Nelle provincie di SASSARI, NUORO, CAGLIARI, ORISTANO Nel “continente Sardegna” il vino è buono malgrado l’etichetta. In questa isola di gente dura, seria, dignitosa dovevo fermarmi solo pochi giorni, e invece rimarrò un mese. Una Lancia mi tallona: un attimo di suspense. Il figaro introvabile di Porto Torres e i miei quattro rasoi. Fine settembre, domenica mattina presto, ma con un sole che brucia come in piena estate, sbarchiamo a Porto Torres venendo da Genova. Ero già stato in Sardegna, in aereo o per mare, venendo da Roma o da Livorno e arrivando a Olbia o a Cagliari: tuttavia, sul molo, mentre attendo mia moglie che esca dal traghetto con l’auto, mi guardo intorno, e capisco per la prima volta, in un attimo, la verità dello slogan “la Sardegna è un continente”. Ho l’impressione, non saprei bene dire perché, di sbarcare all’estero: più che all’estero. C’è qualcosa nell’aria, nelle pietre, nelle forme delle case, nei volti e nei modi della gente, come uno squallore, una serietà, una calma, una durezza che non si trovano in Italia e nemmeno negli altri approdi mediterranei, Dalmazia Grecia Provenza Spagna. “In Sardegna non ci sono mai terremoti e non esistono vipere.” E fino dal 1921 D.H. Lawrence, nel suo libro , riconosciuto da tutti gli studiosi della Sardegna come una magica intuizione della realtà, notava sbarcando a Cagliari e venendo dalla Sicilia: “C’è una piccola folla in attesa sul molo: soprattutto uomini con le mani in tasca. Ma, grazie al cielo, mostrano un certo distacco e riserbo.” Sea and Sardinia Questa volta, vengo in Sardegna a cercare il vino sardo: comincio di qui il mio terzo viaggio di assaggio. Nel primo, avevo attraversato l’Italia dalla Sicilia al Monte Rosa. Nel secondo, l’avevo riattraversata dall’Alto Adige alle Puglie. Adesso, mi propongo di visitare tutte le regioni che ancora mi mancano: Sardegna, Calabria, Lucania, Molise, Abruzzi, Lazio, Umbria, Liguria e, in Piemonte, le provincie di Alessandria, Asti, Cuneo. Fino a qualche mese fa, l’esperienza che avevo del vino sardo era così limitata e così sgradevole che provavo la tentazione non dico di escludere questo continente dal mio viaggio, ma di riservarlo all’ultimo capitolo, dopo una scorribanda finale di pochi giorni. È successo, invece, che sono rimasto in Sardegna un mese. Tutto era cambiato alle sette e mezza di un mattino di marzo, con un colpo di telefono. Mi chiamava a Tellaro da Sassari il professor Paolo De Muro, e mi avvisava di avermi spedito della Vernaccia, del Cannonau, del Vermentino di Sardegna, del Nebbiolo di Sardegna. Aveva avuto il mio numero da un collega, il professor Ferdinando Corelli, mio medico curante. Arrivò il vino. E definitivamente mi convincevo del duplice assioma: il vino buono è buono malgrado l’etichetta oppure, più semplicemente, il vino buono non ha etichetta. Decidevo dunque di cominciare il mio terzo viaggio proprio con la Sardegna. De Muro, avvertito, mi aveva promesso di trovarsi allo sbarco. Lasciamo diradare la folla. Non vedendo più uscire nessuno dal traghetto, e non vedendo nessuno sul molo, pensiamo a qualche contrattempo e partiamo per Sassari: di lì telefoneremo. Da Porto Torres ci vuole un quarto d’ora: è quasi un unico rettilineo. Dopo pochi chilometri, accade un fatto strano. Una macchina argentata ci tallona con insistenza. Finalmente ci sorpassa, poi rallenta. Allora, a nostra volta, la sorpassiamo. È una vecchia Lancia, con guida a destra. Di nuovo ci tallona. E di nuovo ci supera. La campagna è deserta. La strada, solitaria. Né di qua né di là, all’orizzonte, si vedono macchine. Nonostante la bellissima giornata e il mattino domenicale, mia moglie e io siamo attraversati da un istante di paura: i banditi sardi? un’aggressione? La Lancia, per la seconda volta, rallenta: un braccio lungo e legnoso è teso fuori dal finestrino verso sinistra, cioè verso di noi, con un gesto immobile, sicuro di venire obbedito. Naturalmente, è il professor De Muro. Chiede scusa: il traghetto è arrivato con mezz’ora di anticipo. Come descrivere De Muro? Un’apparizione indimenticabile. Pare davvero l’abitante di un continente a sé, diverso da tutti gli altri. Vecchio ma agile, scattante, deciso. Magrissimo, un volto senza tempo, senza colore, senza espressione. Si penserebbe a un azteco se la struttura ossea fosse massiccia e compatta. Ma è scavata e sottile. Un sorriso mite ora lo increspa. Dice che è astemio, ma ama moltissimo il vino. Lo produce coltivando le proprie vigne. “Quanti giorni ha a disposizione?” mi domanda senz’altro, lì in mezzo alla strada, prima di risalire in macchina. Rispondo che non lo so, non faccio mai programmi precisi nei miei viaggi: mi abbandono al caso, all’ispirazione, giorno per giorno e momento per momento. De Muro è contrariato. Con quella severa smania di ordine che è così caratteristica dei sardi, ha già stabilito per me tutto il nostro viaggio in Sardegna: oggi, domenica, riposo fino alle 17. “Alle 17 verranno da me: prenderemo il tè con biscottini fatti in casa mia. Lei assaggerà una bottiglia di Vernaccia e una di Malvasia. Domani mattina alle nove verrà a prenderli all’albergo il dottor Francesco Bassu, ispettore agrario, che li accompagnerà a Nuoro e a Oliena. Martedì andremo a Sorso.” Mercoledì... giovedì... insomma, mi anticipa tutto: anche per quando andremo a Cagliari e saremo, dice lui stesso, fuori dalla sua giurisdizione. Propongo intanto qualche timida modifica: che lui ci consente subito sebbene visibilmente a malincuore. Ci accompagna all’albergo. Lui prende posto accanto a mia moglie, e io sulla Lancia accanto a suo nipote che è alla guida. Davanti all’albergo ci lasciamo. Tornerà a prenderci alle 16.50. Sul traghetto ho dormito bene, non sono stanco. Mi metto in saccoccia i miei quattro rasoi ed esco, a piedi, da solo, alla ricerca di un barbiere. Anche qui, come ormai dappertutto nella penisola, vige la sciagurata ordinanza: ma, per me, la domenica mattina senza barbiere non è più domenica. Tristemente mi aggiro, prima nelle vicinanze dell’albergo, e poi nel vecchio centro quasi torinese, strade e palazzi del tempo di Carlo Felice e Carlo Alberto. Mi informo fermando i rari passanti, o entrando nei pochi bar aperti. Appena scorgo di lontano una colonnina rossa e bianca, prendo la rincorsa. Ma invano schiaccio il naso contro i cristalli duri ed ermeticamente chiusi; invano spero di intravedere, nell’interno, un camice bianco all’opera: un barbiere che, come talvolta accade da noi in provincia, contravvenga alle disposizioni sindacali. Capisco allora che, di tutte le nostre regioni, la Sardegna è la meno anarchica: per rispetto non più al Re, ma al potere centralizzato, all’ordine costituito. Tuttavia, sono deciso a farmi radere. Risalendo via Carlo Alberto verso piazza d’Italia, vedo, lontanissimo, lassù, sull’altro marciapiede, un signore anziano, piccolo, tondo, vestito di un completo verde pisello, che viene in direzione contraria, scendendo. Guidato da un sesto senso, o piuttosto da una fulminea congettura che la sua età, il suo abito, il suo portamento mi suggeriscono, e in cui, col diminuire progressivo della distanza, mi confermano, attraverso la strada: lo abbordo, gli spiego il mio problema. Ci ho azzeccato. “Guardi, la bottega è proprio qui.” Per caso, il nostro incontro è proprio davanti un barbiere: né avrei potuto notare la colonnina, perché non c’è. “Ma è chiuso,” dico. “Venga con me. Lo troviamo davanti al caffè, qui vicino.” In due minuti siamo sotto i portici, all’angolo della piazza. “Lei attenda qui. È meglio non farsi notare,” mi dice il compiacente signore. Vedo che si accosta agli affollati tavolini sotto i portici: vi si inoltra, parlamenta con qualcuno che tosto si leva. È uno, anche lui, piccolo e tondo, ma un po’ meno anziano. Mi raggiungono. E tutti e tre torniamo in via Carlo Alberto, fino alla bottega. Come temevo e prevedevo, perfino in Sardegna i barbieri usano ormai soltanto la maledetta lametta. Tiro fuori i miei rasoi. Mentre mi faccio radere, il signore in verde pisello assiste soddisfatto. Chiacchiera con me. Preferirei che se ne andasse; ma mi sento troppo obbligato per negargli questa confidenza. Parla del più e del meno, mi dice di essere un impiegato statale, da qualche anno in pensione. Ma impiegato in quale ufficio? domando. Risponde orgogliosamente: “Pubblica Istruzione.” Finita la barba, insiste per accompagnarmi fino all’albergo, e di nuovo devo adattarmi. Il giorno dopo è lunedì, ancora chiusura. Ma il barbiere mi aspetta alle otto precise, e mi rivela quasi subito un’insospettabile verità: “Lui ha detto Pubblica Istruzione. Ma era bidello in una scuola, media. E prima ancora, eravamo colleghi: faceva anche lui il barbiere come me.” Questa coincidenza nel suo piccolo quasi magica (sono deciso all’impossibile impresa di farmi radere una domenica mattina: per la strada, di lontano, adocchio un signore, e questo signore è un ex-barbiere!) mi riempie di gioia infantile. Se poi ora mi si chiede conto di un’ostinata abitudine che è diventata per me una necessità, dirò che farmi fare la barba da un barbiere e col rasoio a mano libera si accorda perfettamente con la ricerca che vado conducendo da anni, sempre più esclusiva, del vino genuino, artigianale o quasi artigianale. Certo, ricopio i miei manoscritti con una , viaggio in automobile e, all’occorrenza, in aereo: ma non per questo, non perché vivo approfittando del progresso, credo di dover rinunciare alla conservazione di tutto quanto, nel passato, era migliore del presente. IBM Paolo De Muro ospite astemio tra il mito di Faust e la vigna del Diavolo. Una bella, ma ingiusta sentenza: “Ognuno ha l’intestino che si merita”. Al pomeriggio, come stabilito, tè, biscottini, Malvasia e Vernaccia in casa del professor De Muro. Dirò dei vini quando li troverò nel luogo dove sono prodotti: a Bosa e a San Vero Milis, cioè non vicino a Sassari. Conosciamo la mamma di De Muro che ha 99 anni e qualche mese: sorridente e vivace si aggira per la casa tutta vestita di nero, col fazzoletto nero attorno al capo. E conosciamo meglio il professore stesso. Dalla pacata conversazione e dalla quantità e qualità dei libri che vedo intorno nel suo studio, e in tutte le stanze, capisco che è un umanista, un onnivoro della cultura: volumi di medicina, s’intende, ma che abbondanza di classici, di moderni e di modernissimi, anche francesi, inglesi e tedeschi. Ha pubblicato recentemente da Rizzoli il volumone , sul mito e sulla realtà della vita lunga. E ha finito un altro libro che si intitola La leggenda di Faust La vigna e il Diavolo. Mentre assaggio la Vernaccia e la Malvasia, vedo che è curioso, ansioso del mio giudizio. Gli chiedo perché mai sia astemio. Sfugge alla mia domanda. Crolla il capo