Nelle provincie di REGGIO CALABRIA, CATANZARO, COSENZA, MATERA e POTENZA La Calabria è un piccolo compendio dell’Italia. Antico e moderno nella civilissima Reggio. Traghetto da Cagliari a Napoli, poi Autostrada del Sole da Napoli a Reggio Calabria. La Puglia è la più lunga delle nostre regioni, ma in rapporto alla grandezza e alla montuosità, la più lunga è certamente la Calabria. Tra Sant’Eufemia, sul Tirreno, e il Lido di Catanzaro, sullo Ionio, non ci sono nemmeno quaranta chilometri in linea d’aria. Per la sua configurazione geografica e orografica, la Calabria è dunque un’immagine perfetta e ridotta dell’Italia: esprime l’Italia, così stretta tra due mari, e così costretta tra continue, aspre catene di monti, da ciascuna delle quali se ne può sempre vedere, a occhio nudo, un’altra. Anche per il carattere e per il costume degli abitanti, la Calabria ripete e quasi riassume l’Italia. Non a caso si diceva “le Calabrie”. Ci sono ancora oggi almeno tre Calabrie, quante cioè le sue provincie: Reggio, Catanzaro, Cosenza. E ci sono almeno tre Sile: la Sila Piccola, la Sila Grande, la Sila Greca; senza contare gli altri acrocori come l’Aspromonte, il Marchesato, la Catena Costiera. Nel 1960, quando lavoravo all’organizzazione della Mostra delle Regioni per il centenario dell’Unità italiana, visitai tutte le nostre capitali regionali: in ciascuna, era mio compito illustrare il programma della Mostra davanti a un apposito comitato. Furono diciannove viaggi che intrapresi separatamente, lungo l’arco di parecchi mesi: diciannove, perché il Molise era ancora riunito agli Abruzzi. Fortunatamente, una sola conferenza bastò, per ogni regione, in una sala della Prefettura di quella città che era la capitale della Regione. Ma in Calabria dovetti fermarmi dieci giorni: perché né Reggio né Catanzaro né Cosenza accettarono di fare parte di un comitato unico. Fu necessario organizzare tre sedute diverse in ciascuna delle tre città, e infine dovetti recarmi anche a Castrovillari, che amministrativamente dipende da Cosenza e ne dista solo settanta chilometri, ma che conserva tradizioni, costumanze, caratteristiche molto diverse. C’è perfino una popolosa zona di allogeni, con un etnos, una religione, un linguaggio diversi, non di origine italiana. Era un’esigenza più che giustificata: il programma della Mostra annetteva grande importanza proprio alle più varie documentazioni storiche, artistiche, etniche e sociali delle enclave. Dirò, tuttavia, che non furono tanto questi motivi a convincermi, quanto la prepotente energia dell’avvocato Baldo Pisani, membro del comitato, cittadino di Castrovillari, e “padrino” difficilmente contraddicibile. In altre parole, lo stupendo particolarismo delle Calabrie trovava il suo perno, o piuttosto i suoi perni, in un autoritarismo quasi istituzionalmente fissile e personale. Adesso, è probabile che qualcosa cominci a cambiare: tornando dopo quindici anni a Reggio, che è città tradizionalmente di padrini, ebbi non so bene perché la grande fortuna di non incontrarne, di non averci a che fare: soltanto ne vidi qualcuno, e di lontano. A Reggio, adesso, fin dal primo momento, mi trovai d’intorno persone miti e gentili, intellettuali intelligenti, giovani che mi aiutarono con pronto entusiasmo nella mia chisciottesca ricerca di vini genuini. Capii così, a poco a poco, basandomi su due ordini di osservazioni, che Reggio è la più simpatica, la più viva, la più straordinaria città d’Italia. – . A Reggio e intorno a Reggio, cantine sociali e industrie vitivinicole private hanno, le une e le altre, scarso sviluppo per la semplice ragione che, invece, ha un enorme sviluppo, da sempre e ancora di più in questi ultimi tempi, l’artigianato individuale e autosufficiente. Sono casi ormai frequentissimi. Coltivi una vigna o comperi le uve, possegga una casetta in campagna o conduca vita cittadina in un appartamento di affitto, il reggino beve il suo vino, il vino che lui si fa da sé. I metodi della vinificazione sono antichi o moderni o, anche, antichi e moderni assieme: ma sempre artigianali, perché ogni industria si basa, al contrario, sulla quantità di un prodotto omogeneo e sulla ripetitività del manufatto. L’interpretazione che i reggini danno della loro stessa passione per il vino è di tipo americano, eno-hobby , non di raccoglitori di bottiglie, come la passione di cui si vantano, a Roma e a Milano, i piccoli borghesi ricchi: , di vinificatori casalinghi come, in tutti gli States, innumerevoli operai, impiegati e professionisti, i quali passano gran parte del tempo libero nei loro scantinati, a pigiare le uve, a travasare il vino, a imbottigliare. Primo non passivo ma attivo Ecco: l’evocazione dell’America (dove si può dire tranquillamente che ogni calabrese di Reggio ha parenti emigrati e dove lui stesso, almeno una volta nella vita, ha pensato seriamente di emigrare) ci illumina sul carattere reggino: che è individualista e tradizionale e, allo stesso tempo, non è mai provinciale, ma sempre, in qualche modo, guidato da un istinto aperto, avventuroso, internazionale. . Un’altra spiegazione possiamo trovarla nella geografia. Reggio: centro di raccolta, di smistamento, di commercio e di passaggio dalla Sicilia e verso la Sicilia, dall’Italia e verso l’Italia, da Reggio stessa e verso tutto il mondo. Una Milano del Sud, ma, bizzarramente, perfino meno provinciale di Milano. –Secondo La città di Reggio, infatti, si articola su tre stazioni in fila: Marittima, Lido e la cosiddetta Centrale che invece è a una delle estremità. La vera Centrale, per me, è la Stazione F.S. Lido, lì a due passi dai giardinetti di piazza Indipendenza col monumento a Corrado Alvaro. Una piccola vecchia stazione. Ci sono entrato, la prima sera, dopo le dieci, per comprare i giornali. Affascinato, indugio sulla banchina. Arriva un treno dalla Centrale: avanza lento e familiare come un tram. Attendo di vederlo ripartire. Attendo di vederlo sfilare. Attendo di vedere il cartello giallo della sua meta. Stranamente lunghissimo. Pressoché vuoto: qualche militare, qualche ragazzo. Ecco i vagoni di coda, ecco l’ultimo, ed ecco il cartello giallo: . Penso a questa Italia così lunga e così magra, unita dai doppi nastri lucidi delle rotaie. Lo stesso treno, sulle stesse rotaie, arriverà a Milano domani sera. Un tram fantastico che collega i calabresi con posti così lontani dalle loro montagne boscose e dalle loro spiagge profumate, ma così vicini al loro bisogno di lavorare. MILANO C Aspromonte. Dalla quercia di Garibaldi al comunicando vestito da torero e con la grinta del futuro “padrino”. Svelato l’enigma del vino leggero dell’oste Ferrigno: un perfetto connubio di uve dell’Etna e lavoro calabrese. Ai boschi andiamo il giorno dopo. Saliamo “in Aspromonte” senza pensarci. È una domenica di ottobre, rare e sparute comitive di gitanti. Con mia moglie e con me, ci sono degli amici: Antonio Donat Cattin, torinese, mio concittadino, e Giuseppe Casile e Guido Malvaso, reggini. Un villaggio di chalet vagamente alla svizzera, e abitati solo d’estate. Un laghetto circondato di abeti. In mezzo agli abeti un grande albergo chiuso, giallo e rosa: e tutto, come dipinto, si specchia capovolto nell’acqua immobile. Verso i mille metri di altitudine, attraversiamo un bosco di querce secolari, cupo, umido, gelido. Arriviamo alla quercia di Garibaldi. C’è una lapide con una strofa di Carducci: Mancava ancor, magnanimo ribelle, alla tua fronte coronata di lauri, il serto d’Aspromonte. E quel freddo, quell’ombra già quasi notturna, quell’acre sentore di terra e di foglie bagnate ci sembrano simbolici del nostro vecchio Risorgimento, delle sue glorie ormai contestate... Donat Cattin e io ci guardiamo tristemente, senza parlare ci capiamo. A milleduecento, la Baita di Gambarie: altro chalet alla buona: abbiamo fame, entriamo. Un salone terreno vastissimo e mal riscaldato. Dal piano di sopra, pick-up a oltranza, frastuono di un gran festino, di una folla vociante. Appare subito, però, l’oste Salvatore Ferrigno: aspetto arrogante di “padrino in seconda”: ma tratto, verso di noi, occasionalmente urbano e servizievole quanto si possa desiderare. Dice che c’è un pranzo di trecento coperti per una Prima Comunione: ma ci servirà subito lo stesso, se ci contenteremo di quello che è pronto in cucina. Arriva dopo pochi secondi, con gli antipasti e il vino: il vino è in bottiglie con l’etichetta di un’acqua minerale locale, ma buonissimo. Rosso da pasto: e leggero, vivaddio! Finalmente un vino meridionale di bassa gradazione, sui 10/11 gradi! Avevo provato, la sera precedente, un Pèllaro e un Palizzi: rossi, asciutti: il primo sui 16 gradi, della Riviera poco a sud di Reggio: il secondo sui 14 della Costa dei Gelsomini, sulla Jonica. Ottimi ambedue, nel loro genere: ma squilibrati come quasi sempre i vini meridionali, più alcoolici che gustosi, tant’è vero che, sebbene rossi, vanno serviti, per attenuare l’istantaneo e non gradevole impatto dell’alcool, lievemente freddi. Come mai questo rosso