea and Sardinia, riconosciuto da tutti gli studiosi della Sardegna come una magica intuizione della realtà, notava sbarcando a Cagliari e venendo dalla Sicilia: “C’è una piccola folla in attesa sul molo: soprattutto uomini con le mani in tasca. Ma, grazie al cielo, mostrano un certo distacco e riserbo.”
Questa volta, vengo in Sardegna a cercare il vino sardo: comincio di qui il mio terzo viaggio di assaggio. Nel primo, avevo attraversato l’Italia dalla Sicilia al Monte Rosa. Nel secondo, l’avevo riattraversata dall’Alto Adige alle Puglie. Adesso, mi propongo di visitare tutte le regioni che ancora mi mancano: Sardegna, Calabria, Lucania, Molise, Abruzzi, Lazio, Umbria, Liguria e, in Piemonte, le provincie di Alessandria, Asti, Cuneo.
Fino a qualche mese fa, l’esperienza che avevo del vino sardo era così limitata e così sgradevole che provavo la tentazione non dico di escludere questo continente dal mio viaggio, ma di riservarlo all’ultimo capitolo, dopo una scorribanda finale di pochi giorni. È successo, invece, che sono rimasto in Sardegna un mese.
Tutto era cambiato alle sette e mezza di un mattino di marzo, con un colpo di telefono. Mi chiamava a Tellaro da Sassari il professor Paolo De Muro, e mi avvisava di avermi spedito della Vernaccia, del Cannonau, del Vermentino di Sardegna, del Nebbiolo di Sardegna. Aveva avuto il mio numero da un collega, il professor Ferdinando Corelli, mio medico curante.
Arrivò il vino. E definitivamente mi convincevo del duplice assioma: il vino buono è buono malgrado l’etichetta oppure, più semplicemente, il vino buono non ha etichetta. Decidevo dunque di cominciare il mio terzo viaggio proprio con la Sardegna.
De Muro, avvertito, mi aveva promesso di trovarsi allo sbarco. Lasciamo diradare la folla. Non vedendo più uscire nessuno dal traghetto, e non vedendo nessuno sul molo, pensiamo a qualche contrattempo e partiamo per Sassari: di lì telefoneremo. Da Porto Torres ci vuole un quarto d’ora: è quasi un unico rettilineo.
Dopo pochi chilometri, accade un fatto strano. Una macchina argentata ci tallona con insistenza. Finalmente ci sorpassa, poi rallenta. Allora, a nostra volta, la sorpassiamo. È una vecchia Lancia, con guida a destra. Di nuovo ci tallona. E di nuovo ci supera. La campagna è deserta. La strada, solitaria. Né di qua né di là, all’orizzonte, si vedono macchine. Nonostante la bellissima giornata e il mattino domenicale, mia moglie e io siamo attraversati da un istante di paura: i banditi sardi? un’aggressione? La Lancia, per la seconda volta, rallenta: un braccio lungo e legnoso è teso fuori dal finestrino verso sinistra, cioè verso di noi, con un gesto immobile, sicuro di venire obbedito. Naturalmente, è il professor De Muro. Chiede scusa: il traghetto è arrivato con mezz’ora di anticipo. Come descrivere De Muro? Un’apparizione indimenticabile. Pare davvero l’abitante di un continente a sé, diverso da tutti gli altri. Vecchio ma agile, scattante, deciso. Magrissimo, un volto senza tempo, senza colore, senza espressione. Si penserebbe a un azteco se la struttura ossea fosse massiccia e compatta. Ma è scavata e sottile.
Un sorriso mite ora lo increspa. Dice che è astemio, ma ama moltissimo il vino. Lo produce coltivando le proprie vigne.