nervosamente e mormora: “Non ho mai bevuto.” Poco dopo, ma incidentalmente e quando già parliamo d’altro, sentenzia: “Ognuno ha l’intestino che si merita.” Che sia questa la spiegazione? Senza dubbio. D’altra parte, la spiegazione del suo amore per il vino sta appunto nell’impossibilità di berlo. Un paesaggio di tipo celtico che estasiava Lawrence. Il Vermentino, il Cannonau e altri vini dei terreni granitici, e un bianco di nome Nuraghe. Ma esistono migliaia di nomi, di sinonimi e di falsi sinonimi. Rimango senza fiato sull’altipiano della Campèda. Il giorno dopo, la gita a Nuoro col dottor Francesco Bassu soddisfa finalmente una mia antica e mai sopita aspirazione: viaggiare in campagna o in montagna con un amico che sappia di geologia, di botanica, di agricoltura. E subito, appena abbandoniamo l’altipiano di Sassari scendendo le ampie giravolte della Scala di Giocca che si aprono su sconfinati orizzonti di altri altipiani, mi torna in mente Lawrence: Il paesaggio sardo è molto diverso dai paesaggi italiani... molto più spazioso, molto più semplice, niente su e giù, ma piuttosto sfuggente in lontananza. Creste non troppo alte, sfuggenti colline come di brughiera... Tutto questo dà un senso di spazio, che invece manca totalmente in Italia... come la stessa libertà, dopo i picchi e le strettoie del paesaggio italiano, dopo quel senso di appuntito imprigionamento. O, arrivando a Nuoro: ... Le colline sembravano così intatte, di un azzurro scuro, vergini e selvagge, la concava culla della vallata era coltivata come una tappezzeria laggiù in fondo, e sembrava che ci fosse così poca vita nei dintorni: niente. Nemmeno un castello. In Italia e in Sicilia, dappertutto castelli appollaiati. In Sardegna, nessuno. Le remote, informi colline che si levano cupamente e che rimangono fuori dalla vita. O ancora, dopo una notte passata a Mandas: La mattina presto, affacciandomi alla finestra della mia camera da letto, non potevo credere ai miei occhi: era talmente simile all’Inghilterra, come le parti più desolate della Cornovaglia o i pianori del Derbyshire... Era tutto Cornovaglia, o anche Irlanda, così che l’antica nostalgia per le regioni celtiche cominciò a sorgere dentro di me. Ah, quei vecchi muretti a secco che dividono i campi – pallidi, col granito appena dissimulato! ah, l’erba scura, cupa e il cielo nudo! e i cavalli sperduti nel vento del mattino! Strano è un paesaggio celtico, molto più commovente e stimolante che l’affettuoso splendore dell’Italia e della Grecia!... E mi rendo conto che odio il calcare, odio vivere in mezzo al calcare o al marmo o qualunque altra roccia calcinosa. Le odio. Sono rocce morte, non hanno vita – irritano i piedi. Perfino l’arenaria è molto meglio. Ma il granito! il granito è la mia passione. È così vivo sotto i piedi, ha una cupa scintilla tutta sua. Mi piace la sua rotondità – e odio la dentata secchezza del calcare che brucia al sole e si sbriciola. Ora parla Bassu: “Intorno a Sassari era calcare. Ma qui in Gallura è tutto granito granito o basalto,” e mi indica le maestose montagne verso cui andiamo incontro. “Più avanti, in Barbagia, è gremito o scisto. Prendiamo il Vermentino di Gallura, o il Cannonau del Logudoro, del Nuorese, del Sopramonte e della Barbagia Ollolai: il vero segreto dell’eccellenza di questi vini, del loro gusto originale e profondo, sta nei terreni granitici o mescolati di granito e calcare, granito e basalto, granito e scisto, dove sono coltivati i vitigni.” Intanto, siamo entrati nel Logudoro, ci avviciniamo a Bonnànaro. Vedo vigne lungo la strada e domando che vino diano. “Bonnànaro nero.” “Il vitigno?” “Tre vitigni: Boféle, Cannonau e Pascale di Cagliari.” “Gradazione?” “Da 12 a 13, per i vini da pasto. Anche lo si esporta, in Francia e in Germania, come vino da taglio, per equilibrare. Lei vede che la coltivazione, almeno qui, è ancora a alberello, l’antico sistema sardo. Così accade anche per il Nuraghe di Cagliari: un bianco che talvolta serve di base per i vini dei Castelli romani o per il Chianti, in sostituzione del Trebbiano.” Sono estasiato: Bassu non perde un colpo. Ho tirato fuori il mio taccuino e prendo come posso appunti vertiginosi e saltabeccanti, mentre la macchina fila a 140 all’ora. Rileggo gli appunti adesso, mesi dopo, mentre scrivo: e cerco, nella nuovissima guida regionale compilata da Riccardo Di Corato ( , Sonzogno, novembre 1975), il nome Bonnànaro. Non lo trovo. Ma non mi stupisco. La qualità di ciascun vino dipende dalla combinazione di almeno quattro fattori: 1) natura del terreno; 2) vitigno o addirittura mescolanza di due, tre, parecchi vitigni diversi; 3) metodo di coltivazione; 4) metodo di vinificazione. E dunque i vini d’Italia non sono né duemila né ventimila: sono infiniti, ed è impossibile redigerne un catalogo completo. Ogni nostro villaggio ha il suo vino, che è, in misura maggiore o minore, sempre diverso da ciascuno di tutti gli altri. Se è vero che l’uso di un solo vitigno risulta più raro dell’uso di due o più vitigni nella fabbricazione dello stesso vino, non è altrettanto assurdo pretendere una relativa completezza da un elenco dei vitigni. Esiste infatti un’opera scientifica ed esauriente intitolata , edita dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, a cura di Italo Cosmo. Sono quattro grandi volumi, ricchi di elenchi, diagrammi, disegni, perfette illustrazioni a colori. Un quinto volume è dedicato interamente agli indici. Migliaia e migliaia di nomi e di sinonimi. Sono elencati, inoltre, i falsi sinonimi. Accade che lo stesso vitigno cambi nome secondo i luoghi, anche se questi luoghi sono tra loro vicinissimi: e che diversi vitigni siano chiamati con lo stesso nome. Accade persino che, nella composizione di un vino risultante, per esempio, da percentuali di Nebbiolo e di Bonarda, il vitigno che nella realtà scientifica risulta un Nebbiolo sia chiamato localmente Bonarda, mentre il vitigno, che è Bonarda, sia chiamato Nebbiolo. Nessuna meraviglia, dunque, se in questa ridda di nomi non trovo la più piccola menzione del vitigno Boféle, cui Bassu accennava con sicura conoscenza. Ma questa complicazione, questa finale incertezza fanno parte dell’ultimo progresso scientifico, in tutte le scienze. Nella botanica come nella fisica, nella linguistica come nella sociologia. Più si studia e più ci si accorge che i risultati sono approssimativi e continuamente variabili: che, in altre parole, la stessa scienza non è mai riducibile a certezze, mai completamente razionale, e sempre più vicina, invece, al mistero della vita. 2214 Vini d’Italia Principali vitigni da vino coltivati in Italia cosmica Anche per questo, se una bottiglia di whisky o di una bibita industriale è, con grande approssimazione, identificabile con una marca, non accade mai che una bottiglia di vino vero, prodotto biologico di enzimi viventi e sottoposti a una quantità di variabili, possa corrispondere a un’etichetta. Non mi stancherò mai di ripeterlo: molte volte il vino non fa a meno dell’etichetta: tuttavia, bisogna sempre giudicarlo malgrado l’etichetta. Passiamo Giave, Bonorva, Semistene. Questi nomi solidi e strani, che suonano così diversi dai nomi padani, toscani e meridionali, non ci ricordano a loro volta che siamo davvero in un continente a sé? Ed eccoci sull’altopiano della Campèda. Non più vigneti. Soltanto pascoli. E isolate, scure, sferiche, le grandi querce sempreverdi: “Quercus ilex, leccio,” dice Bassu. Grandiosità della Campèda. Si resta senza fiato. Vorrei cogliere il segreto del paesaggio sardo. C’è qualcosa a cui Lawrence continuamente allude ma che non formula mai. Mi pare di avere trovato. Ecco: forse il grande segreto sta nell’ Forse i vecchi costumi che al tempo di Lawrence tutti portavano ancora, e oggi soltanto qualcuno dei più anziani, ingannavano il viaggiatore straniero. La Sardegna, con i suoi spazi immensi e deserti, con i suoi altipiani rocciosi e tutti insieme sollevati in massa sul mare, non è pittoresca: è pittorica. assenza assoluta del pittoresco. Bassu non molla. Mi indica le rocce in cui è scavata la strada: marron, rossastre, nerastre. “Vede? La Campèda è tutta così: basalto. E alla superficie, pascoli. Tra poco saremo a Macomèr, la capitale del formaggio. Il pecorino sardo, e anche il pecorino cosiddetto romano, vengono di qui. Piccante. Richiede almeno sei mesi di invecchiamento. A Macomèr, ci sono caseifici industriali. Nei paesi intorno, caseifici gestiti da cooperative. La Regione Sardegna investe nella misura dell’80% di ciò che costano la mano d’opera e l’attrezzatura delle cooperative. Ai privati concede mutui al 4%.” L’incancellabile ricordo di una giovane guizzante nella luce dei fari. Riscopro “l’ardita, splendida spaccatura tra i sessi” del popolo sardo rilevata da Lawrence. Sulla soglia delle molte Barbagie. Dopo Macomèr, lo so, c’è Bortigàli. Ma la nuovissima superstrada per Nuoro che stiamo percorrendo, passa fuori. E così non rivedrò quel passaggio a livello che senza bisogno di taccuino è rimasto incancellabile nella mia memoria. Diciassette anni fa. Notte fonda. Gennaio. Con i fratelli Serra di Sassari e con l’amico Luca Pinna, di Thiesi, andavamo in macchina da Cagliari a Nuoro. Lasciata a Macomèr la via Carlo Felice, fummo fermati, sei chilometri dopo, a Bortigàli, da un passaggio a livello chiuso. Era molto tardi. Suonavamo ripetutamente il claxon. Luca Pinna mi spiegò che era l’uso così: di notte, anche se in tutta la notte passa un solo treno, il passaggio a livello sta sempre chiuso. Improvvisamente, nella buia cantoniera si apre il rettangolo rossastro di una porticina. Qualcuno schizza fuori, corre verso le sbarre. Entra nella luce dei fari: è una ragazza, una giovane donna, non piccola, magrissima: gonna nera, golfino scarlatto. Lucidi capelli neri. Un visetto da capra. Sottili gambe lunghe. Alza le sbarre e intanto ci saluta con un sorriso incantevole di gentilezza selvaggia e scherzosa. Avevo, allora, già letto Lawrence. Sono divertenti, queste ragazze e donne della campagna: così svelte e ardite. Hanno schiene diritte come piccoli muri, e sopracciglia decise, ben disegnate. E stanno gioiosamente all’erta. Nessuno strisciamento di tipo orientale. Come affilati, svelti uccelli sfrecciano lungo le strade, e capisci che piuttosto ti darebbero un colpo in testa che degnarti di uno sguardo. La tenerezza, grazie al cielo, non sembra sia una qualità dei sardi. L’Italia invece è così tenera – come maccheroni cotti – metri e metri di soffice tenerezza che si srotolano imbrogliando tutto. Qui, gli uomini, le donne non le idealizzano. Qui gli uomini non danno quelle grandi occhiate di traverso, l’irresistibile sguardo dei maschi italiani. Anzi, gli uomini dei paesi, qui, quando guardano queste donne, è