Nelle provincie di L’AQUILA, TERAMO, PESCARA, CHIETI, CAMPOBASSO Il Peligno Bianco, elogiato da Cyril Ray, completamente scomparso? Nella Piana di Novelli dove si produce il più famoso zafferano d’Italia e poi da Don Luì che promette un vino straordinario... Sotto una pioggia battente, di primo pomeriggio, siamo partiti dall’Aquila, con Vittorio Janni, che gentilmente ci guida. Le montagne ci costringono a un lungo giro, scendono a sud per poi risalire a nord fino a Ofena, scelta come prima tappa tra tutte le impervie mete abruzzesi perché la più vicina all’Aquila e perché lo vuole il destino: a Ofena c’è, o almeno ci dovrebbe essere, il dottor Piergiorgio Cinelli del quale Veronelli mi ha parlato, e a Ofena si coltivano le uve Montepulciano d’Abruzzo con cui Vittorio Janni pigia il suo vino. Cinelli, a Ofena? Janni non lo conosce, non l’ha mai sentito nominare: “Ma se sta a Ofena,” dice, “questo Cinelli, lo troviamo. Venti anni fa, c’erano tremila abitanti. Ora soltanto mille. Ma lo troviamo, eh!” Mentre viaggiamo, cavo dalla cartella da avvocato che non abbandono mai l’atlante automobilistico del Touring e l’aureo libretto di Cyril Ray: vedo che Navelli, dove appunto dovremo fare una conversione a U per risalire verso nord, dista solo venticinque chilometri da Pratola Peligna: a Pratola Peligna si fa il Peligno Bianco, “forse il migliore e il più conosciuto dei bianchi abruzzesi”: sono parole di Ray. Al pari della grande maggioranza dei bianchi dell’Italia centromeridionale, si tratta di un Trebbiano. Ma l’accenno di Ray, così parco di elogi e in genere fededegno, mi tenta: propongo una puntata a Pratola prima di voltare per Ofena. “Inutile,” dice Janni, “inutile! Il Peligno non esiste più.” Che fare? Sono imbarazzato. Dovrei forse impormi a una persona che così gentilmente mi dedica il suo tempo? Non ne trovo il coraggio. Cedo. Ma cedo malvolentieri, e il cuore mi dice che sbaglio. Intanto Janni, come per cambiare discorso, parla della lunga Piana di Navelli, che proprio adesso abbordiamo: “Qualche settimana fa, l’avrebbe vista tutta gialla. Qui si coltiva il più famoso zafferano d’Italia: zafferano dell’Aquila. Ma è lo zafferano della Piana di Navelli. La raccolta è difficile e delicata. Pensi che si deve fare con le dita. Si raccolgono i soli pistilli. Profumatissimi. Ma se lei torna tra marzo e aprile, la Piana invece è bianca. Vede tutti quegli alberi? A primavera sono in fiore: mandorli!” Dopo la Piana di Navelli, ecco la Piana di Ofena. Anche qui mandorli. E olivi. E vigne, che dalla Piana risalgono le colline intorno. Le vigne antiche, a alberello, alte non più di mezzo metro; le nuove, anche qui a tendone, come dappertutto in Italia dove è esploso il boom del vino. Arriviamo a Ofena. Ci fermiamo sulla piazza: una piazza triangolare. Sul lato maggiore, l’antico palazzo barocco e borbonico dei Baroni Madonna. Su ciascuno degli altri due, il frantoio dell’olio, e la cantina dove si pigiano le uve. Tutto appartiene a Don Luì, il Barone Luigi Cataldi dei Baroni Madonna, sindaco ed ex-podestà di Ofena. È un gentiluomo di campagna: anziano, alto, magro, nasuto, chic, con la giacca di tweed e i pantaloni di flanella grigia: perfetto, insomma. Qualcosa, nel suo tratto, mi ricorda irresistibilmente il mio maestro e amico Mario Camerini, che è dell’Aquila. Don Luì ci accoglie con squisita cortesia e, dopo una rapida visita al frantoio e alla cantina, ci invita in casa sua per una tazza di tè: penso che “una tazza di tè” sia un modo di dire, e che proveremo il vino. Non insisto per assaggiarlo in cantina, dove fa un freddo cane: siamo quasi in montagna, sopra ai 600 metri, e continua a piovere. Saliamo in casa, arredamento ottocentesco non rielaborato e ancora quasi completamente : voglio dire che i mobili sono materialmente gli stessi di cento e più anni fa, e ancora in funzione. C’è il cestino da lavoro, da cui si leva