dell’oste Ferrigno è così leggero? Siamo alle tagliatelle quando passi precipiti rintronano sulla scala di legno: scendono in fretta ridendo e strillando dei ragazzini sui dieci anni: corrono a una porta vetrata che è vicino al nostro tavolo, fanno per aprirla, ma vi si oppone uno di loro, un fanciullo pallido, magro, con grandi occhiali d’oro. Assolutamente, è vestito da torero e non da comunicando: ma è proprio il comunicando, ha al braccio l’alto nastro damascato e candido, con le frange d’oro. Duro, cattivo, calmissimo, si pianta di spalle alla porta vetrata e sillaba: “Non entrate.” Poi apre, e scompare di là, lui solo. Se Ferrigno è un padrino subalterno, questo comunicando è certamente un piccolo padrino: e il grande, il vero padrino non può che essere suo padre, che sta al piano di sopra con i trecento invitati e che scuce una milionata per il pranzo della Prima Comunione di suo figlio! Gli amichetti, mogi e muti, attendono a lungo davanti alla porta vetrata finché il padrinello riappare, aprendola quel giusto che gli è sufficiente a sgusciare fuori: chiaro, di là c’è qualcosa che i suoi compagni non devono vedere. Tutti, ora, tornano su correndo. E io non resisto alla curiosità. Nella stanza attigua, un tavolo da ping-pong: e, sopra, grande come il tavolo stesso, la torta più straordinaria che io abbia mai visto in vita mia: rappresenta un villaggio, anzi una cittadina: le case, le strade, la scuola, la chiesa col campanile, il municipio con l’orologio, gli autobus, i camion, le macchine, gli alberi dei viali e dei giardini, le cancellate, i pali della luce, i tralicci della corrente, perfino qualche passante e due vigili urbani... E ogni figura, ogni casa, ogni oggetto è colorato coi suoi verosimili colori. E tutto è di marzapane, di torrone, di zucchero, di cioccolata, di pan di Spagna. Tutto si mangia, insomma. Su questa torta, tra poco, si sfreneranno i bambini onnivori, come ieri sera, in un ristorante di Reggio, a una cena offerta dal Circolo Culturale Regium Julii, si sono sfrenati gli onnivori adulti. Trentadue portate di antipasti, tutte ferocemente piccanti e tutte divorate. Violenza e resistenza di questa gente. Quattro ore a tavola, dalle otto a mezzanotte, mentre un instancabile e inesauribile cantautore, un omone in costume da Marcello della , giaccone, cappellaccio, cravatta alla lavallière, passeggiava avanti e indietro lungo i tavoli imbracciando la chitarra come un archibugio e sciorinando, una dopo l’altra, senza un attimo di tregua, le sue filastrocche e tutte le possibili canzoni. Bohème Violenza, resistenza: ma anche indipendenza, personalità. Il pranzo di sopra deve volgere alla fine. Riesco a bloccare l’oste Ferrigno. Gli chiedo del rosso che abbiamo bevuto a tavola. Che cos’è. Sono uve siciliane: dell’Etna, e precisamente di Zafferana Etnea. Lui le trasporta qui di notte, con i camion, e qui le pigia, in un casale un po’ più giù della Baita, verso i settecento metri. Press’a poco, dunque, la stessa altitudine delle vigne di Zafferana. Ecco perché il vino è leggero. L’Etna, con la frescura dell’altitudine, compensa la calura della latitudine. A parte un saporino lievemente e gradevolmente catramoso che non può mancare dato il terreno vulcanico, sembra un vino delle colline venete o emiliane. I vitigni di base sono Nerello Mascalese e Nocera. Fatto il suo vino, Ferrigno lo conserva in botti da 250 litri. Ogni settimana, ne spilla una e imbottiglia in bottiglie di acqua minerale che chiude con tappo a corona, tiene al fresco, e serve così in tavola, a lieve prezzo. Davvero, si potrebbe affermare paradossalmente che in Italia la sola etichetta che dia qualche garanzia di vino buono e genuino, sia appunto la semplice etichetta di una qualunque acqua minerale. Ma sì! Proprio perché non ci si è curati dell’etichetta, il vino ha per forza da essere buono! Finora i calabresi, tra tutti gli italiani, sono i più vicini a questo ideale. I sardi, visceralmente monarchici, disciplinati, organizzati, sono stati travolti dal sistema industriale consumistico: o, almeno, vi resistono solo qua e là, come isolati. Ma qui in Calabria tutti sono, ancora, isolati. Ecco lo slogan per un’ideale riforma anticonsumistica: “Bevi il vino del paese dove ti trovi!” Libertà della Calabria. Autonomia della Calabria. Rientriamo a Reggio verso le sette di sera. E troviamo la più lussuosa e più centrale bottega di barbiere completamente aperta, con tutte le sue luci sfolgoranti, e dentro il padrone che sta lavorando. Mi avevano detto che oggi avrei trovato chiuso, come ormai è un obbligo, triste e osservato, in tutta Italia. Ma no, in Calabria, massima libertà, perfino dai sindacati. Entro, e mi faccio radere. Mi abbandono sulla poltrona, chiudo gli occhi, e comincio a fantasticare... Ecco, l’Italia è il paese del mondo che produce più vino. Non solo. Ma è anche il paese che produce più vini. Ogni regione, ogni provincia, ogni circondario, ogni villaggio ha il : e più o meno diverso da tutti gli altri. Allora: la grande potrebbe attuarsi almeno in Italia. Dovrebbe collegarsi strettamente con il turismo. Ecco lo slogan di partenza: “Bevi il vino del paese dove ti trovi!” suo riforma del vino L’oste Ferrigno diventa un paradigma, proprio perché opera in un luogo dove le vigne non crescono: ma va a prendere l’uva nel più vicino luogo dove crescono e dove le condizioni climatiche sono simili al luogo dove lui pigia le uve, conserva il vino e lo mesce al cliente! Se tutti i ristoranti in Italia, se almeno la loro maggioranza facesse così, saremmo salvi. Un passo indietro che sarebbe, invece, un enorme passo avanti. Obbiezione: come non ferire troppo i mercanti di vino? Studiare la cosa. gli osti a seguire Ferrigno, certo no. Ma mettere di moda, nelle trattorie, cartelli che dicono: “Qui si beve soltanto vino fatto da noi per voi”... E in questo sogno felice, sotto la ronzante carezza del rasoio, a poco a poco mi addormento. Non obbligare Una foto bellissima sulla curva delle rotaie rivela che il progresso finisce per accordarsi alla natura. Andiamo sulla Ionica, al villaggio chiamato Bianco. Ci accompagnano e ci colmano di gentilezza ancora i tre amici di ieri. Andiamo da un magistrato, Ferdinando Jelasi, Presidente della Corte d’Assise. Pare faccia vini eccelsi: il Greco di Bianco e il Mantonico. Perdiamo tempo per strada. Ci fermiamo a Spròpolo, poco prima di Capo Spartivento e di Brancaleone. Mia moglie fotografa un soggetto da impressionista moderno, cioè figurativo-semplificato, cioè innervato da un’evidente struttura geometrica e diviso in poche zone orizzontali, ciascuna di una corposità relativamente omogenea: un primo piano verdegiallo, vigne; un secondo piano verdegrigio, agavi e fichi d’India; quindi, rotaie, un solo binario, una sola grande curva incandescente al sole e parallela alla curva che fa, più in là, la bianca spiaggia della Punta di Spròpolo; infine il mare aperto, il cielo, e sulla destra le cineree lontananze della Sicilia, la sfumata sagoma dell’Etna. Quadro bellissimo: la sua bellezza si costruisce da sé, sulla curva delle rotaie. Un caso in cui il progresso non nuoce alla natura, anzi vi si accorda e la esalta. Ma chi può dire? Forse, questa bellezza, la suggeriscono le rotaie solo perché sono nostalgia di un progresso ormai trapassato e dolore di un progresso presente che odiamo. Il magistrato viticoltore mi offre due splendidi vini: un Greco profumato di zàgara e il succulento Mantonico. Il Presidente Jelasi è piccolo, sottile, bianco avorio: sorridente, intelligente e gentile. Ci riceve in un salotto al pianterreno della sua casa modernissima. Gli dico che abbiamo poco tempo, vogliamo vedere subito le vigne e dove fa il vino. Lui si allontana per ordinare la macchina. “Magistrato straordinariamente mite” dico a mia moglie. “Mite?” dice lei, “sbagli di grosso: quello, quando passa, tremano i muri. Guarda il naso.” Jelasi ritorna e subito lo vedo diverso: certamente una persona garbata, ma anche esatto, lucido, nervi saldi: sa quello che vuole ed è abituato a ottenerlo. Ora noto il naso, e lo sguardo d’acciaio: assomiglia a un falchetto: un falchetto addomesticato dall’ideale dell’ordine e della giustizia. Le vigne sono lontane dal mare qualche chilometro, in una pianura ampia che risale insensibilmente verso le colline. Ben disposte, quali a spalliera, quali a alberello, e splendidamente tenute. Sia il Greco sia il Mantonico sono vini da dessert: infatti, al centro delle vigne, sotto una rustica, deliziosa tettoia, vedo un’abbondante scorta di graticci di canna: su questi, le uve appena vendemmiate maturano all’aperto, al sole, almeno una settimana e non più di dieci giorni. Altrettanto bello il , ossia il luogo dove si pigia. È un edificio basso e bianco, con un portico aperto su un cortile. D’angolo, un altro portico: la vecchia casa dei Jelasi, che si addossa all’abside della chiesetta neoclassica di San Francesco. Il Presidente, trasferendosi qualche anno fa nella nuova abitazione, ha ceduto