un . Credo che l’abietto culto della Madonna non sia una specialità sarda. Queste donne devono badare a se stesse, tenere dura la spina dorsale e i garretti saldi... In queste donne c’è qualcosa di riservato e ardito e inaccessibile. L’ardita, splendida spaccatura tra i sessi, lei e lui ciascuno dei due assolutamente deciso a difendere il proprio lato dall’assalto. Così che l’incontro ha un sapore selvaggio e salato, ciascuno dei due ineluttabilmente ignoto all’altro. ai vostri comandi bada ai fatti tuoi, ragazza mia Ecco perché non ho mai dimenticato la ragazza di Bortigàli guizzante nella luce dei fari: un’apparizione brevissima, ma anche un desiderio fantastico a cui quella pagina di Lawrence in mi aveva preparato. Sea and Sardinia E adesso? Chi può dire? Se in una macchina che ci segue non ci fosse stata mia moglie con la moglie e la figlia di Bassu, avrei forse pregato Bassu di deviare. Cercare a Bortigàli la ragazza della cantoniera e ritrovarla, non sarebbe stata un’impresa impossibile: mais où sont les neiges d’antan? Così, mi riduco a rivolgermi a Bassu mormorando quel nome per me segretamente magico: “Bortigàli, Bortigàli... Siamo già in Barbagia?” “Siamo nel Màrghine. La Barbagia comincia fra una quarantina di chilometri. La Barbagia Ollolai. Perché ci sono molte Barbagie: Ollolai, di Oliena, del Gennargentu, e Barbagia di Belvì, Barbagia di Sèulo. Il terreno a Oliena è calcareo-dolomitico. Il vitigno più generalmente coltivato è il Cannonau.” In casa di gentili amici con vibrante Vernaccia e squisiti “sospiri” di mandorle. Un caporale da Brigata Sassari stappa bottiglie di rosso rubino. La “vasta sbornia” di Oliena dei “clerici vagantes” raccontata a Hans Barth da Gabriele d’Annunzio. Poco dopo Macomèr e poco prima di Silanus, ci fermiamo, prendiamo un sentieruolo che ci conduce verso un gruppo di tre edifici tra di loro nettamente staccati ma vicini e che sembrano sorti come per incanto in mezzo all’immenso pianoro desertico, appena ondulato. Un nuraghe, uno dei settemila nuraghe esistenti in Sardegna da più di quattromila anni. Una chiesetta pisana preromanica, del secolo XI. E una piccola casa del principio dell’Ottocento, larga, bassa, di colore rosato, ancora in efficienza, probabilmente magazzino o rifugio di pastori. La combinazione di questi tre edifici, collocati a così breve distanza, e costruiti ciascuno a distanza di secoli l’uno dall’altro, ha davvero, per l’eterogeneità degli stili, qualcosa di surreale, come in un quadro di De Chirico: ma, insieme, qualcosa di caldo, umano, estremamente reale, che coincide con l’epoca storica da ciascuno di essi così potentemente evocata. E l’aria leggera e tepida del mattino soleggiato autunnale fa il resto: non vorrei più andarmene di qui e, se fossi solo, chissà quanto mi fermerei a fumare, a meditare, a leggere i giornali... Ma il volto del dottor Bassu, altrettanto ilare quanto ligio all’ordine prestabilito, mi ricorda che dobbiamo andare. Nuoro. Il mio ricordo di Nuoro è soltanto del 1960. Mi sono fermato due giorni e una notte. Ma, se mi portassero qui bendato e senza dirmi niente, non saprei riconoscere il luogo. La città pare interamente nuova, festevole, consumistica. In ogni caso molto più pulita di Sassari, dove la confusione e le immondizie per le strade sembrano endemiche. C’entra per qualche cosa anche l’aria fine e incorrotta della montagna qui intorno. Ci fermiamo in casa di gentili amici di Bassu. Un rapido spuntino: vibrante Vernaccia e squisiti , cioè piccoli biscotti o piuttosto di pasta di mandorle, dalle forme più varie, e glassati coi più vari e delicati colori: rosa, celeste, verdolino, giallino, lillà, avana, zabaglione. sospiri petits-fours Andiamo a Lainittu. Ma per la strada ci fermiamo a Oliena. Cerco invano, a destra, entrando, una piccola bottega che mi fu indicata da Veronelli: “C’è una vedova con la figlia giovanissima. Ha l’Oliena autentico, senza etichetta.” Vengo a sapere che la botteguccia, da qualche anno, non esiste più. Forse con un po’ di tempo e pazienza riuscirei a rintracciare la vedova, e a vedere la figlia che dev’essere cresciuta, e magari a gustare il suo Oliena. Ma guardo Bassu: la sua espressione è sempre gentile, sorridente, e anche autoritaria. Il tempo stringe, dobbiamo attenerci al programma. Ed entriamo, così, alla Cantina Sociale. L’uomo di fatica, che vi sovrintende, è Gemilianu Massaiu: il tipico caporale della Brigata Sassari, guerra ’15-’18, uno di quei solidi soldati a cui Vittorio Emanuele III, sebbene ancora più piccolo di loro, batteva con affettuosa degnazione sulla spalla, mentre con accento aristocraticamente e monarchicamente piemontese diceva: “I nostri bravi sardi.” Piccolo, nero, tagliato nella quercia, tutto muscoli e nervi, Massaiu mi conduce attraverso i vasti capannoni, simili in tutto a quelli di qualunque altra Cantina Sociale, con le loro vasche e cisterne di cemento, i filtri d’acciaio, le pompe, le autoclavi e compagnia bella o piuttosto brutta... Ma come opporsi a questo travolgente trend economico? Del resto, in tutta onestà, devo confessare che, all’assaggio, il vino mi pare più che accettabile. E potrei azzardare un giudizio definitivo soltanto paragonandolo, , bicchiere a bicchiere, con un autentico Oliena prodotto all’antica. Massaiu stappa una bottiglia del ’73: rosso rubino; alcool 13,8; profumo e gusto intensi, catramosi, ma giustamente catramosi. Poi un Oliena ’70, rosso carico; alcool 15,50; corposo, completo; un po’ amarognolo e un po’ dolce; molto catramoso. Infine un Oliena ’58, che mi sembra mirabile: alcool 17; appena amarognolo e appena dolce; niente catramoso. illico et immediate Ripeto: quest’ultimo bicchiere mi sembra supremo. Ma, dopo soltanto qualche “sospiro” e per il resto a digiuno, come posso giudicare? Non sono un , non sono un professionista dell’assaggio. L’entusiasmo che provo all’inizio di qualunque viaggio ma specialmente questa volta, in un paese così insolito e ignoto come la Sardegna, la strana e potente bellezza della natura, il mite splendore della mattina che ormai volge al mezzogiorno, l’aria della montagna, il digiuno stesso, mi condizionano ottimisticamente. Chi fa l’assaggiatore di mestiere, chi assaggia vino tutti i giorni e molte volte ogni giorno, sputa sentenze con la stessa facilità con cui sputa il vino (e se non vuole rapidamente ammalarsi). Ma un dilettante come me non può, e non è giusto che possa, e deve dunque affrontare impavidamente il rischio di una malattia. Ah, come vorrei avere gustato, invece, l’Oliena di cui d’Annunzio scrisse a Hans Barth da Marina di Pisa nel lontano 1909, ma riferendosi all’ancora più lontano 1882, quando lui, Pascarella e Scarfoglio furono inviati speciali in Sardegna per la rivista : tastevin lo deve sputare Il Capitan Fracassa ... se vorrete pur sostare alla foce d’Arno... io vi prometto di sacrificare alla vostra sete un boccione d’olente vino d’Oliena serbato da moltissimi anni in memoria della più vasta sbornia di cui sia stato io testimone e complice... Eravamo clerici vagantes per un selvatico viaggio in Sardegna, io, Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella... Ah mio sitibondo Hans Barth, come le vostre nari sagaci avrebbero palpitato allorché il rosso nepente sgorgò dal vetro con quel gorgòglio che suol trarvi dal gorgozzule quei di cui parla il nostro Firenzuola! Avete nel cuore qualcuna di quelle Odi purpuree di Hafiz che cantano il vino e la rosa?... Il poeta epico di Villa Glori, che allora, col Morto de Campagna e con la Serenata, era entrato nell’arte giovanissimo maestro per la porta della perfezione, non ebbe cuore di respingere un dono di ospitalità così fatto. E io, ebro già dell’odore, lo pregavo di bere per me; e simile lo pregava il nostro compagno. Cosicché per ogni dimora egli ritualmente votava tre tazze... Quando uscimmo per raggiungere la nostra vettura, era già trasfigurato in prisco Quirite e voleva lasciar su la via le vili brache polverose per vestire a guisa di toga illustre il cuoio irsuto... Esso poi e il Quirite si riempirono d’un letargo che durò due giorni. Ma in tutto la sbornia di Oliena fu quadriduana. dice Marta a Gesù, come vien tolta la pietra sopra a Lazaro giacente da quattro dì. Ma il Pasca dopo quattro dì auliva come il roseto di Hafiz. . certi amorevoli scrocchi Iam foetet Adhuc bene olet Lainittu, tra Oliena e Orgosolo: paesaggio e atmosfera da spaghetti-western. Qualità o quantità? Questo il problema dei viticoltori; ma il dubbio è spesso risolto dalle leggi economiche. Prima di un lunch mondano m’incontro con Giovanni Pau e il suo vino due volte travasato. Lainittu è un’azienda modello, gestita direttamente coi metodi più moderni e scientifici dall’Ispettorato Agrario della Regione Sardegna. Siamo soltanto a una trentina di chilometri da Oliena; ma ci si arriva per una strada che solo in principio è asfaltata, e poi, tutta pietrosa, irregolare, solcata da profonde carreggiate, aggira alla base il maestoso massiccio di Sopramonte. Dall’altra parte e, per intenderci, dalla parte stessa di Oliena, è Orgosolo. La valle di Lainittu è un catino lungo sette chilometri, stretto, per chi come noi vi giunge da nord, tra ripide pareti: a ovest, dal monte Udde, minore cresta del Sopramonte, a est dal Gutturgius, a sud dal Tiscali: di là ancora c’è il mare, il golfo di Orosei. Da una parte e dall’altra queste pareti sono, in basso, grandi boschi compatti di querce scurissime, quasi nere: e, in alto, compatte rocce dolomitiche, quasi bianche. Il luogo è silenzioso, isolato, e sembra deserto di qualunque vita, se non vegetale. Si pensa però subito ad animali selvaggi rintanati: anche, forse, a uomini nascosti, specialmente oltre il Tiscali, verso la conca acquitrinosa delle sorgenti del Sa Oche. Si sa, il nome evoca i banditi. Ma lo stesso aspetto di Lainittu, a prima vista, evoca qualcosa che è, insieme, più lontano e più famigliare: se la moda degli spaghetti-western continua, e se qui non hanno ancora , un giorno o l’altro : e non so con quanta soddisfazione del dottor Bassu che certo non gradirà mettere a repentaglio i suoi vigneti perfetti. Per antica tradizione, in Sardegna i vigneti erano, e sono ancora in molta parte, piantati, come credo in tutto il mondo, e certamente in tutta Italia, piuttosto sulle convessità del terreno che nelle concavità. La vigna ha bisogno di terreno arido e soleggiato, teme l’ombra e l’umidità. Ma forse c’è un limite anche a questa regola. Di sole e di arsura, la Sardegna ne ha anche troppo. Inoltre, l’acquisto o l’affitto, qui, di terreni incolti e abbandonati a fondovalle è molto meno costoso dell’acquisto o dell’affitto di terreni collinari. Infine, : un po’ di umidità e di ombra sono indubbiamente nocive alla qualità