la Baronessa per venirci incontro. C’è la consolle di marmo stile Impero. Le sedie, i tavoli e le poltrone Luigi Filippo. Alle finestre, le cortine e i pesanti tendaggi verdescuri con le loro mantovane. Sul tavolo di mogano, dov’è già pronto il tè, sparsi fascicoli della . Niente termosifone. Una stufa a kerosene, che non basta. Fa freddo anche qui. Per fortuna viene acceso il caminetto, e gradiamo molto il tè. Quel po’ di calore mi dà forza: metto il discorso sul vino. Finora, tra Don Luì, Janni e me, del vino non si è fatto parola. Ma sono qui per questo, no? E il Barone, sempre prontissimo, risponde alle mie domande. vero Famiglia Cristiana Produce circa mille quintali di vino l’anno. Rosso Montepulciano d’Abruzzo, e Cerasuolo, che è poi lo stesso Montepulciano d’Abruzzo lasciato fermentare senza bucce. Gradi 12,5. Non solfita. Non refrigera. Lo tiene qui nelle botti per un anno. Poi lo manda all’Aquila, da Janni, il quale provvede all’imbottigliamento. Chiedo: “Come lo trasportate, all’Aquila?” “Con le autocisterne.” Mah. Le autocisterne non mi piacciono. Perché? Avevo pregato un amico dell’Aquila di mettermi in contatto con : così avevo conosciuto Janni. Dirò dunque, usando una volta tanto il linguaggio dei pubblicitari, ma usandolo in servizio della causa opposta, che le autocisterne “non corrispondono all’immagine del piccolo produttore artigianale appassionato”. Al Barone, tuttavia, nascondo questo mio disappunto e rivolgo semplicemente una larvata, esitante richiesta: non proprio sicuro di non contravvenire alle buone maniere, alludo, come senza darvi troppa importanza, a un eventuale mio desiderio di assaggiare il vino. un piccolo produttore artigianale appassionato “Stasera,” interviene pronto e deciso Janni, “stasera a cena all’Aquila. Ho già organizzato tutto. È un vino da pasto di grandissima classe, lo sentirà. Ma bisogna assaggiarlo a pasto. Perché... lo sa come chiamano Ofena? Il forno d’Abruzzo. Le montagne qui intorno fanno come una conca rivolta a mezzogiorno, che raccoglie tutto il calore del sole. Ecco perché il vino è così buono.” Rimandato l’assaggio mi rivolgo di nuovo al Barone: “Scusi, lei conosce, qui a Ofena, il dottor Piergiorgio Cinelli?” “È il farmacista. Ma non sta a Ofena. Sta a Chieti. Viene qui solo la mattina.” “E produce vino? Oppure si occupa in qualche modo di vino?” “Non ne so nulla, ma non mi pare... non direi...” Lascio cadere il discorso. Prendiamo infine congedo e uscendo da Ofena ci fermiamo alla piccola farmacia. Al banco c’è una ragazza. Conferma che il dottor Cinelli viene solo la mattina. Se nel pomeriggio qualcuno chiede una medicina che non esiste nella farmacia, lei telefona a Chieti, e la mattina dopo il dottor Cinelli la porta. Una prova difficile alla trattoria “Le Salette Aquilane” e la riscoperta – a Tellaro – del Montepulciano d’Abruzzo. Cena la sera tardi a Coppìto, paesello alla periferia dell’Aquila. Una celebrata trattoria : Le Salette Aquilane. caratteristica Sono schierate sul tavolo varie bottiglie di Montepulciano d’Abruzzo nelle due versioni: Rosso e Rosato, che qui chiamano Cerasuolo. Uno sguardo alle etichette mi basta per capire finalmente che Vittorio Janni, non è, come credevo, un piccolo produttore, ma soprattutto un distributore di importanza almeno media. Vedo scritto “Vittorio Janni”, vedo scritto “Ofena”, ma non vedo scritto “Cataldi”. “Allora” dico “non è il Barone che vinifica?!” “Sì, è lui. Ma vinifica solo per me. Tutta la sua produzione è mia.” E così, l’assaggio fu condizionato dalla presenza di Janni che ci ospitava a cena. Naturalmente, non potevo dirgli in faccia che trovavo cattivo il suo vino: e neanche tacere: e neanche non dirgli che, sì, lo trovavo buono. Ma c’era di peggio: siccome sono incapace di mentire nella stessa misura in cui mentire mi dispiace, misi tutta la mia buona volontà a trovarlo sinceramente buono. Mi chiedo