questa al contadino. palmento “Ma se lei la restaura, diventa una villa all’ultima moda! Perché non fa cambio col contadino?” E lui non dice di no, si limita a sorridermi benignamente: “Può essere un’idea.” In mezzo al cortile, su un tavolino di marmo, sono pronti i bicchieri per l’assaggio e le bottiglie. Il Greco di Bianco fa 16 gradi. Vitigno: Greco. Colore giallo dorato intenso. Profumo quasi amarognolo, come di zàgara, cioè fior d’arancio. Gusto dolce, ma non troppo dolce. Due anni in botte prima di imbottigliare, e ogni anno viene travasato due volte. Imbottigliato, invecchia al massimo per altri due o tre: a poco a poco si fa più asciutto e poi . Ha poco tannino. Proviamo una bottiglia giovane, del 1974. Gradi 16, ma forse di più. Ai primi sorsi, e più specialmente sulla lingua che non al palato, trovo una straordinaria somiglianza col nostro Caluso. Antonio Donat Cattin, che è amico personale di Jelasi, assaggia anche lui, medita, e mi dà ragione. Continuando, scopro tuttavia la differenza: il Caluso, col suo gusto gradevole e profondo di castagna, mi pare più consistente e meno alcoolico: più concreto, direi, e meno astratto. Il solito guaio, anche qui, dei vini meridionali: ma questo Greco è squisito, e di gran classe. si perde Il Mantonico invece (qualcuno dice Montonico) ha colore più scuro: quasi marrone. Profumo forte, sapore tannico. Gradi 16. Travasi e tempo in botte come il Greco: ma, diversamente dal Greco, invecchia benissimo, ed è decisamente più dolce, più spesso, quasi succulento: assomiglia, casomai, al Marsala: ma un Marsala, s’intende, non lavorato, non rinforzato. A Samo (di Calabria) non si fanno vasi, ma tessuti di cenci colorati. L’accoglienza entusiastica in casa di Umberto Ceratti, ufficiale postale di Caraffa. In casa di Umberto Ceratti, dove andiamo subito dopo, mi dicono che si chiama Mantonico perché ha il colore del manto del monaco. Ceratti ha vigna, casa e palmento sulla collina, a Caraffa del Bianco, che in epoca fascista era un villaggio riunito a Samo di Calabria in un solo comune con le vicine frazioni di Casignana, Sant’Agata e San Giovanni. Ora ciascuno fa da sé. Megalomania accentratrice e classicheggiante del fascismo! Chiedo perché “Samo”. Forse si facevano anche qui vasi di terracotta come anticamente a Samo di Grecia, nelle Sporadi? No, vi si facevano, e si fanno ancora un po’, le , tessuti di cenci colorati, strettamente ritorti e uniti con una trama di fili altrettanto colorati. pezzane Ceratti e la sua numerosa famiglia ci accolgono con entusiasmo e con una colazione prodigiosa, tutta di irresistibili specialità locali. E ritroviamo il Greco e il Mantonico: ma confesso che fui incapace di rinnovare il troppo copioso assaggio perpetrato a digiuno nel cortile del Presidente. Ho in cantina, qui a Tellaro, alcune preziose bottiglie che gentilmente Ceratti mi regalò. Una volta o l’altra, quando le stapperò, il primo a riceverne notizia sarà proprio lui, anche perché il suo ufficetto enologico quasi si confonde col ufficetto postale: sì, lui è l’ufficiale postale di Caraffa. E si dica poi che non v’è un destino nei nomi! suo Non lontano da casa mia, sui monti della Val di Vara, c’è un villaggio che si chiama, portentosamente, Calice al Cornoviglio! So che vi si fa un vinello bianco di tipo ligure, Vermentino con Trebbiano. Ma non l’ho mai assaggiato. Salirò un giorno a Calice al Cornoviglio? Ogni volta che vado a Genova, lo vedo lassù, il paese: altissimo, in cresta, nel sole, col suo castello (o chiesa?) e con la sua torre (o campanile?). I nomi affascinano e, messi alla prova, non tradiscono mai. Siamo noi che li tradiamo, non abbandonandoci alla toponomastica, primordiale letteratura, immensa antologia di infinite minime poesie, ciascuna composta di un libero verso e di un solo nome, ciascuna ispirata, dalla realtà e dalla cultura, a un umile, per sempre ignoto, generoso autore! Fra tanti vini, il Pèllaro San Cosimo, di cui si ubriacò per una settimana il deputato friulano Gasparotto. Sulla via del ritorno a Reggio, ci fermiamo a Pèllaro, : sulla punta dell’alluce d’Italia, come dice sir Cyril. Il Pèllaro, dopo il Cirò, è forse il vino più famoso della Calabria: certamente il più noto nella Calabria di Reggio. Lo avevo già provato, l’altra sera, coi trentadue antipasti. Avevo posato il mio taccuino accanto al piatto e lo riempivo di appunti sui vini, anche per cedere un po’ meno alla tentazione di finire ciascuna delle pietanze che mi trovavo davanti. Mentre scrivevo, il tempo passava, tornava un cameriere e mi toglieva il piatto in ogni caso, anche se ne avevo preso una sola forchettata, e lo sostituiva con un altro, colmo del successivo antipasto. Consulto adesso il taccuino: “Molti rossi, pochi bianchi”. Segue una filza di nomi e di note. Tralascio queste, ricopio quelli: “Scaramozzino, Arghilà, Armacà, Zarmà, Gioia, Greco, Pèllaro, Malvasia di Scilla, Cerasuolo di Scilla di Jeracare di Paci, Bivonci, Atafi, Spartivento, Favagreca, Palizzi”. Segue una pagina dedicata esclusivamente al Pèllaro. Mi era piaciuto più di tutti gli altri. Avevo voluto che la bottiglia mi rimanesse sul tavolo, accanto al suo bicchiere. L’etichetta era manoscritta e ciclostilata, dunque di tipo artigianale-organizzato. Diceva: “Pèllaro San Cosimo, produttore dottor Postorino. Gradi 14”. Ecco ora la mia nota: “Rosso scuro. Al primo assaggio, piuttosto abboccato: ma poi, e sempre più, nettamente asciutto. Profumo e sapore che evocano, col loro retrogusto un po’ fumoso ma gradevolissimo, la conserva di more selvagge. Mi sembra che abbia più dei 14 gradi dichiarati. Lo dico al mio vicino di tavola, e lui conferma il mio sospetto: dice che il Pèllaro, in genere, è sempre molto alcoolico. A Reggio si parla ancora dell’onorevole Gasparotto, il quale dovette fermarsi a Reggio un’intera settimana, per una sbornia di Pèllaro.” on the tip of the toe of Italy L’onorevole Gasparotto! Quanto tempo che non sento più il suo nome. Di lui si parlò moltissimo negli anni immediatamente precedenti il fascismo, e molto meno, ma in ogni modo se ne parlò di nuovo, dal ’44 al ’47. Cerco nella Treccani. Luigi Gasparotto, nato a Sacile (Udine) nel 1873. Tre medaglie d’argento al valore nella Prima guerra mondiale. Deputato dal ’21 al ’22 e ministro della Guerra. Antifascista, fece l’avvocato fino al ’43. Nel ’43 riparò in Svizzera. Suo figlio Leopoldo nel ’44 fuggì dal campo di Fossoli e morì da partigiano. Luigi Gasparotto fu di nuovo ministro, con Bonomi e De Gasperi, dal ’44 al ’47. Partecipò alla Costituente. A quanto mi sembra di ricordare, era simpaticissimo, un bon vivant. Friulano, si sarà gettato sul Pèllaro pensando a qualche Schioppettino delle sue parti, che è un vino forte, ma mai più di 13 gradi. Gasparotto era piccolo, grassottello, con un pizzo alla D’Artagnan. Avrebbe ora più di cent’anni. Nessuno lo ricorda più. Sia affidata almeno al Pèllaro la sua memoria. Pèllaro, una formula quasi segreta di Giovanni Trebisonda, ingegnoso vignaiuolo del dottor Postorino. Ancora i nomi! Pèllaro? Forse vi insisto per la somiglianza (ma aritmica) con Tellàro, il paese dove vivo. In ogni caso, il dottor Cristoforo Postorino è completamente degno del Pèllaro che produce. Medico, ancora giovane, alto, sbarbato, franco, moderno. Università a Bologna, ha esercitato per qualche anno a Ferrara prima di tornare a casa. Ora esercita all’Ospedale di Reggio. Ha viaggiato mezzo mondo, ha studiato seriamente l’enologia, l’ampelografia, l’agricoltura. La sua casetta, in contrada San Giovanni di Pèllaro, è nitida, lucente: ho l’impressione di trovarmi in California da qualcuno dei miei amici americani appassionati vinificatori. Ci presenta il suo vignaiuolo, Giovanni Trebisonda. Gustiamo insieme: un bianco che è un’invenzione personale di Postorino: Trebbiano Toscano 80% e Malvasia 20%; poi un Aleatico prodotto a Milazzo, dall’Azienda Gitto; un Pèllaro San Cosimo del ’69, molto secco, 14 gradi; infine un Pèllaro San Giovanni, del ’73, 16 gradi, rosso cupo, vellutato, morbido, liquoroso, eccezionale, che secondo me resta l’optimum. Le uve di questi Pèllaro, in ogni caso, sono una mescolanza: Alicante 60%, Nerello Mascalese e Calabrese 30%, Malvasia bianca e nera 10%. Gli esperti danno diverse composizioni. Per esempio il Ray dice che il Pèllaro si fa soltanto con il Nerello. E il Di Corato parla di Alicante, Nerello e Nocera. Ma è chiaro che le uve e i nomi delle uve che entrano nella composizione dei veri vini sono, a volte, una materia labile, variabile, che può essere fissata solo approssimativamente e temporaneamente. Visitiamo la cantina. Piccola e perfetta. Da manuale. Produce centodieci quintali di vino, non di più. Le botti sono nere, massicce, antichissime, di gelso. Peccato sia notte e non possiamo vedere le vigne. E peccato non si riesca, da queste parti, neanche con la migliore buona volontà, a fare un vino meno alcoolico. La spiegazione sta nel clima. Con questo sole, le uve si caricano inesorabilmente di zucchero, e la