della vendemmia e, quindi, del vino, ma in compenso ne favoriscono enormemente la quantità. Anche la vigna a alberello significa qualità: e la vigna a spalliera, invece, quantità. Come in tutto il resto, anche nelle innovazioni del dottor Bassu prevale il fattore economico, il dannato consumismo. Sopramonte girato gireranno ecco purtroppo il punto Le vigne sono tutte di Cannonau, lo stesso vitigno dell’Oliena: e non più a alberello, ma a spalliera, a cordone speronato. Si vendemmia però ancora a mano, artigianalmente. Vengono coi camion le ragazze di Dorgali o di Oliena. Ma Bassu sogna la vendemmia meccanica, e il tendone: il tendone che dovrà presto sostituire la spalliera, come la spalliera ha sostituito l’alberello. Di Oliena è il fattore: Giovanni Pau, un uomo alto e grosso, tanto per cambiare. Mi invita a entrare in una casupola di pietra. Mi fa assaggiare del vino che fa lui, non qui, ma nelle sue vigne private di Oliena, piantate a alberello. È del ’74, travasato due volte, uve appassite per una settimana sulle pietre. Prima di gustarlo, penso: adesso ci siamo, questo dovrebbe avvicinarsi a quello di d’Annunzio. E come potrebbero, le sensazioni che proverò, io letterato sebbene non dannunziano, non essere influenzate da questo ricordo? Fatto sta, alzo il bicchiere contro la luce che quasi non passa, tanto il vino è spesso. Lo fiuto amorosamente. Lo bevo. Com’era? Controllo sul mio taccuino. Vedo che, subito dopo l’assaggio, ho scritto queste parole: Ma adesso, mesi dopo, mi pare di ricordare che l’acidità fosse eccessiva. Forse ha nuociuto il trasporto fin quassù, nella valle di Lainittu, dove batte un sole rovente e dove l’aria è così infuocata che sembra mancare? O, forse, ha nuociuto anche la permanenza nella casupola di pietra? perfezione assoluta. E basta col bere, se no faccio la fine di Pascarella. Quasi le due del pomeriggio: siamo in grande ritardo e “i signori” ci aspettano per un mondano alla di Su Cologone. lunch Country Inn Carta da musica spruzzata di olio crudo, budelletti ai ferri, maccheroni bucati col ferro da calza e miele amaro: mangiari copiosi e fitti conversari con mio cugino, l’ammiraglio Giuseppe Bianchini. Torniamo indietro verso Oliena sulla strada pietrosa. E adesso abbiamo davanti, di là dalla valle del Cedrino, una lunga parete che prima non avevo visto, simile a una fortificazione: rocce rossocupe, stranamente regolari e perfettamente a piombo. “Basalto!” avverte Bassu. Fino al più lontano orizzonte, verso il mare, non una casa, non una traccia di presenze umane. Finché, svoltando in una strada secondaria, saliamo al country inn. A qualche anno ormai dallo scoppio consumistico della Costa Smeralda, non ci dovremmo stupire più di niente se non, addirittura, che la Sardegna sia rimasta in tante parti così antica, e così pura. Tuttavia, quando appare in alto, su uno spiazzo terroso, il basso edificio a pianta e articolata, lucido di cristalli e aguzzo di enormi mansarde, abbiamo la sensazione di arrivare in un motel dell’Utah o del Nevada. organica Il lunch è a base di specialità sarde. Vernaccia per aperitivo. Pane : ossia quelle sottili sfoglie croccanti dette e spruzzate, di olio crudo. E pane : ossia imbrattato con una salsa di pomodoro e pecorino. : budelle sottili di capretto o di maialetto, piene del loro stesso enzima fermentato, e cotte sulle braci: qualcosa come la pagliata romanesca e lo scozzese. : cioè maccheroni bucati con ferro da calza. : porcellino da latte arrosto. : frittelle ricoperte da formaggio fresco e da uno spesso strato di miele amaro. guttiau carta da musica gocciolate frattau Cordula haggis Maccarones de erritu Porceddu Sebadas Ma, per me e per mia moglie, il vero piacere è-di trovare, nell’elegante comitiva che ci attendeva, anche un nostro carissimo cugino, che non vedevamo da anni: l’ammiraglio Giuseppe Bianchini e sua moglie Mariangela. I mangiari sono copiosi, e fitti i conversari. Ho davanti mio cugino e, irresistibilmente, anche se poco riguardosamente verso i vicini di tavola, rievochiamo la nostra lontanissima fanciullezza. È vero che bastano allusioni, fra lui e me, della brevità di una parola sola: o anche soltanto sguardi. Vecchio ufficiale di marina, lui è pendolare tra Roma e Nuoro: conosce ormai il paese a fondo, sua moglie è di qui, una Guiso-Gallisai. Parlando delle famiglie più potenti della Sardegna, dice che il loro partito politico conta fino a un certo punto: anche se appartengono a partiti opposti, queste famiglie sono tutte imparentate tra di loro. Anzi, così mi dice: “tutte embriciate”. Abbraccerei qui mio cugino, per la felicità di questa espressione. Un momento di malinconia per la Sardegna e per me stesso, quand’eravamo più giovani. Ritorno, sempre con Bassu, per la valle del Sologo. È il tramonto quando arriviamo a Nuoro. Ma saliamo lo stesso al monte Ortobene, quasi mille metri di altitudine. Vi ero già salito coi Serra e con Luca Pinna. Una grandiosa massa granitica, con formidabili cupole di un grigio vivo che affiorano, sparse qua e là, in una foresta di lecci. Oggi, la strada che sale fino in cima è tutta asfaltata. E sull’ampia convessità della vetta, ville e chalet per il week-end dei nuoresi: ancora un’installazione di tipo decisamente americano, là dove erano, fino a quindici anni fa, soltanto una chiesetta e una casetta, umile osteria per cacciatori di cinghiale. Non ho dimenticato, nell’unica stanzuccia, a terreno, davanti al caminetto fiammeggiante, la cena: carta da musica, porceddu cotto sotto la terra e servito coi rapanelli, vino di Oliena. Il padrone del grande ristorante di oggi è il figlio del padrone dell’osteria di allora e si ricorda benissimo di me. Una consolazione, certo. Ma perché non devo dire che mi assale la malinconia? Non soltanto ero più giovane. Era più giovane la Sardegna, che in pochi anni pare invecchiata di secoli! Quei giovani di oggi che hanno il cuore giovane sono sicuro che preferirebbero l’Ortobene del 1960: se no, perché andrebbero a passare le vacanze in paesi lontani e preconsumistici, Turchia, Jutland, Nepal? Ce l’avevamo qui, il nostro Nepal. Una strada alta sul mare meditando su acidità, profumo e alcool di alcuni vini da pasto. Andiamo, con De Muro, alla Cantina Sociale di Sorso. Pochi chilometri da Sassari, verso nord. L’enologo è un piemontese, si chiama Franco Rivano. Vinificano quarantamila quintali l’anno. Vermentino: bianco secco, 13 gradi, piuttosto catramoso. Cannonau: rosato, abboccato, 15 gradi. Cannonau Rosso , 16 gradi, che l’etichetta dice secco, ma invece è dolce, specialmente al retrogusto. Moscato Sorso e Sènnori, 15 gradi dichiarati, ma probabilmente più alcoolico. DOC DOC Ho gustato anche un Cannonau del ’72 direttamente dalla botte, ed è il solo di questi vini che mi sia piaciuto. Profumo più intenso che in tutti gli altri, colore più vivo, dolcezza meno greve. Il mistero è presto spiegato: qui, come in moltissimi altri stabilimenti del genere, si solfita, si refrigera, si pastorizza. Invece, il Cannonau che ho assaggiato dalla botte non aveva ancora subito nessuna di quelle tre operazioni: soltanto travasi. Torniamo per Trinità d’Agulfu, Badési, Villadoria: una strada alta sul mare, vigne dappertutto. A Badési beviamo un vino locale, lieve di gusto, ma sproporzionatamente alto di gradazione. E comincio a sospettare che in questo squilibrio consista un rischioso difetto che affligge certi vini sardi da pasto: bassi di acidità fissa, tutto il loro profumo, quando viaggiano o anche soltanto se sono lasciati invecchiare di un paio d’anni, è sopraffatto dall’alcool. Non parlo, certo, dell’Oliena, che ha corpo: e tantomeno delle Vernacce dell’Oristanese, che hanno un sapore deciso e violento. Costa Smeralda, Disneyland isolana. Don Raimondo Fresi, parroco di Porto Cervo, un prete nel turbine consumistico, ma con l’hobby salvifico del vino. Varie volte ero già stato sulla Costa Smeralda, ma sempre arrivandoci in barca, dalla Corsica o dalla Maddalena. Ad arrivarci in macchina, dall’interno della Sardegna, fa un effetto altrettanto disastroso. Se la grafologia rivela spietatamente il carattere degli individui, l’architettura può essere definita la grafologia delle società. E in nessun complesso di abitazioni moderne come nei villaggi fulmineamente sorti dal nulla tra gli anni ’60 e oggi sulla Costa Smeralda, balza agli occhi la condanna della società capitalistica, consumistica, industriale. Vi si legge chiarissimamente una turpitudine deforme e ridicola, e la si leggerà nei secoli a venire, finché gli ultimi ruderi sgraziati, squallidi, comici, biancheggeranno di plastica e cemento tra le rosee rocce, via via sepolti dalla viva verzura mediterranea, via via assaliti e cancellati dal riflusso amabilmente frastagliato dell’antica, naturale scogliera. Si dirà che non sono migliori le soluzioni edili di cui mena vanto la California a Santa Barbara e a Eden Rock. Certamente. Ma almeno gli architetti americani dovevano popolare di costruzioni plaghe immense fino allora prive di insediamenti umani e immemori di qualsiasi civiltà. Agli italiani, sarebbe bastato spingersi quattro o cinque chilometri all’interno, dalle rupestri baie fino ai villaggi di Arzachena e San Pantaleo, per trovare meravigliosi modelli cui attenersi proficuamente: mimare, sì, copiare le arcaiche, modeste, ma funzionali e bellissime casupole sarde. Tutto è stato fatto, invece, come si fosse trattato di improvvisare un effimero paese dei balocchi, un’altra, ma qui assurda, Disneyland! E il bello è che, sostanzialmente, un’identica operazione era stata compiuta e si continua a compiere nel settore ( , così dicono loro) della vitivinicoltura. settore Don Raimondo Fresi, giovanile parroco di Porto Cervo, grande elemosiniere della Costa Smeralda e grande amico di Gino Veronelli, è un personaggio. Galleggia nell’occhio del ciclone. Ruota, volteggia e folleggia nel turbine del consumismo. E il vino è il suo hobby preferito. Una cantina, anche quella, alla Disneyland: attigua alla Canonica: un cunicolo storto praticato nel tufo e forse naturale, ma che, seppure naturale, sembra un’imitazione in cartapesta. E, lungo le pareti di tufo, cataste di mattoni forati, nel foro di ciascuno dei quali è una bottiglia. Proviamo subito una serie di vini eccelsi, artigianali e strenuamente alcoolici. Gentilissimo, generosissimo, e come in preda a un raptus, Don Fresi stappa per me, adagio una dopo l’altra, le preziose bottiglie. E ogni volta, esitando, riempie il primo bicchiere, lo rigira e lo rimira contro un raggio abbagliante del sole di mezzogiorno che penetra dall’usciolo aperto. Poi fiuta, sorseggia. Infine, cominciando a mescere intorno, descrive e decanta: “Vernaccia 1970 di Baràtili San Pietro! 