“Quanti giorni ha a disposizione?” mi domanda senz’altro, lì in mezzo alla strada, prima di risalire in macchina. Rispondo che non lo so, non faccio mai programmi precisi nei miei viaggi: mi abbandono al caso, all’ispirazione, giorno per giorno e momento per momento. De Muro è contrariato. Con quella severa smania di ordine che è così caratteristica dei sardi, ha già stabilito per me tutto il nostro viaggio in Sardegna: oggi, domenica, riposo fino alle 17. “Alle 17 verranno da me: prenderemo il tè con biscottini fatti in casa mia. Lei assaggerà una bottiglia di Vernaccia e una di Malvasia. Domani mattina alle nove verrà a prenderli all’albergo il dottor Francesco Bassu, ispettore agrario, che li accompagnerà a Nuoro e a Oliena. Martedì andremo a Sorso.” Mercoledì... giovedì... insomma, mi anticipa tutto: anche per quando andremo a Cagliari e saremo, dice lui stesso, fuori dalla sua giurisdizione. Propongo intanto qualche timida modifica: che lui ci consente subito sebbene visibilmente a malincuore. Ci accompagna all’albergo. Lui prende posto accanto a mia moglie, e io sulla Lancia accanto a suo nipote che è alla guida. Davanti all’albergo ci lasciamo. Tornerà a prenderci alle 16.50. Sul traghetto ho dormito bene, non sono stanco. Mi metto in saccoccia i miei quattro rasoi ed esco, a piedi, da solo, alla ricerca di un barbiere. Anche qui, come ormai dappertutto nella penisola, vige la sciagurata ordinanza: ma, per me, la domenica mattina senza barbiere non è più domenica. Tristemente mi aggiro, prima nelle vicinanze dell’albergo, e poi nel vecchio centro quasi torinese, strade e palazzi del tempo di Carlo Felice e Carlo Alberto. Mi informo fermando i rari passanti, o entrando nei pochi bar aperti. Appena scorgo di lontano una colonnina rossa e bianca, prendo la rincorsa. Ma invano schiaccio il naso contro i cristalli duri ed ermeticamente chiusi; invano spero di intravedere, nell’interno, un camice bianco all’opera: un barbiere che, come talvolta accade da noi in provincia, contravvenga alle disposizioni sindacali. Capisco allora che, di tutte le nostre regioni, la Sardegna è la meno anarchica: per rispetto non più al Re, ma al potere centralizzato, all’ordine costituito. Tuttavia, sono deciso a farmi radere.
Risalendo via Carlo Alberto verso piazza d’Italia, vedo, lontanissimo, lassù, sull’altro marciapiede, un signore anziano, piccolo, tondo, vestito di un completo verde pisello, che viene in direzione contraria, scendendo. Guidato da un sesto senso, o piuttosto da una fulminea congettura che la sua età, il suo abito, il suo portamento mi suggeriscono, e in cui, col diminuire progressivo della distanza, mi confermano, attraverso la strada: lo abbordo, gli spiego il mio problema.
Ci ho azzeccato.
“Guardi, la bottega è proprio qui.” Per caso, il nostro incontro è proprio davanti un barbiere: né avrei potuto notare la colonnina, perché non c’è.
“Ma è chiuso,” dico.
“Venga con me. Lo troviamo davanti al caffè, qui vicino.”
In due minuti siamo sotto i portici, all’angolo della piazza.
“Lei attenda qui. È meglio non farsi notare,” mi dice il compiacente signore. Vedo che si accosta agli affollati tavolini sotto i portici: vi si inoltra, parlamenta con qualcuno che tosto si leva. È uno, anche lui, piccolo e tondo, ma un po’ meno anziano. Mi raggiungono. E tutti e tre torniamo in via Carlo Alberto, fino alla bottega.
Come temevo e prevedevo, perfino in Sardegna i barbieri usano ormai soltanto la maledetta lametta. Tiro fuori i miei rasoi. Mentre mi faccio radere, il signore in verde pisello assiste soddisfatto. Chiacchiera con me. Preferirei che se ne andasse; ma mi sento troppo obbligato per negargli questa confidenza. Parla del più e del meno, mi dice di essere un impiegato statale, da qualche anno in pensione. Ma impiegato in quale ufficio? domando. Risponde orgogliosamente: “Pubblica Istruzione.”
Finita la barba, insiste per accompagnarmi fino all’albergo, e di nuovo devo adattarmi.
Il giorno dopo è lunedì, ancora chiusura. Ma il barbiere mi aspetta alle otto precise, e mi rivela quasi subito un’insospettabile verità: “Lui ha detto Pubblica Istruzione. Ma era bidello in una scuola, media. E prima ancora, eravamo colleghi: faceva anche lui il barbiere come me.”
Questa coincidenza nel suo piccolo quasi magica (sono deciso all’impossibile impresa di farmi radere una domenica mattina: per la strada, di lontano, adocchio un signore, e questo signore è un ex-barbiere!) mi riempie di gioia infantile. Se poi ora mi si chiede conto di un’ostinata abitudine che è diventata per me una necessità, dirò che farmi fare la barba da un barbiere e col rasoio a mano libera si accorda perfettamente con la ricerca che vado conducendo da anni, sempre più esclusiva, del vino genuino, artigianale o quasi artigianale. Certo, ricopio i miei manoscritti con una IBM, viaggio in automobile e, all’occorrenza, in aereo: ma non per questo, non perché vivo approfittando del progresso, credo di dover rinunciare alla conservazione di tutto quanto, nel passato, era migliore del presente.