fermentazione arriva a un grado di calore eccessivo: una salita che è impossibile arrestare senza artifici meccanici, termici, chimici, elettrici ecc., interventi complessi che ridurrebbero la gradazione alcoolica, ma snaturerebbero il vino: è ciò che accade in California, nella Napa Valley. Nessuno di quei vini, neanche il migliore, vale il Pèllaro di Postorino. Melanconiche ipotesi sul Cirò che rimanda ancora ai vini di California. Intervista con Giovanni Ippolito, generoso dispensatore di notizie. Il vino è sempre ignoto finché non lo si assaggia. Inutilità (o quasi) della denominazione di origine controllata. Da Reggio, sull’Autostrada del Sole che in questo tratto non si discosta mai troppo dalle rive del Tirreno, andiamo a Catanzaro e poi a Cirò. Siamo di nuovo sulla Jonica, duecento chilometri a nord di Bianco. Abbiamo così percorso trasversalmente due terzi di Calabria, dalla punta dell’alluce all’inizio del metatarso. Prima di mettermi in viaggio, avevo cercato nell’elenco del telefono di Cirò tutti i produttori e tutti i commercianti di vino esistenti a Cirò, e me ne ero ricopiato i nomi nel taccuino, chiarissimi, a inchiostro rosso, per evitarli prontamente, per non avere nulla a che fare con qualcuno di loro. Tutte le mie esperienze precedenti con questo vino mi consigliavano prudenza. Avevo assaggiato bottiglie di Cirò con etichette più o meno famose, bottiglie di Cirò con etichette ignote, e bottiglie di Cirò senza etichetta: ma, confrontando tra di loro gli assaggi, mi era parso di poter concludere con un’ipotesi malinconica. Anche se malinconica, la riferisco proprio perché è soltanto un’ipotesi. Dunque: rosso o rosato, artigianale o no, il Cirò è un vino dal gusto piacevolmente asciutto e arguto ma, in rapporto a questo gusto, troppo alcoolico: almeno 13,5. In conseguenza, il Cirò tende naturalmente al magro e all’acìdulo: insomma, il suo equilibrio pare precario: qualche banale incidente, un trasporto improvviso durante una giornata di calore, una permanenza di mezzoretta al sole sull’angolo di un ballatoio, può rovinarlo senza rimedio: anche se genuino, diventa aspro, non lo si può più bere. Che cosa hanno pensato, allora, i vinificatori ufficiali e medagliati? Cercano, con mescolanze e accorgimenti vari, di creare un prodotto più stabile e meno delicato. Ma il risultato rimanda ai vini di California. Guadagnano in resistenza e perdono in qualità. Ciò che resiste agli sbalzi del clima o dell’ambiente non è il sapore naturale, il guizzo vivo e pungente del Cirò, ma qualcosa di metallico, liscio e inerte, qualcosa tra l’aperitivo e la lozione. Quindici sono i nomi delle ditte che visitare a Cirò. Mi ero chiesto dove sarei andato a sbattere. E avevo risolto il problema nel modo più semplice: telefonando all’Ispettorato agrario di Cirò Marina, e avvertendo della mia visita. Mi presento adesso all’Ispettore. E lui si presenta a me: “Giovanni Ippolito, dottore in agraria...” non devo “Ippolito?! Un momento, scusi.” E consulto febbrilmente il mio taccuino. Dopo di che osservo: “Scusi. Ma, Ippolito, c’è anche una ditta di vini, o sbaglio?” “Lontano parente. A Cirò gli Ippolito non si contano.” “E Felice Ippolito, quello del , mio amico?” CNEN “Parente lontano anche lui.” Giovanni Ippolito è un tipo che va bene: franco, pratico, spicciativo, generoso. Sul vino di Cirò sa tutto: ma non per questo si dimostra avaro del proprio sapere. Tanti altri, invece, quando sanno tutto su un dato argomento, misurano le informazioni a gocce, come se fosse un tesoro che parlando si consuma. “Lei viene da Reggio? Bene. Le dirò subito che il 40% delle uve di Cirò, appena raccolte, vanno in provincia di Reggio dove si fa a gara per accaparrarsele. Una lotta. A Reggio, nelle famiglie, c’è il gusto, c’è la mania di pigiarsi il vino da sé. Il Cirò ha bassa acidità fissa, quindi invecchia poco. Ma è ricco di tannino. Ultimamente si preferiva vinificarlo lasciandolo poco o niente sulle bucce, ossia . Oggi, grazie al cielo, si sta tornando all’originale, tradizionale . Secco, ma di corpo, e parecchia glicerina. L’ideale dell’invecchiamento, per berlo, va da uno a tre anni. Forse in nessun altro campo come nell’enologia l’importanza che si annette alla quantità del prodotto incide sulla sua qualità. Ma, attenzione! Io non intendo, così, riferirmi brutalmente alle centinaia di migliaia di ettolitri che si vinificano ogni anno a Cirò: e non condanno le grandi ditte e le cantine sociali per il loro enorme sviluppo, anzi, me ne compiaccio e faccio quanto posso per favorirlo: semplicemente, vorrei spiegarle perché nella produzione vinicola, un aumento di quantità significa un calo nella qualità. Si tratta di un fenomeno immodificabile: di una legge fisica a cui non si può contraddire. E faremmo meglio a parlare di quantità, ma : sarebbe più chiaro. Se diecimila quintali di mosto, che fermentano in due cisterne di cinquemila quintali l’una, a farli fermentare in duemila tini di cinque quintali l’uno, si adotterebbe questa soluzione perché la quantità totale del prodotto resterebbe evidentemente la stessa, ma la qualità sarebbe senza confronti molto migliore. Perché il calore della fermentazione sta in un rapporto diretto col volume di ciascuna massa fermentante, e perché il grado di calore raggiunto dalla massa fermentante sta in rapporto diretto con la distanza che intercorre dal centro di questa massa e la sua superficie a contatto con l’aria.” si tendeva al rosato rubino intenso non di volume costassero lo stesso Azzardo: “Scusi se la interrompo. Voglio vedere se ho capito bene. Ho visitato una volta la Manifattura Tabacchi a Cava dei Tirreni. Ho visto masse di foglie di Kentucky in forma di cupole esagonali, dal diametro di circa due metri: fermentavano, fumavano da un foro praticato in alto, nel centro, come piccoli vulcani. Mi fu detto che se il diametro fosse stato di un metro e se, conseguentemente, il volume della massa fosse stato minore, non avrebbero fumato. E il tabacco non sarebbe fermentato a dovere. Si tratta dello stesso fenomeno?” “Lo stesso. Ma il paragone va capovolto. L’optimum per la fermentazione del Kentucky sono masse di due metri di diametro, e un metro, un mezzo metro non basta. L’optimum, per il mosto, è un diametro minore, mettiamo tra due e tre metri. E un diametro maggiore, cinque o sei, è terribilmente esagerato: il mosto bolle più del necessario. Ecco perché gli americani refrigerano artificialmente le loro grandi cisterne di fermentazione.” “E voi, invece, per il Cirò?” “E noi, per il Cirò, invece... invece pure. Ecco la spiegazione di tutto. Produrre Cirò artigianalmente costa troppo. Bisognerebbe venderlo a un prezzo parecchie volte più elevato di quello corrente.” “Anche se si tratta di Cirò a Denominazione di Origine Controllata?” “Anche. Il prescrive cifre esatte che riguardano il rapporto della quantità di uve raccolte con l’area coltivata. Precisa una gradazione minima: 13,5. Precisa anche la qualità del vitigno. Ma niente altro.” DOC “Qual è il vitigno?” scartabello il volumetto del Ray che ho sempre in tasca: “il Ray dice: uve Gaglioppo e Piedilungo.” “Il Piedilungo non si usa più,” dice Ippolito, “il disciplinare stabilisce: uve Gaglioppo per almeno 95% e uve Trebbiano Bianco o Greco Bianco per l’eventuale differenza.” DOC Approfitto dell’occasione per sfogarmi contro il . DOC “Abbiamo imitato con parecchi lustri di ritardo la legislazione francese” dico. “Ma mi ricordo benissimo che in Francia, già prima della Seconda guerra mondiale, i bollini delle Appellations Contrôlées non significavano niente. Da noi, oggi, significano ancora meno. Ora, esistono, senza dubbio, dei vini buonissimi. Ma anche molti pessimi. D’altra parte, esistono molti vini che non hanno nessun bollino e sono, qualche volta, molto migliori dei migliori . Forse che lei si fida di una persona, di un uomo, perché è decorato o laureato? Che importanza hanno i titoli e i diplomi? A me, la sigla , quando precede il nome di un vino, fa lo stesso effetto della sigla Comm. quando precede il nome di un ignoto. E ogni vino è sempre un ignoto finché non lo si assaggia. D’accordo, dottor Ippolito?” DOC DOC DOC “D’accordo, purtroppo.” “Mi basta. E la ringrazio.” “Tutto sommato, però...” aggiunge il dottor Ippolito “... tutto sommato, la legislazione è meglio che ci sia. A poco a poco...” DOC “A poco a poco” dico “andrà sempre peggio.” “Spero di no” conclude il dottor Ippolito. E io, finalmente, mi azzittii. Mi sembrò scortese non lasciarlo alla sua speranza. Ma non esito ad aggiungere adesso ciò che allora, anche rischiando la scortesia, in nessun caso avrei potuto aggiungere: perché appartiene a una scoperta che feci dopo, in altre regioni, risalendo lo stivale. I bollini di un vino sono, o piuttosto dovrebbero essere, a numero chiuso: dovrebbero corrispondere, nel loro totale, zona per zona, al totale dell’area coltivabile con i vitigni stabiliti per quel vino, e dovrebbero essere assegnati al produttore in rapporto alla denuncia delle aree da lui