16 gradi! il colore è puro oro! un’estasi! allarga i bronchi!” oppure: “Vernaccia di Oristano, 1961, Sardinian Gold! questa è una delle poche bottiglie che ancora mi restano. 20 gradi! più pastosa di quella di Baràtili! il colore è come cognac, ma nessun cognac è così squisito!” e infine: “Malvasia di Bosa, Campèda, 1970, produttore De Riu Mocci, 15 gradi! il colore, vede? è ambrato. Ma il bouquet! Il bouquet! un profumo di rose e di viole. Né oleoso né tantomeno vischioso: direi piuttosto resinoso. Si avverte anche un saporino come di ginepro: in Sardegna dicono di !” inibaru Bosa. Consultando il mio taccuino, vedo che Veronelli mi aveva dato anche lui il nome di Salvatore De Riu Mocci, detto il Ciecone. Questo Malvasia mi pare assolutamente eccezionale: esala un profumo finissimo, vellica la lingua gradevolmente come un impalpabile velo fragrante e setoso. Sono grato a Veronelli e a Don Fresi. Prima di lasciare la Sardegna andrò a Bosa. Il rito severo dell’ospitalità in casa Congiu, a Cagliari. Il particolarismo sardo riflesso nelle sue trenta “incontrade” extralege, autonome e senza etichetta come il vino. Da Sassari, ci trasferiamo a Cagliari, ripassando da Macomèr, deviamo fino a Silanus per conoscere il professor Costantino Congiu, col quale sono in corrispondenza da qualche tempo. In un’intervista, avevo raccontato un aneddoto spiritoso su papa Giovanni quando era nunzio a Parigi. E Congiu mi aveva scritto avvertendomi che invece si tratta di papa Leone XIII quando era nunzio a Bruxelles (1843-1846). Entrando in casa di Congiu, ho di nuovo la sensazione immediata di che cosa sia, ancora oggi, l’ospitalità sarda. È la stessa di cui parlò Lawrence, la stessa di casa De Muro: rituale, vera, severa. E stringe un po’ il cuore. Ma non è colpa mia? Non sono anch’io, più di quanto penso, corrotto dal consumismo e refrattario, ormai, a questa salutare serietà? Avevo una curiosità insoddisfatta. Il continente Sardegna è diviso in una trentina di zone, regioni, territori, che non hanno, o non hanno più, confini antichi e tradizionali. Sono confini non amministrativi, non segnati sulle carte geografiche: ma tuttora vivi nell’uso comune. Già ne abbiamo parlato: il Logudoro, la Gallura, la Campèda, il Màrghine, le varie Barbagie, il Mandrolisai, la Planarza, le Baronie, l’Ogliastra, il Campidano, l’Iglesiente, il Sinis, il Sulcis, il Sàrrabus, ecc. Tutti i nomi ancora usati, sì: nessuno, però, finora ha saputo dirmi il Congiu esita un istante, fruga nella memoria, poi risponde: “Incontrade”. nome di quei nomi. E questa denominazione collettiva, il cui uso ormai è perduto, mentre è tutt’altro che perduto quello dei singoli nomi, mi pare un’immagine perfetta del particolarismo sardo, di questa straordinaria, viva autonomia extralege, extracodice: proprio perché rigorosamente fondata su leggi non scritte e su codici non tanto segreti quanto addirittura inconsapevoli. Figuriamoci il vino! Se esiste un vino che è vero soltanto quando non ha etichetta e quando non ha nome, è dunque il vino sardo. Col giornalista Mameli dell’“Unione Sarda”, a Zeddiani e San Vero Milis. La Vernaccia d’oro chiaro di Giuseppino Seda, e quella straordinaria di Francesco Putzòlo. Un pasto senza vino mi fa pensare a un bambino incapace di ridere. L’indomani mattina riattraversiamo il Campidano dopo aver dormito a Cagliari. Poco più a nord di Oristano, assaggiamo l’autentica Vernaccia nei luoghi dove si produce artigianalmente: a Solarussa, Baràtili San Pietro, Zeddiani, San Vero Milis, Tramatza. Nella pianura, il gruppo di villaggi della Vernaccia è annunciato dal campanile di San Vero: altissimo e sottile. “Mannu cantu de su campanili de sant’Eru”: grande come il campanile di San Vero, dice Mameli che così si dice. Mameli è un amico, ed è un giovane giornalista che lavora all’“Unione Sarda” di Cagliari. Se non fosse per la cupoletta a cipolla che brilla al sole, si direbbe un campanile veneto, della pianura veneta. E anche in pianura sono le vigne: dell’incontrada del Sinis, tra qui e il mare. Razionalità della Sardegna! che, anche nelle sue architetture, cerca sempre un accordo armonioso con il variare del paesaggio. Che cosa c’è, in fondo all’anima di questo popolo? Qual è il suo segreto? Ah, le vie di Zeddiani e di San Vero Milis, pavimentate da lastre di pietra pulitissime, infilate dalla luce dorata del sole che tramonta, tra la doppia prospettiva delle case grige, lunghe, basse, con le finestre e le porte spaziate secondo simmetrie indefettibili, e spiranti la calma di una civiltà che crede soltanto in un universo divinamente ordinato, senza ricordarne, senza immaginarne un altro! Ogni casetta ha la sua cantina. Entriamo da Giuseppino Seda: c’è la moglie Caterina, una donna d’età, esile e tuttavia vigorosa: i suoi occhi sono di diamante nero. Ci offre una Vernaccia di quattro anni. La assaggiamo in piedi, nel cortile appena fuori dalla cantina, sotto una tettoia dove arriva l’ultimo sole. La Vernaccia è oro chiaro, farà 16 o 17 gradi. Quella di Francesco Putzòlo, che proviamo subito dopo in una delle casette vicine, fa addirittura 18! Putzòlo mi dice che non pigia l’uva finché il mostimetro non segna 21 gradi zuccherini. Tuttavia, dell’una e dell’altra Vernaccia, il profumo è così deciso, così intenso e così gradevole che ingloba e annulla qualunque sgradevolezza dell’alcool. Quando poi dal profumo si passa al gusto, ciò avviene, malgrado l’alta percentuale alcoolica, quasi senza sensibile distacco: come scivolandovi. Ecco, la grande regola che permette di riconoscere a colpo sicuro il vino buono è proprio questa: dal profumo, se c’è profumo, o anche (alcuni ottimi Dolcetti, per esempio, sono privi di profumo) da un’olfattìa inesistente, si passa, quando il vino è buono, al gusto, senza provare il minimo urto, senza salire , ma trainati gradatamente e gradevolmente su un piano inclinato e molle, scivolando per così dire verso l’alto. il più piccolo gradino Ora, perché questo si verifichi, è necessario, primissima condizione, che il vino sia armonico, equilibrato, fuso: non sia, esso stesso, Un bicchiere di vino buono deve sempre dare una sensazione di piacere, che eviti quell’urto, che escluda da parte nostra quello sforzo per superare, al primo contatto con le papille gustative, come uno scalino. Se l’acqua, infatti, è una roccia liquida filtrata attraverso strati di rocce solide benché terrose, il vino non è che acqua successivamente filtrata attraverso tessuti vegetali e viventi. Il vino è dunque un’acqua vivente, e un bicchiere di vino buono deve sempre a. un bicchiere d’acqua. Un bicchiere d’acqua quando il nostro corpo ha sete è come un bicchiere di vino quando ha sete la nostra anima. Ecco perché un pasto senza vino mi fa pensare a un bambino incapace di ridere. a scalini. naturale assomigliare un po’ La Vernaccia, la si produce ovviamente in quantità molto ridotte. La Vernaccia, perciò, non è un vino da pasto. Qui a San Vero Milis, a tavola si beve un vino locale di uve miste, nero. La Vernaccia, invece, si beve come aperitivo o come digestivo: soprattutto, la si serba per gli ospiti in visita, e per le feste o per gli anniversari. Lo sposo Emilio Firinu che offre un vino della sua stessa età. La regola dello scalino e la civiltà da cui abbiamo tralignato. Nel villaggio di Tramatza, conosciamo Emilio Firinu, un amico di Mameli: si è sposato la settimana scorsa, e in quell’occasione ha bevuto Vernaccia del 1943, l’anno della sua nascita. La Vernaccia non è quasi mai imbottigliata. La tengono in botti piccole, capacità da 300 fino a 600 litri. Le botti sono lavate con acqua bollente e stop: niente zolfo, assolutamente. Dicono: “Lo zolfo si sente sempre”, e: “La sola cosa che facciamo è travasare. Più si travasa e meglio è. Travasiamo almeno tre, quattro volte ogni anno”. La vendono a costo relativamente molto basso e soltanto a clienti locali, ossia ad amici. Siccome non imbottigliano, riempiono ogni volta, nella quantità richiesta, il recipiente che gli si porta. La botte, in basso, ha un foro ben tappato con lino grezzo. Per tirare il vino, bucano ogni volta il lino con (il chiodo) e inseriscono al posto del chiodo (la cannuccia vegetale) facendo attenzione che non entri aria. Ed è straordinario che , o meglio dell’inesistenza dello scalino all’assaggio, valga proprio per queste Vernacce, che Cyril Ray, nel suo breviario , paragona agli Sherries. su punzoni su piseddu la regola dello scalino The Wines of Italy “Parecchi vini sardi,” dice sir Cyril, “superano i 14 gradi alcoolici che le Dogane Britanniche stabiliscono come limite per i vini da tavola. Se venissero importati, dovrebbero pagare una tassa più alta, come lo Sherry o il Porto. Lo Sherry mi ricorda il più originale di tutti i vini sardi, la Vernaccia, misteriosamente simile a uno Sherry, sebbene prodotto senza nessuno di quei complicati procedimenti che un vero Sherry richiede: la Vernaccia, un aperitivo (come invece è rinforzato lo Sherry) che avrà certo un grande futuro con lo sviluppo attuale della Sardegna.” non rinforzato Ahimè, tutte le Vernacce e tutti i vini sardi, che oggi vengono venduti all’estero o nella nostra penisola, sono a loro volta prodotti industrialmente, e cioè rinforzati: e in tutti, inevitabilmente, si sente , né più né meno che nei famosi Sherries presenti sul mercato mondiale. lo scalino Ultima osservazione sulla Vernaccia di San Vero Milis. Quando gente così umile fabbrica una bevanda rustica così squisita e così raffinata, dobbiamo per forza pensare che ciò sia degno di una civiltà superiore da cui abbiamo tralignato o che, addirittura, non abbiamo ancora raggiunto. La Cantina Sociale di Ierzu che, obbedendo a tecniche modernissime, rinnega la tradizione, mi riporta con la memoria a uno stabilimento vinicolo della California. Giacomo Mameli lavora a Cagliari, ma è di Perdasdefogu, un paese alpestre nell’incontrada del Salto di Quirra. Ci conduce dalle sue parti. Attraversiamo i Sàrrabus: i boschi immensi di Campu Omu, e gole selvagge tra pareti rossastre di trachite. La trachite è una roccia olocristallina, ossia composta di minerali tutti allo stato cristallino. Si tratta, ancora, di un paesaggio molto diverso da quelli visti prima. La Sardegna continua a stupirci, a incantarci. Incantano i nomi stessi: Muravera, Quirra, Tertenia. Non troppo distante sarebbe Perdasdefogu, dove vive la madre di Mameli. Mameli ci parla con entusiasmo del suo villaggio: “Fiero, rimasto per secoli quasi isolato dal consorzio umano, in aspro territorio di nuraghi, e vestigia di abitazioni preistoriche”: certamente vi andremmo, se il vino non ci chiamasse a Ierzu. Invece, trascuriamo molto volentieri i nuovissimi impianti viticoli di Capo Ferrato, verso il mare, dove, con capitali della Regione e di Roma, si produce un Cannonau che sir Cyril raccomanda: “buono, forte, 15-17 gradi, secco ma morbido, abbastanza corposo per accompagnare la cacciagione locale.” Forse sbaglio a non fidarmi di Ray: tuttavia continuo a fidarmi soprattutto della mia esperienza e del mio istinto. Ierzu mi attira di più: grosso centro abitato, famoso fino dall’antichità per il suo vino. Del resto, avremmo anche qui, se volessimo, la possibilità di visitare, oltre le cantine artigianali dei “particolari”, una colossale Cantina Sociale, costruita in forma di torre, identica alla Cantina Sociale di Medana, in Slovenia: arrivando a Ierzu, vedo la Cantina Sociale di lontano, e il ricordo di Medana mi rattrista. Un cilindro alto forse trenta metri, nella cui sterile cavità si sormontano attrezzature elicoidali, autoclavi scintillanti, vasche, pompe, colossali grovigli di tubi, massicci imbrogli di ingranaggi, senza che mai, se non in fortunate occasioni e per brevi segmenti visibili, il mosto o il vino appaia. Lo so che, tecnicamente, è una garanzia: il contatto con l’aria, nelle operazioni di travaso, di filtraggio, di refrigerazione, di pastorizzazione, danneggerebbe il vino. Ma che cosa importa, se poi queste operazioni, tutte meno il travaso, uccidono gli enzimi, stabilizzano, sterilizzano il vino, gli tolgono la sua vitalità? La Cantina Sociale di Ierzu produce 15 mila quintali, imbottiglia tutto. Vino comune, rosso, rosato e bianco, a 12 gradi. E superiore da pasto rosso e rosato a 14: da dessert a 16. Che cosa è accaduto in Sardegna? Semplicissimo. Il telefono automatico fu installato prima a Roma che a New York. È accaduto un po’ come in California e in genere negli Stati Uniti: dove, non esistendo antiche strutture e tradizioni artigianali enologiche prima della civiltà tecnologica e consumistica, i produttori di vino sono partiti da zero: in quell’immensa tabula rasa hanno costruito gli impianti e hanno adottato i metodi chimici e meccanici copiandoli dai più moderni stabilimenti francesi e poi perfezionandoli, ossia portandoli a un estremo cinismo, a un’assoluta disinvoltura, a un folle disprezzo della tradizione. Ho visto, visitando uno dei più importanti stabilimenti enologici della California, enormi vasche o piscine piene di un liquido giallastro come l’acqua del Tevere quando è in piena. Mi si spiegò che da quel liquido, secondo il bisogno annuale del mercato, si ricavavano, mediante coloranti, additivi e complicate manipolazioni, le quantità volute di Cabernet, Chablis, Beaujolais, Gamay, e via dicendo: ciascun vino col suo colore perfettamente imitato, col suo profumo, col suo gusto, e con l’optimum della sua gradazione. Alla gradazione e al colore potevo anche credere prima della prova. Non però al profumo e al gusto, che si rivelarono inesorabilmente lontani da quelli degli autentici e corrispondenti vini francesi e, in ogni caso, disperatamente diversi dal profumo e dal gusto di vini accettabili, qualunque fosse il nome di ciascuno di loro. Sbalordito e indignato, mi imponevo tuttavia il freno della buona creanza verso il manager che mi accompagnava. Per caso, il laboratorio di assaggio era una cabina di cristallo e alluminio, sopraelevata all’estremità di un immenso hangar nel cui pavimento in gomma si iscriveva, quasi a perdita d’occhio, la prospettiva geometrica di una serie di quelle vasche colme di liquido giallastro. Mi limitai, dunque, a indicarle e a mormorare: “Mi permetta una domanda sincera. La pregherei, però, di rispondermi con altrettanta sincerità. Potreste voi produrre gli stessi vini riempiendo quelle vasche con un liquido biologico dove avviene la fermentazione non di uva, ma di qualunque altro vegetale, carrube, cortecce, foglie?” “Certamente. Ma una legge degli Stati Uniti ce lo vieta. Ogni bevanda smerciata con l’appellazione di vino ( ) deve, secondo questa legge, essere prodotta Tanto è vero che negli Stati Uniti si vende liberamente il vino di rose alla condizione che l’etichetta delle bottiglie rechi, appunto, la scritta .” wine soltanto con uva. wine of roses Certo, la Sardegna non era come la California. Qui, esistevano strutture e tradizioni secolari, ma queste strutture e tradizioni non erano, alla fine del secolo scorso e nella prima metà di questo, sviluppate e organizzate artigianalmente come nel Veneto o in Piemonte, dove, verso gli anni cinquanta, costituirono un argine, un freno, un correttivo alle novità dell’industrialismo e dove, quindi, l’industrialismo non trionfò dappertutto né in tutti i particolari procedimenti della viticoltura e della vinificazione. Resistettero, in Piemonte e nel Veneto, i piccoli imprenditori e anche, almeno per una parte della loro produzione, alcuni imprenditori medi, tra l’artigianato e l’industria. In Sardegna, invece, i metodi industriali, la tabula rasa, se non la trovarono, la fecero. Come potevano opporsi i piccoli imprenditori? I piccoli incominciavano a incontrare difficoltà a vendere il loro vino: la Cantina Sociale o la cooperativa pagava a peso le uve, e i piccoli portavano le uve all’ammasso, e pagava persino gli anticipi necessari alle nuove vigne e alla coltura. Non si possono rimproverare i piccoli se contribuirono alla Cantina Sociale, se anzi ne crearono il trionfo, un trionfo che allo stesso tempo era per loro una salvezza economica. Ma alcuni resistettero anche qui. Sono gli unici che mi interessano. Per fortuna c’è chi resiste alle tentazioni industriali. Giovanni Mucéli, le sue graziose tre figlie e l’antico segreto del Cannonau rosato. Uno di questi si chiama Giovanni Mucéli. La sua casa è in un vicolo del quartiere Cuccureddu, al centro di Ierzu. La cantina è in fondo al cortile. E l’abitazione, sul vicolo. Sono con lui la moglie e le tre figlie: Luisa 19 anni, primo corso di medicina; Paola 16; Gabriella 12: tutte e tre estremamente graziose, snelle, vivaci. La cantina è buia, disordinata, stipata di attrezzi e ingombra di botti fino all’altissimo soffitto. Mucéli ha vendemmiato pochi giorni fa, il mosto ancora fermenta nei tini. Si ha subito l’impressione di una straordinaria sicurezza e efficienza nei metodi di vinificazione. Sono ancora identici a quelli di suo padre, suo nonno, suo bisnonno, e per lui quasi istintivi. Non hanno bisogno di luce, anche perché la luce nuoce sempre al vino. E non hanno bisogno di ordine, anche perché l’ordine non si confà mai alla natura. Insomma, nella cantina di Mucéli spira un’antichità vitale, una freschezza omerica. I sacchi olandesi di iuta, che pendono dal soffitto, sono a loro volta antichissimi filtri, attraverso cui si travasa il vino due mesi dopo la vendemmia, ottenendo così il rosato, secondo un procedimento in uso fino dal secolo scorso. E pensare, io credevo che il rosato fosse un’innovazione artificiosa, un’imitazione consumistica del francese, di una moda recente che trionfa oggi in Italia un po’ dappertutto e quindi anche in Sardegna! Le uve del rosato sono le stesse del nero, Cannonau. La gradazione è sempre molto elevata. Le botti sono tutte centenarie e, all’interno, vermiglie di tannino. A parte una leggera solfitazione, l’unica cosa che si fa è di travasare. Quattro, cinque volte l’anno, anche di più. “L’aria,” dice Mucéli contrastando all’opinione dei tecnici patentati e anche di molti artigiani, “l’aria serve un po’ a invecchiare.” Rosé Lo vende sfuso, in damigiane, 350 lire al litro il nero, 400 il rosato. Nella stessa cantina, assaggiamo parecchi bicchierotti di Ierzu dell’una e dell’altra versione. Annoto un nero del ’74, 15 gradi; e un rosato del ’70, 17 gradi: con retrogusto di ginepro, forse comunicato dalla botte. Vini formidabili. Simili, senza dubbio, all’Oliena, ma anche diversi: per una maggiore vivezza, un’armonia sorprendente che concilia il corpo con la scorrevolezza e il vigore con il profumo. Niente , insomma: ma devo pur ammettere che entrando in questa cantina fantastica e immemoriale ero già salito, senza accorgermene, su un piano inclinato che mi preparava al vino. D’altra parte, come ho già detto, è possibile ai profani come me astrarre dall’ambiente in cui avviene l’assaggio? scalino A Stoccolma, per esempio (esempio opposto), ho assaggiato vini nello squallido, nudo, bianco laboratorio della In mezzo, c’era una grande vasca di porcellana con un violento zampillo continuo di acqua fresca: e chi assaggiava era invitato, dai tecnici in camice bianco, a sputarvi dentro. Come volete che in qualche modo il gusto del vino non fosse influenzato dal luogo? Fosse pure stato un nettare, per me aveva sempre un olezzo da Pronto Soccorso. Spritcentral. Più che dal vino, la Sardegna sembra unita dai suoi cinquanta tipi di pane tutti perfetti. Colazione in casa di Mucéli. Tutta la famiglia e noi insieme attorno a un vasto tavolo. , prosciutto di montagna fatto da loro. E pecorino di Porcu ’e Ludu, località verso Perdasdefogu: profumato col timo. Il pecorino sardo in Sardegna è sempre squisito. Ma questo li batte tutti. E pane di Ierzu. Pare che in Sardegna le qualità di pane non si contino: ne esistono almeno cinquanta. Il pane di Ierzu è ancora diverso, unico: pasta compatta e ben cotta, di grano duro, ma, all’aspetto, stranamente simile a quello di Ferrara, cioè liscio, lucido, con sfumature delicatissime che vanno dal bruno al marrone dorato all’avorio caldo. Capisco come un pasto così possa saziare completamente. E all’improvviso mi dico che il mistero del Cannonau che a Oliena tanto colpì d’Annunzio, la spiegazione alimentare della violenza dei vini sardi, forse sta tutta qui: sono perfetti con cibi altrettanto violenti, questo presuttu, questo pecorino. Presuttu A Tortolì, la svista di un proto ha impreziosito il vino del Commendatore Mario Mereu. Andiamo verso Tortolì, da Mario Mereu. Se Mucéli è un artigiano puro che non si piega al consumismo né vinificando né commerciando, il Commendator Mereu è un artigiano altrettanto puro che organizza con alcuni macchinari moderni la vinificazione, senza però deviare dai metodi tradizionali, e soprattutto organizza la distribuzione commerciale inserendosi nel mercato italiano e internazionale dei vini pregiati. Il suo vino è un Cannonau, assai vicino al Cannonau di Ierzu, ma lui lo ha battezzato Perda Rubia, corruzione del sardo Perda Arrubia: cioè pietra rossa. Nel libro di sir Cyril trovo un grande elogio: “Perla Rubia, a particularly fine example of Cannonau.” Malgrado la svista del proto, si potrebbe dire davvero che si tratta di una Perla. Mereu naturalmente non pastorizza né refrigera: ma non filtra nemmeno. Provò a refrigerare per un anno, nel 1952. Poi lasciò. Torchia, pompa in tini di cemento, e nelle giornate successive pompa in botti di rovere. Unica operazione, ripetuta molte volte: travasa. Mette in vendita, metodicamente, sempre, dopo tre anni