coltivate: accade, invece, che il produttore li ottenga senza nessuna formalità a parte quella di un illecito congruo pagamento. Né credo che le cose vadano diversamente in Francia: e riconosco, una volta tanto volentieri, che i francesi ci sono maestri. Chi si occupa di vino, sa benissimo che non scopro nessun altarino. Ma, per chi è fuori dalla bolgia, scelgo quasi a caso un riferimento: “La Stampa” del 16 marzo 1976, “Cronache di Alessandria Asti e Cuneo”, pagina 11: DOC “Neive d’Alba... interessante dibattito ecc. su iniziativa del Centro Assistenza Tecnica Agraria della zona Mango-Neive... È stato denunciato il contrabbando in atto dei bollini comprovanti la , per cui molti produttori vinicoli dichiarerebbero una produzione superiore a quella effettiva, per ottenere più bollini, che poi si vendono al mercato nero.” DOC Il dottor Ippolito, intanto, mentre parlavo, non mi aveva approvato completamente, però mi aveva capito. E subito dopo mi domandò: “Sa come mi chiamano qui? Il medico . Siamo una provincia della Magna Grecia. Il è il nome greco di un torrente che si getta in mare qui vicino e che oggi si chiama Lipuda. Crimissa era anche il nome di uno dei più famosi vini dell’antichità: era il vino offerto agli atleti che tornavano vittoriosi dai Giochi Olimpici. Ebbene, in greco, il letame si dice , e per metatesi, nel nostro dialetto, ancora oggi, e . Dunque, il medico deu cròpio è il medico del letame: un termine scherzoso con cui e , ossia quelli di Cirò Superiore e quelli di Cirò Marina, definiscono il dottore in agraria. Come medico deu cròpio sono vicino, vicinissimo alla terra e le presento due amici che sono campioni imbattibili di genuinità. Li ho convocati qui per lei!” deu cròpio Crimissa copría cropìa cròpio cirotàni marinòti Uno è Francesco Palòpoli, sindaco di Crùcoli, comune di quattromila abitanti, alto sulla collina, a una ventina di chilometri da Cirò. Mi ha portato un regalo: un’albanella attraverso cui traspare una materia spessa di colore rosa carico. “Questa è la , la grande specialità di Crùcoli,” dice il giovane sindaco, alto robusto e gioviale, dall’aria americana, come del resto tutti i calabresi quando sono alti. Sardella “E che cos’è la Sardella?” “Bianchetta, bianchetti, pesciolini neonati che noi chiamiamo anche : la lavoriamo in salamoia, lasciandola in vasi come questo per molti mesi, impastata con semi di finocchio selvatico e pepe rosso. Lei proverà. Una cosa fantastica. Noi la chiamiamo il . E fino da adesso le comunico che lei e la signora sono nostri graditissimi ospiti a Crùcoli nei giorni 10 e 11 del prossimo agosto. Facciamo ogni anno la grande Festa della Sardella.” rosa marina caviale del sud Mia moglie e io ringraziamo commossi e promettiamo che, se potremo, verremo. L’altro campione di genuinità è Carmine Aloisio, anche lui un calabrese altissimo. Rosso di capelli e di carnagione, ossuto, nasuto: non sembra americano, ma addirittura scozzese. Glielo dico, e lui: “Infatti, sono stato prigioniero di guerra in Scozia, e mi sono trovato così bene che ci sono rimasto, dopo, per dieci anni!” Conversiamo un po’ in inglese e poiché è passata l’una, ci invita senz’altro a uno spuntino. Andiamo, insieme al dottor Ippolito. Ci riceve in una saletta terrena la signora Aloisio. Sul tavolo è preparato uno spuntino da atleti delle antiche olimpiadi: pane a trance; prosciutto; formaggio fermentato; cipolle rosse, crude e intere; acciughe; olive in due diverse qualità di salamoia, una rossa e una verde; e, naturalmente, la Sardella, che è il piatto forte e principale. La Sardella si presenta praticamente come una pasta omogenea. La si mangia stesa su fette di pane; o, meglio ancora, usando una sfoglia di cipolla dopo l’altra come un grosso cucchiaio che si immerge nella Sardella e che si mangia insieme alla Sardella. La cipolla mi piace ma purtroppo io non piaccio alla cipolla: così devo limitarmi al referto di mia moglie, che però è entusiastico. Beviamo Cirò di varie annate e capisco che questi cibi inverosimilmente piccanti correggono il difetto naturale dei naturalissimi Cirò che lo scozzese stappa per noi: ne compensano l’alta gradazione, quasi la annientano. Chiaro, tuttavia, che per fare onore a tali imbandigioni, bisogna possedere, degli atleti delle antiche olimpiadi, anche il fegato, i reni, e tutte le viscere. Vinto momentaneamente, mi allungo su un canapè, nella stessa stanzuccia dove abbiamo affrontato la battaglia, e mi addormento alla musica di parole di una fitta conversazione tra Ippolito, mia moglie, Aloisio e la signora Aloisio. Mi sveglia dopo una mezzoretta Ippolito e ci conduce con la sua macchina verso Cirò Superiore. Le “cavallette” vendemmiatrici di Cirò Superiore, anacronistica visione da fantascienza. Le strade salgono e scendono in ampi avvolgimenti: la collina, di qua e di là, è tutta vigne. Moderne, ormai, ad alti filari. A un certo punto ci fermiamo e proseguiamo a piedi. È la prima volta che vedo una vendemmiatrice, ossia una macchina per vendemmiare: e voglio osservarla da vicino. Ippolito, candido e ottimista, me ne illustra il funzionamento. Ma io quasi non lo ascolto: guardo allibito questo esemplare entomo-morfico di un’agricoltura apocalitticamente meccanizzata. Poco più in là ce n’è addirittura una batteria, di vendemmiatrici! Sono alte tre metri, si reggono su divaricate, sottili zampe metalliche e munite di ruote alla base: sembrano mostruose, gigantesche cavallette fantascientifiche: le cavalca un essere umano e loro procedono sul filare delle viti facendoselo passare sotto l’inguine d’acciaio, fra l’una e l’altra zampa, mentre elettronicamente, con antenne tastatrici, e con ventole o palette, sfogliano le viti e le diraspano fulminee, raccogliendo le uve in appositi cestelli, anche quelle più basse, che sfiorano il terreno. “Si perde un 5% del raccolto,” dice Ippolito, “ma si risparmia l’85% nel costo della mano d’opera. In pochi minuti si vendemmia un filare di cento metri.” Taccio: cosa dovrei dire? Ma Ippolito finge di scambiare per stupore ammirativo il mio terrore. Gli perdono perché è simpatico. Malgrado la sua fiducia nella fantascienza, resterà per me l’antico e umanissimo medico deu cròpio. Con Giuseppe Scaramuzzo, alcuni assaggi del viticoltore Luigi Raccioppo i cui vini scaldano le orecchie. Verso sera, sulla via del ritorno a Catanzaro, mi fermo a Isola di Caporizzuto. Vedo il dottor Giuseppe Scaramuzzo della Cassa Rurale: mi parla del vino di Sant’Andrea, verso Crotone: Cantine Sociali; vitigno Gaglioppo. Dico a Scaramuzzo che vorrei assaggiare il vino di qualche “minuscolo particolare”, e lui mi porta in casa di Luigi Raccioppo. Raccioppo raccoglie uve per una trentina di quintali: metà la consegna alla Cantina Sociale, metà le vinifica da sé. È una mescolanza di Gaglioppo, Malvasia e un po’ di Piedilungo, Greco Bianco, Zibibbo. Fa 13 gradi. Lo si comincia a bere in febbraio. Lo assaggio: lo trovo molto più profumato del Cirò. Ma è un vino che si conserva poco, per via dell’alta acidità volatil e della bassa acidità fissa: al solito. Provo, infine, un vino che mi pare molto alcoolico, sebbene Raccioppo lo chiami “da tavola”. Dice che le vigne sono del fondo di Sant’Andrea, sul mare, e che questa esposizione ci spiega i 20 gradi zuccherini, poi trasformati in 14,6 alcoolici. Aggiunge che non dura più di un anno. Colore rosa carico. Profumo gradevole. Gusto squisito: tra abboccato e amarognolo, con retrogusto di mandorla. Ideale, scrivo nel mio taccuino. Ma bisognerebbe riprovarlo con calma. Sono assaggi fuggevoli, come giurarci? È notte, ripartiamo. A un bivio, prima di Catanzaro Lido, mi balena davanti per un attimo, nella luce dei fari, una freccia col nome di un paese: “Sciaccotracco”. Penso allo Sciacchetrà nelle Cinque Terre. Ma invano, la stessa notte, a Catanzaro, cerco nelle guide e nelle carte: nulla. Come dice Rigoletto, “Avrò forse sognato!” Solo un futuro computer organolettico potrà descrivere e fissare nei secoli gusto e profumo dei vini. Che gusto avrà avuto, nel 1919, il Gaglioppo o Magliocco del Marchese Susanna? La mattina seguente, prima di lasciare Catanzaro, conosciamo Pasquale Caruso, grande produttore e commerciante di vino. Ci conduce nella sua villa a Sant’Elia: 700 metri di altitudine, a mezzacosta sulle prime pendici della Sila Piccola. Sotto la villa c’è una vecchia cantina pittoresca, con bottiglie di Gasperina, Soverato, Irrao, Fego e Malvasia di Limbàdi. A parte quest’ultimo, sono tutte varietà di Gaglioppo: oppure Magliocco: sono sinonimi. “Una volta,” dice Caruso, “cinquant’anni fa, a Catanzaro, del Cirò non si parlava mai. Il Cirò fu introdotto dopo la Seconda guerra mondiale: Gasperina e Soverato sono due villaggi, e due vini, sulle colline del golfo di Squillace.” Assaggio un bicchiere dopo l’altro di questi vini minori e li trovo di una classe nettamente superiore ai vini di Cirò. Vini di alta collina, e così buoni, forse, anche perché conservati in questa bellissima cantina, a 700 metri di altitudine. Mi