di botte, e soltanto allora imbottiglia. Imbottiglia tutto, con un’etichetta, una volta tanto, di grande buon gusto grafico. Fa anche lui i due tipi tradizionali: nero e rosato, gradi da 14 a 16, secondo le annate. Non è un dilettante, non è uno spontaneo, né un anarchico del vino. Psicologicamente, è un piccolo industriale che ha capito che il vino può essere soltanto artigianale, e che lo fa davvero da artigiano e non fingendosi, come tanti altri fingono, un artigiano. La sola differenza tra il suo Cannonau e quello degli artigiani consiste nel fatto che il Perda Rubia viaggia perfettamente senza alterarsi: sopporta, e lo dico per mia personale esperienza, qualunque più lontano trasporto e in certa misura qualunque tipo di magazzinaggio. Dopo avere visitato lo stabilimento, vasto, ordinato, pulitissimo, saliamo al piano di sopra, nell’abitazione. La casa, all’esterno, ha qualcosa di decisamente spagnolesco e, anzi, sudamericano: sorge isolata in un pianoro di vigne e frutteti, a breve distanza dal mare Tirreno, e ha alle spalle una catena di colline brulle. Anche l’interno, sudamericano: ampio, comodo, sobriamente lussuoso: stile degli anni venti. Mereu è stato un gerarca fascista. Il suo aspetto e i suoi modi lo confermano, ma senza arroganza. Di statura un po’ al di sotto della media, sanguigno, atticciato, sbarbato, ben pettinato. Mentre assaggiamo lo squisito Perda Rubia, ci racconta minutissimamente, episodio per episodio, fatterello su fatterello, il sequestro che subì nel 1970. Lo tennero per un mese in un buio cunicolo scavato nel tufo delle vicine colline. Racconta come riuscì a sopravvivere, quasi senza mangiare, sdraiato in quella tana. Parla senza interrompersi, con la sua voce rauca e potente, per un’ora e mezzo. E devo dire che lo abbiamo ascoltato con ininterrotta attenzione. Infine, pagando un modesto riscatto anticipatogli da una banca, fu liberato. Non mangiava, però beveva. Un filo d’acqua sorgiva scorreva in un angolo del cunicolo: era un ruscello che si chiama Perda Rubia. Giorgio Lotti, il mago della foto, s’incanta alla bellezza di un masso erratico. L’Abbazia della Santissima Trinità di Saccargia e l’uva non vendemmiata. Arriva finalmente a Cagliari, da Milano, l’amico Giorgio Lotti. Torno con lui in località già visitate, e vado in altre nuove anche per me. Mia moglie, prima, ha preso buonissime fotografie. Ma incontravamo dovunque soggetti di una difficoltà che soltanto il professionista può superare. E Lotti è un mago. Lo avevo già visto lavorare: mai, tuttavia, con la continuità e l’agio che ora mi sono concessi. Da Cagliari, torniamo a Sassari. Sulla Carlo Felice, sei chilometri prima di Sanluri, avevo già notato, a destra, isolato in mezzo a una pianura lievemente collinosa e coltivata a vite, un grosso pietrone di colore ferrigno, che a tutta prima avevo scambiato per un nuraghe. Lo raggiungiamo ora a piedi, lungo una stradicciuola attraverso le vigne, e mi accorgo che si tratta di un masso erratico. Penso subito al masso Gastaldi di Pianezza, vicino a Torino: e come quello, per la tinta verdognola dell’alpestre serpentino, per la cresta dentata, per le pareti a canaloni tutte operate di ombre e di luci, mi era parso, malgrado la cappelleria costruita sulla sommità, quasi l’emblema del Piemonte, così questo mi pare l’emblema della Sardegna. Lotti in mezz’ora scatta un centinaio di fotografie. Riprende il masso da tutti i possibili angoli visuali. Luce piatta, luce di taglio, controluce. Si sdraia tra i filari di vite, si allontana, si avvicina, si arrampica sul masso. Cambia diaframmi, cambia obiettivo, cambia le macchine: ne ha a tracolla tre, forse quattro o cinque, è impossibile seguire la successione delle sue manovre fulminee, intrecciate, ritmate dall’ineguale, ma quasi ininterrotta frequenza dei clic, che odo anche di lontano nel grande silenzio mattutino della campagna. Con Lotti torno a Nuoro, torno a Lainittu, rivedo Bassu e lo prendiamo con noi. Il giorno dopo andiamo in Gallura: ci aspetta a Tempio Pausania l’architetto Giovanni Andrea Cannas. Sulla strada della Gallura, venendo da Sassari dove abbiamo pernottato, e prima di Ploaghe, rivedo e fotografiamo l’Abbazia della Santissima Trinità di Saccargia: abbiamo il favore di una luce dorata, un’aria tersa, un cielo carico di fantastiche nuvole. La chiesa, col suo alto campanile, architettura romanico-pisana del secolo XII, sorge maestosa e libera nella vasta pianura tutta a vigne. È restaurata, certo: leggo sulla Guida del Touring che si tratta di un restauro filologicamente imperfetto, della fine del secolo scorso: ma, ormai, di nuovo, è patinato dal tempo. Costruzione a fasce alternate, di calcare e di basalto. Cioè il bianco cremoso e il tête-de-nègre dei lanosi tappeti sardi. Gli stessi toni caldi, lo stesso accordo pastorale e civile, rustico e ottimistico. Arriva in quella un contadino col suo mulo. Apre un lucchetto, entra nei vigneti che si stendono, di là da un muro a secco, davanti all’Abbazia. Lo chiamo, vorrei parlargli. Finge di non udire, si allontana, entra in una casupola. Riappare. Di nuovo lo chiamo: di nuovo finge di non udire e sparisce. Paziento una decina di minuti, mentre Lotti continua a fotografare. Finalmente, riecco il contadino. Viene avanti con una carriola. Raggiunge il muro dall’interno delle vigne, a breve distanza dal punto dove, all’esterno, siamo noi due. Il contadino scarica lì la carriola: e capisco che è l’astuto pretesto per vederci da vicino prima di rispondere alla mia chiamata, ed è, insieme, il puntiglio orgoglioso di non voler rispondere da lontano alla chiamata quasi padronale di estranei. Ci scruta, e burberamente gentile accetta il dialogo. Si chiama Giovanni Sanna. Le vigne sono di Pascale e di Vermentino, c’è anche un po’ di Malvasia e di Moscato: e della Rossa Cardinale, che verrà spedita tutta a Roma. Non ha ancora vendemmiato, come possiamo constatare. Siamo a cinquecento metri di altitudine. L’uva non è ancora matura. Vorremmo, adesso, assaggiare il vino. Ma bisognerebbe andare fino a Ploaghe, abbiamo perso tempo con le foto, l’architetto di Tempio ci attende, siamo in ritardo. Restiamo dunque con questa curiosità organolettica che tanto più ci punge quanto più arcaici e ancora vivissimi ci sembrano il luogo, la vigna, e il tratto di Giovanni Sanna. Gallura: un proverbio di Aggius dei tempi in cui non si pagavano le tasse. Quando Carlo Felice impose il sistema fiscale, distrusse per sempre la civiltà comunitaria sarda. “Gli Dei ci hanno abbandonato” sembrano dire anche le case abbandonate tra le vigne di Aggius. Passiamo il ponte sul Coghinas: aereo, modernissimo. Il cielo, intanto, si è improvvisamente coperto di nuvole nere: la profonda valle, tra boschi verdecupi, si apre in lontananze romantiche, sfumate, nebbiose, dove il fiume serpeggia e luccica in lame di sole. Una vastità nordica, runica: e per i colori, e per la luce di questo momento, non si può non pensare alla Scozia. , ci spiega di lì a poco l’architetto Cannas, vuol dire “cucina”: perché l’acqua di quel fiume una volta era naturalmente calda: i Romani lo chiamavano Coghinas Thermus. Cannas è alto, magro, ossuto, dall’espressione intelligente, arguta, simpaticissima. Innamorato della sua Gallura, ma estremamente informato della sua arte e di tutto: ha viaggiato, ha letto, ha meditato sul problema sociale della nostra epoca, conosce e soffre l’angoscia della nostra civiltà. Capisce subito quello che sto cercando. Mi porta a Aggius. Siamo solo a sei chilometri da Tempio. Un’amplissima testa di valle alpestre che si presenta a chi arriva da sud come un grande presepio naturale. La concavità è divisa in quattro zone orizzontali ben limitate e chiaramente distinguibili. Dall’alto in basso: 1) i monti di granito, una catena rocciosa, grigio chiara, a denti arrotondati; 2) le case del villaggio, grige ancora più chiare o quasi bianche, sgranate orizzontalmente per tutta l’ampiezza del semicerchio, e che, con il loro profilo variamente dentellato, riprendono in qualche modo il sovrastante fregio montuoso; 3) sotto il villaggio, la fascia verdescura di un lungo bosco di lecci; 4) e sotto il bosco, adagiate su un lento declivio infine pianeggiante, le vigne. Cannas comincia con un proverbio: “Igna faci casa, casa no faci igna. Igna, cioè vigna. E l’economia di Aggius, nei secoli passati era legata alla coltivazione della vite. Fino al 1821 qui non esisteva la proprietà privata. Gli abitanti di Aggius erano organizzati da tempo immemorabile in una vita comunitaria che realizzava concretamente quell’ideale umano da cui i nostri governi, oggi, e i nostri movimenti politici, in tutto il mondo, ci allontanano sempre più brutalmente, ma di cui noi sentiamo, sempre più disperatamente, il bisogno. Nel 1821 salì al trono Carlo Felice. Gli abitanti di Aggius non pagavano tasse. Era impossibile tassarli perché nessuno possedeva niente. Non esistevano recinzioni: solo , comunitarie anche quelle, necessarie a difendere orti e vigne dal bestiame. Il governo di Carlo Felice allora promulgò una legge che ordinava il catasto della proprietà. Questa legge si trasformò subito in un sistema fiscale. Anche gli abitanti di Aggius, fino allora privilegiati, pagarono tasse: e la loro civiltà comunitaria fu distrutta.” Attraversiamo il paese. Molte delle case sono nuove, di cemento. Ma molte ancora antiche, di granito. le chiudende “Il granito, la ricchezza della Gallura, si presenta in tre diverse forme: la , cioè la serra, la catena dei monti che fanno corona; il , cioè i detriti, che ingombrano, al piede dei monti, gli spazi pianeggianti; e il , cioè il grande masso isolato, come ce ne sono tanti sparsi qua e là in tutta la Gallura: sculture naturali e misteriose, mimetiche, simboliche, talvolta con sorprendenti forme di animali, l’orso, l’elefante, l’aquila.” Attraversiamo il bosco di lecci, scendiamo nelle vigne. sarre macereto tafone “I vitigni erano e ancora sono, quel poco che ancora lei vede qui davanti coltivato, Niedda Nostra, Pascale, Cannonau. Igna faci casa. E che case! Per uno strano destino, quasi tutte le più belle sono abbandonate: come le vigne!” All’altezza di un folto bosco di lecci, prendiamo un sentiero secondario, fiancheggiato da rovi. Di là dalle cupole verdescure dei lecci, giganteggia un masso di granito liscio, simile a un monumento scolpito da Henry Moore. Poco oltre, una chiudenda di sterpi storta e sconnessa ricorda che qui il passo era sbarrato. Cannas si ferma e, levando al cielo il suo sguardo azzurro scintillante nelle grandi lenti, con un di ammirazione mi indica il portale, alto e snello, che sormonta la chiudenda: è tutto costruito con blocchi di puro granito. Lo avevo visto, certo, ma non vi avevo fatto caso: la