annoto un Fego del ’58. E soprattutto un Gasperina del ’68: 14,50; rosso cupo; profumatissimo; rassomiglia a un Taurasi e quasi a un Barbaresco. Inesauribile, insondabile varietà dei vini italiani! Sapori e profumi altrettanto diversi, l’uno dall’altro, dei loro nomi! Non basta la vita di un uomo per studiare le loro vicende nel tempo, né per scoprire come si intrecciano alle fatiche e alle fantasie degli umili e dei potenti, alle tradizioni, alle innovazioni, alle più casuali combinazioni! Dall’alto viale di abeti che domina la valle del fiume Alli, Caruso mi indica immense distese coltivate: “Tutto quanto lei vede era, ed è ancora in parte, proprietà del Marchese Susanna. Gli uliveti del Marchese Susanna. Le vigne del Marchese Susanna. L’olio e il vino del Marchese Susanna. C’era un tempo in cui non si parlava d’altro, a Catanzaro.” Curiosamente, anch’io, nella mia fanciullezza, avevo sentito parlare molto di un Marchese Susanna. A Viareggio, c’era una signora di Lucca famosa per elogiare i trionfi mondani di una figlia che era a sua volta famosa per una impareggiabile bruttezza: e cotesti elogi sotto gli ombrelloni culminavano in un ritornello che nell’estate del 1919 diventò proverbiale: “Il Marchese Susanna balla il tango soltanto con la Berta!” Il Marchese Susanna era a Viareggio per le bagnature: bello, bruno, slanciato, stempiato, gran ballerino, gran nuotatore, gran giocatore di poker: nobiltà romana, si diceva di lui approssimativamente: forse nobiltà calabrese non sembrava qualificazione abbastanza ammirativa all’ignoranza araldica delle torinesi e milanesi, borghesi comari di spiaggia. Piccolo mondo antico anche quello. Ma che gusto avrà avuto, nel 1919, il Gaglioppo o Magliocco del Marchese Susanna? Si può misurare oggi, da ciò che resta degli scafi, la stazza dei galeoni; si può calcolare, dalle vuote armature esposte nei musei, la forza dei Crociati; e si potrà in futuro, gli ampex degli attuali documentari televisivi, avere un’idea abbastanza precisa di tutta la nostra vita di oggi. Ma il sapore che un certo vino ha oggi mentre è giovane sarà vanificato: il mistero del vino di un tempo sarà svelato soltanto il giorno in cui qualcuno inventerà il computer organolettico, capace non di archiviare i componenti chimici del vino, ma di descrivere il suo gusto e il suo profumo e, soprattutto, di riprodurlo fornendone campioni anche a distanza di secoli. Allora, forse, tutto sarà senza inganni, come nell’Età dell’Oro. Prima ancora di assaggiarli, conosceremo i vini contemporanei per quello che realmente valgono, e perfino la sigla non farà più ridere. visionando DOC Cosenza. L’ingegnere Cesare Cosentini, travestito da cuoco, prepara una cena ideale per assaggiare i suoi vini. Un sorso ciascuno, non di più, dei molti vini del direttore Vincenzo Alegria. Arriviamo a Cosenza a sera, con grande ritardo sull’ora stabilita. Ma, per una coincidenza quasi magica, pochi istanti dopo il nostro arrivo, appare nella hall del Grand Hotel Europa l’ingegnere Cesare Cosentini. “Sono in ritardo anch’io. Ho avuto da fare fino adesso. Una riunione ufficiale, non potevo interromperla: si tratta di costruire una grande diga sul fiume Savuto, per un invaso di 150 milioni di metri cubi...” Cosentini è un tipo moderno, non meno dell’albergo stesso e di tutta Cosenza nuova. Costruttore dinamico, organizzatore efficiente, appassionatissimo della sua professione, del suo vino e del vino in generale. Al tempo stesso, convinto recuperatore, nella modernità, delle buone tradizioni locali. E scrittore, in buona prosa italiana e in classici versi vernacoli, di vivi bozzetti locali e di affascinanti ricette di cucina. Abbiamo appetito? Sì? Bene. Cosentini decide, lì per lì, di improvvisare per noi una zuppa di pesce. Ci ricorda che Cosenza, sebbene stretta tra le propaggini della Sila Grande e della Sila Piccola, dista dal Tirreno in linea d’aria solo trenta chilometri. Ci prende a bordo della sua veloce fuoriserie e ci porta in due pescherie attigue l’una all’altra. Si infila tra i banchi e sceglie, or di qua e or di là, quantità e qualità di freschissimo pesce esattamente calcolate per tre: siamo in tre, perché la sua numerosa famiglia ha già cenato. E appena a casa, mentre facciamo la conoscenza di tutti quanti, lui si traveste da cuoco e prepara, con fulmineità cinematografica, contemporaneamente la zuppa, gli spaghetti, il sugo per gli spaghetti e tre abbondanti porzioni di pesci in umido. Ogni cosa, alla prova, risulta di grande classe. Beviamo il suo Dònnici: 14 gradi. Rubino chiaro. Uve: una mescolanza del solito Gaglioppo (detto anche Magliocco oppure Mantonico Nero) e Mantonico Bianco, Malvasia Bianca, Pecorino. E con un Dònnici, il giorno dopo, comincia il nostro giro intorno a Cosenza. Raffaele Filìci, tornato a casa dopo una lunga permanenza a Montréal, oggi pigia il vino per Cosentini. Assaggiamo di nuovo il Dònnici Rubino. E anche il Dònnici Bianco: uve Mantonico, colore giallo-rosa che tende al mattone; di gusto simile, ma con molto meno profumo, al Pinot Grigio. Scendiamo a Piane Crati, dov’è la Cantina Sociale di Dònnici. Qui il Dònnici, otto mesi dopo la pigiatura, viene regolarmente refrigerato a 6 gradi sotto zero! Così anche l’Esaro Bianco, 12 gradi, uve Malvasia Bianca, Greco Bianco, Zibibbo. E l’Esaro Rosso, 13 gradi. E il Pollino Rosso, 12,5. Provincia di Cosenza, sempre. Ma le uve dell’Esaro vengono dalla zona a nord verso Castrovillari. E quelle del Pollino sono pigiate nelle cantine di Frascineto e coltivate da piccoli produttori di comuni limitrofi, abitati da albanesi: Ejànina, Civita, stesso Frascineto. Senza previe illusioni, e senza rettifiche successive, assaggio un sorso di ciascuno di questi vini. A Vincenzo Alegria, direttore, e a Giuseppe Torletti, amministratore, che assistono, non nascondo il mio imbarazzo. I due, allora, dopo essersi scambiato uno sguardo d’intesa che per caso non mi sfugge, mi offrono un altro vino: appena vi bagno le labbra, non esito a sputare: e i due scoppiano a ridere. Volevano mettermi alla prova. Forse soltanto per chiedermi scusa, ma in pratica dandomi ragione, mi versano infine, da una cisterna non ancora refrigerata, un Dònnici ’69 di colore cerasuolo, profumato, gradevole, 12,4: finalmente un vino accettabile. Ciò nonostante, di gran lunga il migliore tra questi Dònnici, è ancora un altro: fuori Piane Crati, in Contrada Rizzuso, il Dònnici che l’indipendente stradino Eugenio Bonelli pigiò l’anno scorso nella modesta ma onesta cantina dove noi adesso lo beviamo. Il volto allungato e ironico di Eugenio Bonelli e le sue brevi battute argute mi ricordano Girardengo: tanto mi basta, con il suo vino, a decretargli una simpatia senza riserve. Il Savuto è il vino più celebrato della provincia di Cosenza, e sta a Cosenza come il Barolo a Cuneo – mentre il Cirò sta a Catanzaro come il Barbera a Asti. Il Savuto prende il nome dalla valle del fiume Savuto, che si getta nel mar Tirreno a sud di Cosenza, presso Nocera Tirinese. Ma, naturalmente, le vigne sono coltivate più in alto, a più di 500 metri, tra Marzi e Rogliano, sulla destra del fiume. La composizione delle uve del Savuto pare terribilmente mista e complicata: “Gaglioppo (che qui prende un ennesimo nome: Arvino) in misura dal 35 al 45%, Greco Nero, Nerello, Cappuccio Magliocco Canino, Sangiovese, da sole o congiuntamente, in misura dal 30 al 40% con un massimo del 10% per il Sangiovese, e infine Malvasia Bianca e Pecorino, da sole o congiunte sino a un massimo del 25%.” Così almeno, secondo il Di Corato, stabilisce il disciplinare del , di cui si attende l’ineffabile crisma consumistico. Localmente, si parla anche di piccole quantità di Zibibbo, Moscato, Delizia di Vaprio. Ma quante volte, dopo aver assaggiato un vino straordinariamente buono in casa di un viticoltore autentico, sebbene enologicamente ignaro, mi accadde di domandargli: “Di che vitigni sono le uve?” e di ottenere in risposta neanche un nome: il bravuomo indicò attraverso la finestra e disse: “Non so, guardi... sono quelle vigne lì!” DOC Cosentini dice che le difficoltà della viticoltura collinare calabrese condannano il Savuto, malgrado la sua eccellenza, a sparire tra pochi lustri. Mi auguro di no, e mi confortano nell’augurio i tre piccoli produttori di Savuto che lo stesso Cosentini mi fa conoscere, strenui e fiduciosi difensori della tradizione. Francesco Piro, le sue sorelle cecoviane e le comprensibili nostalgie per il Regno delle Due Sicilie. L’Unità d’Italia, afferma, stroncò il progresso del Mezzogiorno. Il più importante dei tre, lo troviamo a Rogliano. Appartiene a un’antica famiglia del luogo. Francesco Piro, impiegato di banca. Per l’aspetto delicato e signorile, lo sguardo vivo nel volto pallido, il tratto gentilissimo, il profondo e religioso rispetto per la cultura, lo associo ai più cari amici meridionali, come Ercole Patti e come Sandro De Feo. Piro va all’ufficio ogni giorno a Cosenza, ma abita gran parte dell’anno a Rogliano, insieme alle