desolazione del luogo, o piuttosto la straordinaria naturalezza con cui il granito si accorda a tutto intorno, mi aveva ingannato. guardi! Entriamo nella vigna e arriviamo a una casa che vi si affaccia, con le spalle al bosco. Di granito anche quella. Il tetto non c’è più, ma tutto il resto sì, inalterabile. Cannas mi illustra, minutamente, l’arte sopraffina con cui la casa è costruita. La porta d’ingresso: i lunghi stipiti diritti si alternano alla base, al centro e alla sommità con travi orizzontali: l’architrave è un solo blocco orizzontale, lievemente incurvato a volta e sormontato da una serie di conci disposti in modo da aumentare via via, verso l’alto, la curvatura. Ho l’impressione di trovarmi davanti a un capolavoro di architettura arcaica e rustica, qualcosa come i più antichi templi dorici. Mi incuriosisce un incavo, piccolo ma profondo, nello stipite a destra, poco sopra l’altezza della spalla di un uomo. Cannas spiega: “Faccia conto... Permette?” mi sfila da sotto il braccio la , la arrotola: “Ecco, faccia conto che sia una torcia accesa. Prima di entrare, la si spegneva ficcandola e rigirandola in questa cavità.” Gazzetta dello Sport L’interno della casa è costruito tutto di granito, e in modo funzionale, per ogni operazione che occorreva: la pigiatura delle uve, la scolatura, il travaso: ecco vasche di granito coi loro canali e i loro fori. Tutto sempre misurato e composto in un’armonia che ha qualcosa di assoluto. Fuori, e anche dentro, là dove non arriva più l’ombra della parete ma dal cielo aperto la luce del sole, sfavillano, minuscoli specchi, le scaglie di mica incluse nel granito. “Più nessuno sa costruire così. E tutto questo che poco tempo fa era ancora vivo tra noi, oggi sta morendo.” Il vino di Aggius, non lo assaggio. Quello nuovo non c’è ancora: ancora non hanno vendemmiato. E quello dell’anno passato non c’è più: ne fanno così poco. Ma cosa importa? La verità in ogni caso non può essere se non quella, sconsolata, che Cannas e io ci diciamo l’un l’altro, improvvisi amici, sull’umile soglia di splendido granito che gli uomini di oggi hanno disprezzato, ma che gli uomini di un tempo costruirono come se potessero varcarla gli Dei: “Gli Dei ci hanno abbandonato,” ci diciamo senza parole, col solo sguardo, “abbiamo rinunciato alla bellezza, abbiamo perso il senso della vita e il gusto del vero vino.” Da Aggius a Bosa, pensando all’architetto Mario Semino, sardo-piemontese. All’indietro nel tempo con la Malvasia del Ciecone. Mio amico da tempo è invece un altro architetto: Mario Semino. Vive a Genova. Suo padre è piemontese e sua madre sarda, di Bosa. E di Bosa, da tempo, lui mi parlava: me la descriveva con entusiasmo, me la disegnava: ah, il fiume Temo, navigabile e perenne, che percorre la città e, difeso a nord da un promontorio, sbocca quasi con un estuario nel mare di Sardegna! Di Bosa, poi, al mondano wine-tasting di Porto Cervo, Don Fresi mi aveva fatto conoscere la celebrata Malvasia che dal suo stesso profumo etereo e dal sapore sottile era stata conservata alla mia memoria col nome del produttore: Salvatore De Riu Mocci, detto il Ciecone. Per Bosa, dunque, partimmo da Aggius quella stessa mattina. Era l’ultimo nostro giorno prima di lasciare il continente Sardegna: e in due smisurate ore lo attraversammo quasi tutto, dal mare Tirreno al mare di Sardegna, arrivando a Bosa verso la mezza. Lawrence, nella sua definitiva ma rapidissima scorribanda, non venne da questa parte. “Di solito,” avverte mentre viaggia verso la direzione opposta, “il livello del mare coincide con il livello della vita. Ma qui, nel cuore di Sardegna, il livello della vita è alto quanto questi grandi altipiani nella loro luce d’oro, e il livello del mare è laggiù, in qualche luogo lontano e insignificante. Quassù è il livello della vita, alto e addolcito dal sole e in mezzo alle rocce.” Ebbene, se fosse venuto a Bosa, Lawrence avrebbe aggiunto un capitolo che modificava, almeno con l’eccezione di Bosa, questo concetto. Nessun altro percorso, tuttavia, può rivelare così chiaramente la struttura della Sardegna: lo si capisce con un solo colpo d’occhio nello spazio di poche centinaia di metri, e accade allorché, venendo da Macomèr, di colpo, dopo Suni, l’altipiano della Campèda finisce, la strada precipita girando a nord nella vallata del Temo, e si vede il mare. Un po’ lo stesso effetto della Scala di Giocca, ma con questa differenza all’orizzonte: mare invece di altri altipiani. Bosa è una vera città. Se non fosse per le automobili, si avrebbe l’impressione di calare all’indietro nel tempo: di tuffarci nel 1875. Troviamo tutto intatto. Digradando dal poggio su cui si arrocca il castello Malaspina, le case basse e nitide si allineano in ordine di qua e di là dal Temo, verso il mare. Sulla sinistra è il borgo minore: un viale alberato, la linea ferroviaria col suo trenino, infine le schiere compatte, quasi un’unica murata rossastra, delle concerie di pellame. Edifici industriali ottocenteschi, evocano ancora l’Inghilterra, addirittura Dickens, ma anche introducono, nelle fattezze serene e liete di Bosa, il solo lineamento che rattristi. Trovo, per tale tristezza, due motivi: primo, nel secolo scorso l’industria non conosceva profeticamente gli orrori del proprio sviluppo futuro, e non curava mascherarsi di gradevolezze e tinte chiare; secondo, queste concerie sono abbandonate da parecchi anni: intonaci scrostati e striati di scolature brune, finestre senza vetri, nere occhiaie vuote. Sulla destra, invece, è il borgo maggiore: Bosa meravigliosamente e tranquillamente viva. La Drogheria, la Farmacia, il Caffè: e le insegne di un tempo, rinfrescate con scrupolo e con assiduità. In una piazzetta interna: il dove ci attende Salvatore De Riu e il suo inseparabile amico Giovanni Battista Columbo, insegnante. fondo Il fondo è un ufficetto-bottega-magazzino. Campeggia, sulla parete centrale, il Tricolore del Partito liberale: “Il più anarchico dei partiti,” dice Don Salvatore, anarchico sui generis: casomai ribelle al disordine, e non si sa se per amore più dell’ordine o della ribellione in se stessa, contro qualunque conformismo trionfante. Studente di medicina all’università di Torino col grande clinico Micheli, ma per natura autodidatta, autonomo, probabilmente (non abbiamo parlato della cosa) celibe: in ogni caso, uomo libero e orgoglioso: fautore segreto e utopico di una sola, immensa comunità composta di infinite comunità concentriche, della terra, delle nazioni, delle regioni, delle , delle città, delle cittadine, dei villaggi, e perfino degli stessi individui, ciascuno dei quali lui concepisce d’istinto come una comunità all’interno stesso dell’individuo, una comunità che si fondi e si organizzi sulla coesistenza armoniosa delle proprie idee e delle proprie passioni individuali. Dotato di un sorprendente , umorismo secco, breve, moderno: allegro e affilato come la sua risatina, che scatta e taglia, ogni volta, a bruciapelo: Don Salvatore, a Bosa, lo chiamano scherzosamente , perché è alto e grosso e perché forse ci vede poco: a meno che, per astuta difesa della sua personale e assoluta indipendenza, esageri a bella posta, o addirittura finga, la cecità. incontrade dry humour il Ciecone La sua Malvasia, in compenso, è Nessun aggettivo, malgrado l’arditezza organolettica di questo traslato, pare più proprio a descriverne la fragranza e il gusto. luminosa. La Malvasia di Bosa appartiene agli Sherries naturali di Sardegna, come la Vernaccia. Ma è di una classe nettamente superiore. Anche Cyril Ray riconosce tale superiorità: “Al profumo, sembra più dolce che al gusto, che è poi quello di uno Sherry medium, un oppure un : non succulento, ma neanche completamente secco. Il bouquet è piacevolmente .” Esistono, tuttavia, varie altre Malvasie di Bosa. E, una delle due: o Ray non ha provato la Malvasia del Ciecone, o la Malvasia del Ciecone è cambiata. La prima edizione del libro di Ray è del 1966: dunque lui è venuto in Sardegna prima. E, “ogni anno,” mi dice adesso il Ciecone, “la mia Malvasia è leggermente diversa. E io, finché non è fatta, finché non l’assaggio, non so com’è.” La gradazione oscilla tra 16 e 18. Altissima, perciò: ma profumo e gusto, ancora meglio che nella migliore delle Vernacce, sono così intensi che esiste sempre un armonioso equilibrio tra l’alcool e il complesso degli enzimi. Assaggiandola, non abbiamo neanche per un attimo l’impressione di stare superando il terribile , sicura spia di un rinforzo artificioso, se non artificiale: di una violenza all’antica tradizione locale, se non di una contraffazione. amontillado oloroso come di fiori scalino La Malvasia di Bosa prodotta dal Ciecone è finissima, leggera, setosa, profumata e saporosa di rosa e di ginepro. Soprattutto completamente secca, checché dica, ma probabilmente di altre Malvasie di Bosa, il fededegno sir Cyril. Col rimorso di non essere andato a Calasetta parto e sento l’amore della Sardegna depositato nell’anima. In un’altra e più vasta, più importante piazza di Bosa, è l’osteria chiamata “da Tattore”. Troviamo l’unica sala quasi al completo. Ma vi regna uno straordinario silenzio: ordine, calma. La gente tace o parla sottovoce. Candide, pulitissime tovaglie e tovaglioli. Mi sembra di entrare nella dining-room di un club a St. James’s, e interpreto così, in un curioso scambio, ciò che provò Lawrence entrando in una trattoria di Nuoro: “Seggono remoti, ciascuno come con un vuoto di solitudine intorno. La particolare antica solitudine delle colline sarde resta loro attaccata, e qualcosa di duro, statico, primordiale.” Cosa ancora più strana, la cucina è squisita, pura, raffinatissima. Abbiamo perfino trote del lago di Gusana, vicino a Gavoi, nella Barbagia Ollolai. Il soffitto è a volte: e il centro e le vele sono affrescate con paesaggi di Bosa dal pittore tedesco Emilio Scherer. Era un esportatore di Malvasia, che verso la fine del secolo scorso si stabilì a Bosa e sposò una ragazza di qui. Squisito è anche lo stile di queste pitture. Colori delicati, celeste, rosa, ocra, bruno, rosso sangue, con effetti quasi settecenteschi. Il porto di Bosa, barconi all’attracco e barili sulla banchina: rotoli di cordami, damigianette di Malvasia. E la conservazione della pittura, non so per quale prodigio, sembra perfetta. Meraviglie senza fine della Sardegna. Partiamo domani. Me ne vado con il rimorso di non essere andato a Calasetta, a sud-ovest: sulla punta nord dell’isola di Sant’Antioco, davanti a Carloforte, dove parlano genovese. Mi dicono che i vini sono diversi da tutti gli altri vini sardi: meno alcoolici! Peccato non provare. Ma proprio queste rinunce, queste attese di un ritorno, questi desideri di scoprire ancora, si depositano nell’animo e innamorano di un paese.