cecoviane sorelle, nella vecchia casa rinnovata con raffinatissimo gusto: mobili ottocenteschi spaziati e lustri: l’arredamento che preferisco e che ho scelto, fino al punto che potevo, anche per me. Poco dopo avermi accolto, Piro si affretta quasi a presentarmi delle credenziali: dal solo gesto con cui le porge, le giudicherei inutili; tuttavia, aumentano ancora la mia stima per lui: una lettera di Anton Giulio Bragaglia che ringrazia il padre di Francesco Piro per l’invio di alcune bottiglie di Savuto, un ritratto di Amerigo Bartoli e un numero di , giornale politico-letterario stampato a Napoli, in data 8 febbraio 1854. L’articolo di fondo è un rapporto sulla grande Esposizione dell’anno precedente: Industrie e Manifatture del Regno delle Due Sicilie. Omnibus “C’è anche una lode, ecco qua, della nostra manifattura dell’olio di lino. Ah! Non posso rileggere questo elenco senza rimpianto,” dice Piro, “tutte queste iniziative sono state stroncate dall’Unità d’Italia, pochi anni dopo. L’Unità non servì al progresso del Mezzogiorno, che era già avviato, ma lo stroncò: e servì invece al progresso industriale dell’alta Italia, che invase il nostro mercato con i suoi prodotti.” “Con la casa e con la vigna si marita anche la scimmia”: un proverbio che non regge più. La tonaca miracolosa di Don Alberto Monti, parroco di Rogliano, da cui estrae due bottiglie di Savuto. Il vino va bevuto e capito lì dove nasce. Colazione in casa di Piro, poi visita al dottor Vittorio Colacino, nel villaggio di Marzi. Savuto di quattro annate diverse, dal ’71 al ’74. Alto, bruno, sanguigno, ricciuto, Colacino assomiglia all’attore Pistilli. Esercita regolarmente la medicina e dedica al vino tutto il tempo libero. La cantina è pulitissima, spaziosa, ordinata. Mentre assaggiamo adagio una dopo l’altra le quattro annate, gli chiedo se le sue opinioni concordino con quelle di Cosentini: davvero la produzione del Savuto declina? davvero i suoi anni sono contati? “Non proprio così. Piuttosto, il Savuto partecipa in prima linea a quell’inversione di tendenza che è il solo effetto benefico di un fenomeno in sé obbrobrioso.” “Cioè?” “L’obbrobrio, naturalmente, deriva dal boom del vino industriale: refrigerazione, pastorizzazione, ecc.” “E l’effetto benefico? E l’inversione di tendenza?” “Semplicissimo. Una volta si diventava ricchi col vino buono. Un nostro proverbio diceva: . La signa, cioè la scimmia. Se uno ha una figlia brutta come una scimmia, be’, con la vigna riesce a maritarla. Oggi, invece, si diventa ricchi soltanto col vino cattivo, ma, in compenso, col vino buono si diventa poveri.” Cu la casa e cu la vigna, se marita puro a signa “In compenso? Quale compenso? A me pare un disastro: se col vino buono si diventa poveri, chiaro che il vino buono sta per morire. Ha ragione Cosentini.” “E no! Voi non avete afferrato il paradosso, caro Soldati! Evidentemente io parlavo di un compenso spirituale, sublime. Non so nel vostro Piemonte, se avete alcune isole resistenti di genuinità. Piccole ditte serie che fanno sempre il vino buono. Ma da noi, il vino buono può essere soltanto il frutto di un hobby: di una meravigliosa occasione per impiegare il tempo libero. Non che mi piaccia perdere dei denari. Anzi, del vino che faccio ogni anno io cerco di vendere, a un prezzo molto inferiore del vino altrui, tutto quanto non viene consumato da me stesso e dagli amici ai quali lo regalo: ma la mia massima ambizione commerciale consiste nell’andare alla pari con i costi della produzione. Non è stupendo? Basta dunque che esistano, qui a Marzi e a Rogliano, una ventina di matti come me, e il Savuto sarà salvo.” “Ed esistono?” “Esistono. Resistono. Vi potrei fare i nomi.” Devo forse aggiungere che i sillogismi del dottor Colacino mi trovano consenziente fino all’entusiasmo? Ma torniamo a Rogliano, da Francesco Piro, per una tazza di tè. E lì, quando già annotta, e dal tè siamo di nuovo al Savuto, si annuncia una visita. In un angolo della vasta sala un usciolo si spalanca: appare, ferma e incorniciata, una figura lunga lunga, nera, ieratica, da icona bizantina. È Don Alberto Monti, il parroco di Rogliano. Dà uno sguardo semicircolare. Ha occhiali cerchiati di tartaruga nera. “Comodi comodi!” dice, e avanza maestoso nella penombra. Si ferma a tre passi dal tavolo rotondo, e fissa le bottiglie che hanno sostituito il tè: leva ambo le braccia in un gesto solenne come per imporci un alt. Vedo che ha palme incredibilmente lunghe, piatte e strette. Finalmente, quasi col tono di un : “Quello,” dice, “non è Savuto.” orate fratres Tutti ridono. Don Alberto è un amico al quale piace scherzare. E Piro domanda: “Quale sarebbe il Savuto?” “Nessuno è Savuto. Savuto è solo il Britto” risponde Don Alberto e conclude di colpo l’antifona rivolgendosi a me: “Britto vuol dire . E Britto è questo che io vi porto.” bruciato Dalle due invisibili profondissime tasche della tonaca, con gesti ritmici e paralleli, cava due bottiglie, una di qua, l’altra di là. Stappiamo. Versiamo. Il colore è diverso da tutti i Savuto bevuti oggi, e identico a quello di un Savuto che mi regalò molti anni or sono Giacomo Mancini. “Rosso rame,” conferma Don Alberto “cioè il colore che deve avere il vero Savuto. E l’età giusta: due anni, non di più. Come questo.” Assaggio. Il Savuto di Mancini mi era parso, sebbene di grande classe, : e avevo attribuito quel colore rame alla relativa vecchiezza: lo provai nel ’69, l’etichetta diceva ’64. Può darsi, tuttavia, che il suo gusto dipendesse da un’eccessiva maturazione, se il color rame appartiene al vero Savuto in ogni caso, ossia anche quando è giovane. Questo, il Savuto-Britto di Don Alberto, assomiglia al Gasperina di Sant’Elia (infatti la base è sempre il Gaglioppo) con in più una dolcezza che s’infiltra nell’amarognolo, quasi una freschezza di lampone. diverso diverso Ma perché mi ostino e mi affanno in un’operazione in cui non credo? Come si può descrivere il sapore del vino? Le parole non bastano mai: sono ridicolmente insufficienti. I referti organolettici si articolano al massimo su una ventina di aggettivi: corposo, pastoso, fresco, liscio, fragrante, amarognolo... sempre la stessa musica, e i salti mortali compiuti dal mio amico Veronelli non fanno che confermare questa verità: perché, appunto, sono salti mortali, acrobazie, non una naturale trasposizione letteraria del fenomeno. E perciò continuo a ripetere quanto ho già detto: non faccio questo viaggio per potere poi descrivere un vino ai miei lettori; ma solo per invitarli a viaggiare a loro volta, e a scoprire così altri vini, tutti e sempre diversi, perché il gusto di un vino significa qualcosa solo in rapporto alla persona che lo beve, e al luogo e all’ora e alle condizioni in cui lo beve. Il gusto di un vino che viene di lontano e che si beve a casa propria ha sempre qualcosa di astratto. Ho cercato invano la denominazione Britto in una quantità di indici e manuali, perfino nelle guide regionali e nelle carte geografiche. Il gusto concreto del Britto resterà per me una cosa sola con le sue liquide trasparenze, quasi il fondo-oro-rame di un’icona infernale, al centro di cui giganteggia l’immagine nera e allungata del parroco di Rogliano. Metaponto. Il miracolo enologico della Lucania e il suo ventaglio di insipide proposte. La Lucania, culturalmente, è ancora la regione di tutta l’Italia. Dedicando a questo mio viaggio del vino più tempo di quanto non vi dedichi, e percorrendo così la Lucania a piccole tappe un po’ come ho fatto per la Sardegna, sono sicuro che avrei trovato, anche qui, minimi produttori geniali e raffinati. Chissà che un giorno non possa rimediare: e mi guidi e mi assista la carissima ombra affettuosa di Carlo Levi! più lontana Un po’ come in Sardegna, anche in Lucania l’irruzione industriale del consumismo vitivinicolo ha trovato praticamente tabula rasa, perché le infrastrutture tradizionali consistevano, ciascuna, in una produzione troppo limitata. Forse ce ne sono ancora, alcune o parecchie, e appunto questa è la ricerca che rimpiango di non affrontare. Se, guidato dall’antica fama di un nome, la Vernaccia di San Vero Milis, non fossi andato a San Vero Milis, non avrei mai potuto immaginarmi quel prodigio! Certo, non mi è mai giunta l’eco, finora, di una fama equivalente di un vino lucano. Ma chi può dire? Il vino è vita, e nella vita l’avventura può sorprendere in una metropoli, girando la cantonata, come, improvvisa, nel deserto più desolato. Forse un deserto desolato, solo pochi anni fa, era la piana di Metaponto. Adesso è una sterminata distesa di vigne, a tendone, le più redditizie, le più meccanizzabili, le più industriali di tutte le viticolture. Questo prodigio fa capo alla Cantina Sociale di Metaponto. Ci arriviamo. Tralascio la descrizione dei colossali hangar e delle attrezzature: sono uguali in tutto il mondo. Parliamo con l’enotecnico Mario Metrangolo, pugliese, mentre tutti gli altri sono lucani: funzionari, impiegati, tecnici, operai. La Cantina Sociale di Metaponto fu fondata nel ’61 e ampliata nel ’66. Nel ’75 furono vinificati 75.000 ettolitri. Ecco i nomi delle uve coltivate e vinificate tutte separatamente l’una dall’altra: Primitivo di Gioia, Malvasia Nera e Bianca, Negramaro, Moscato d’Amburgo, Moscatello, Sangiovese, Lambrusco, Barbera, Montepulciano d’Abruzzo, Ansonica ossia Bianco Regina. Un programma colossale, come si vede: prettamente eclettico e, in ogni caso, un genere di produzione molto più simile a quello pugliese che non a quello calabrese. Anche molte delle uve sono le stesse che si prediligono in Puglia. Vinificate separatamente, ma poi, quasi sempre, miscelate con opportuni tagli. È interessante, una volta tanto, menzionare i tipi di vini messi in vendita da una grande Cantina Sociale come questa: Rosso comune, 12,3: Sangiovese 50%, Negramaro 20%, Primitivo di Gioia 20%, Lambrusco 10%. Rosato comune, 11,5: Sangiovese vinificato in bianco, Negramaro vinificato in bianco, Malvasia Bianca. Bianco comune, 11: Bianco Regina 100%, che è anche uva da tavola. Questi tre vini comuni sono non soltanto refrigerati, ma anche pastorizzati. Ecco ora i non pastorizzati, ossia quelli di una classe un po’ superiore: Rosso Metapontino: Sangiovese 40%, Montepulciano d’Abruzzo 40%, Malvasia 10%, Negramaro 10%. Rosato Riserva: Negramaro vinificato in bianco 80%, Malvasia 20%. Lambrusco: uve Lambrusco Maestri 100%, gradi 12/13. Moscato d’Amburgo: 12,5; uve del nome stesso: Passito. Bianco Metaponto: Malvasia 50%, Moscato Bianco o Moscatello 50%. Tutti questi vini, prima del taglio, sono come profumo: neutralizzati perché così “si conservano meglio”. portati a zero Lambrusco Basento! L’importazione del tipico vitigno modenese, il Lambrusco Maestri, è la trovata di cui Metrangolo va più fiero. Lo vinifica rapidamente, lo separa subito dalle bucce: altrimenti, sulle bucce, l’acidità fissa cade subito. Il pregio del Lambrusco Basento consiste appunto, dice Metrangolo, in una acidità fissa di 7 gradi, ossia abbastanza alta perché favorisca la conservazione, e una corrispondente acidità volatile di 0,40 gradi, ossia abbastanza bassa perché non danneggi la conservazione. Il lo si aggiunge dopo la vinificazione della massa principale. torchiato Naturalmente, il grande problema qui a Metaponto è quello del clima ancora torrido all’epoca della vendemmia: se si pensa al diametro enorme delle cisterne dove il mosto fermenta, non possiamo condannare i vari espedienti delle tecniche più moderne con cui si provvede a regolare la fermentazione: possiamo condannare, e condannare come una mostruosità, soltanto l’esistenza di cantine di queste dimensioni. Ho assaggiato, ahimè, con uguale e assoluta disinvoltura, vari di questi vini. All’ultimo momento, quando stavo per andarmene, Metrangolo tira fuori, dal suo laboratorio sperimentale, una bottiglia di Lambrusco “a fermentazione naturale”. E finalmente, dopo tanta tristezza, mi rallegro. Buonissimo, ne berrei sempre. Non si conserva, lo so. Ma a che scopo conservare un vino che, quando abbiamo provveduto a conservarlo, diventa inerte e inutile? Meglio berlo subito tutto, se si può. E se non si può, pazienza: alla distilleria! Vigne nuove e vigne vecchie, vigne a alberello e vigne a spalliera: i cento modi di un’arte intramontabile. Da Metaponto risaliamo la valle del Basento, sfioriamo Bernalda, Pisticci, Ferrandina, poi passiamo sotto l’alto costone cupo, in cresta a cui spuntano le casette bianche di Gròttole, Grassano, Tricarico: sono i paesi di Carlo Levi. Era con lui che avrei dovuto fare questo giro della Lucania. Con lui avrei trovato il vino sublime della Lucania, se esiste! Ma esiste? Esiste certo, e non necessariamente in versioni simili alla Vernaccia di San Vero Milis: ma in altre, diverse, insospettabili, impensabili. Da quando abbiamo lasciato Cosenza, stamattina, ci sembra che la strada, con rare interruzioni, continui ad attraversare soltanto vigna. A Metaponto abbiamo saputo che si tratta di impianti recentissimi e che erano, appunto, quelli della Cantina Sociale. E qui, nella valle del Basento? E, poi, poi le vigne che arrivano fino quasi ai 900 metri di altitudine di Potenza? E anche dopo, da Potenza fino a Rionero in Vùlture e fino all’Ofanto, che segna l’estremo limite settentrionale della Lucania? Vigne, vigne, sempre vigne. Vigne nuove e vigne vecchie, vigne moderne e vigne antiche, vigne a alberello, vigne a spalliera o addirittura a tendone. Con questo boom del vino, in collina hanno sradicato gli alberi da frutta, e in pianura i pioppi: tutta l’Italia ormai pare un solo immenso vigneto. Vùlture: trascuro l’Aglianico per la casa trascurata di Giustino Fortunato. Scendendo verso Rionero, vediamo il Vùlture. Chiude l’orizzonte. Vulcano spento dalle epoche preistoriche, maestoso cono allargato: nella calda luce del sole pomeridiano che lo investe di piatto e senza ombre, adesso il Vùlture mi appare altrettanto lieto, quanto, cinque anni fa, mentre cercavo i vini di Puglia, mi era apparso, dalla parte opposta e cioè da Cerignola, tetro. Senza escludere che questa impressione fosse dovuta anche al nome, Vùlture, così cupo e sinistro, decido per un’ipotesi che l’opposto orientamento geografico avalla: esistono , e le loro due espressioni risultano così diverse proprio perché la loro forma, vista da nord o vista da sud, è immediatamente riconoscibile, identica. le due facce del Vùlture Il vino di Rionero non è altro che il famoso Aglianico del Vùlture, da non confondersi con l’Aglianico di Taurasi, in provincia di Avellino. Sebbene l’uno e l’altro siano prodotti esclusivamente con uve del vitigno Aglianico, non ho mai trovato, in ripetuti assaggi a distanza di tempo, luogo e condizioni, nessuna somiglianza tra i due: altra prova, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che per il gusto di un vino il terreno conta infinitamente più che la qualità del vitigno. Rimando, in proposito, alle parole di un grande conoscitore, Antonio Ca’ Zorzi (vedi pp. 319-324). Le vigne, intorno a Rionero, sono stupende: alternativamente drappeggiate sui dossi e insinuate nelle cavità. Di quelle a solatìo si dice, qui, che sono , e di quelle a bacìo che sono : e tutte col vecchio sistema dell’alberello, ma con una particolarità che non ho mai visto altrove: a meno che, altrove, mi sia sfuggita. Ogni alberello è sostenuto da tre alte canne. E, vicino alla vigna, in un angolo, sorge una piccola piantagione di canne, allo scopo di un annuale rifornimento. Parecchie, infine, di queste vigne sono : gli ulivi vi sorgono in mezzo, a regolari intervalli. Tra ulivi e canne, l’effetto complessivo è di ciuffi sparsi, con una delicata variazione cromatica di gialli e di grigi che interrompono il verde, l’oro, il rosso dei pampini o il nero intrico dei tralci nudi, secondo le stagioni. Qualcosa di profondamente diverso dalla monotonia militaresca dei vigneti piemontesi e gesuitica di quelli toscani. Ma ogni chiazza, ogni appezzamento ha la sua bellezza, per conto suo appare funzionale, gode di una sua struttura. a solagna a mancosa olivetate L’Aglianico del Vùlture va bevuto vecchio e non troppo vecchio: tra i quattro e i sette anni dopo la vendemmia. Se ne producono circa 150.000 quintali: di cui trentamila a Rionero. E Rionero è il migliore Aglianico, e i migliori di Rionero sono: Sansavino, Le Querce, Barile. Mi sorprende perciò, in questo paesaggio di cultura arcaica e civilissima, la fortuna e lo straordinario sviluppo di una Cantina Sociale. La visito, ma non ne parlo. Infine, sarò sincero: ho gustato l’Aglianico della Cantina Sociale ma non quello dei “particolari”, quindi non parlo neanche dell’Aglianico: sarebbe . Le ultime due ore a Rionero, invece di cercare il vino vero e di assaggiarlo, le ho dedicate a visitare la casa e lo studio di Giustino Fortunato. Valeva la pena? La casa è un palazzone ottocentesco e aristocratico, che non sfigurerebbe nel centro di Napoli. È semiabbandonato, quasi in rovina. Di recente lo ha acquistato il Comune: e per ora ha restaurato solo il pianterreno, dove ha sistemato il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani. Il resto fa pena: ma è una pena che, in qualche modo, non turba l’incanto: e, al pensiero di quello che probabilmente sarebbe o sarà un restauro totale e volgare, quasi si preferisce questo abbandono, che almeno conserva il senso della grandezza: il vasto cortile con le porte delle scuderie, il giardino pensile coi suoi lecci e le sue magnolie, le alte sale della biblioteca ancora piena dei sudi libri polverosi: e almeno conserva a noi il senso della nostra decadenza, il nostro rimorso. cru unfair Non c’è luce elettrica al primo piano. Ed è notte, ormai. Tra uno scaffale e l’altro, perlustro con un flash: appaiono vecchie fotografie incorniciate, sotto cristalli sporchi e ingialliti. Mi fermo davanti a un ritratto di Benedetto Croce, con dedica autografa a Don Giustino: Croce giovane, ardito, lo sguardo demoniaco nel brillio dei pince-nez. Di non assaggiare l’Aglianico, certamente valeva la pena.