adesso, a cinque mesi di distanza: com’era in realtà? Ricorro al mio taccuino. Sul Cerasuolo, nessun appunto: segno che non mi era parso un gran che. Sul Montepulciano d’Abruzzo: “Rubino medio, fresco, amarognolo, più serio di un Sangiovese”. Che cosa avrò voluto dire con “serio”? perché ho pensato come termine di paragone a un Sangiovese? è stato, forse, soltanto un tentativo di apprezzare il vino Cataldi-Janni, un tentativo che facevo con me stesso, sul mio taccuino? insomma, il vino Cataldi-Janni, com’era? Ormai, non so che dire. Non posso fidarmi neanche del mio taccuino. Senonché, abbastanza naturalmente, nel taccuino, proprio alla pagina intitolata , c’erano, inserite a guisa di segnalibro, due etichette identiche a quelle delle bottiglie che erano in tavola quella sera: una del Montepulciano d’Abruzzo, l’altra del Cerasuolo. Non ci avevo fatto caso. Adesso, guardandole come per ispirarmi, e come per aiutarmi a ricordarne il sapore, mi ricordo invece, improvvisamente, di avere in cantina delle bottiglie regalate da Janni... proprio in quel momento, per caso, entra mio figlio Giovanni: lo manda la mamma a avvertirmi di scendere tra dieci minuti, è pronta la colazione. Do a mio figlio le due etichette: ci devono essere in cantina delle bottiglie così: “Cercale, trovale, stappale e mettile in tavola.” Salette Aquilane Ebbene, i dubbi che avevo sulla mia sincerità erano giustificati da tutto il contegno di Janni: ma non dal vino stesso. In tre, mia moglie, mio figlio e io, troviamo il Cerasuolo passabile ma il Montepulciano d’Abruzzo addirittura squisito! Evidentemente, Janni non si era portato male, non era disonesto: era soltanto un produttore e un commerciante che faceva il proprio interesse. Mi resta soltanto da controllare la sua affermazione circa la scomparsa del Peligno a Pratola Peligna. Tra le mostruosità dell’architettura moderna, la gloria, la fortuna e la salvezza sono affidate alle poche casette che ancora restano. Ma pochi lo capiscono. Abbiamo appuntamento con Emidio Pepe all’Hotel Michelangelo di Teramo. Ma il traforo del Gran Sasso non è transitabile: i lavori, appena incominciati, pare siano interrotti. Dobbiamo fare l’antico Passo delle Capannelle e scendere verso l’Adriatico lungo la Valle del Vomàno. Formidabili pareti rosse di trachite, altissime, assolutamente verticali, simili a fortificazioni preistoriche. In una gola, ci fermiamo a una casetta, dove compriamo una grossa forma di pecorino ultrastagionato. Il modernissimo Hotel Michelangelo sorge su uno spalto squallido e nudo, ancora ingombro di calcinacci. Ha qualcosa addirittura del bunker. Dalle fortificazioni preistoriche siamo passati a fortificazioni fantascientifiche. Emidio Pepe ha la sua abitazione e la sua piccola azienda vinicola a Torano Nuovo, sessanta chilometri da qui: ma qui ci ha dato appuntamento perché anche lui, come molti che vivono in provincia, è fiero delle peggiori mostruosità che vi si perpetrano: “Deve vedere l’Hotel Michelangelo!” Ah, se sapessero che la loro gloria, la loro fortuna e la loro salvezza sono invece affidate a quelle poche vecchie casette che ancora restano! Emidio Pepe arriva all’Hotel Michelangelo con sua moglie Rosa. Sono vestiti unisex, sembrano due ragazzi. Rosa è professoressa a Teramo: nativa di Montorio al Vomàno, insegna Applicazioni Tecniche Femminili. Anche la casa e la cantina, a Torano, sono . Ma, stranamente, è solo un’apparenza. Emidio Pepe lavora il vino con un metodo rigorosamente tradizionale e famigliare: lo aiutano suo padre Giuseppe, e la moglie, le tre figlie ancora piccole, e qualche ragazza del paese. up to date Montepulciano d’Abruzzo, 13,5: e Trebbiano d’Abruzzo 12/12,5. Le vigne sono sue, e le coltiva direttamente: piantando i filari, allacciando, potando, ecc. ecc.: tutto lui e suo padre. Pigia e diraspa a mano: cioè schiacciando, premendo e fregando leggermente le uve su reti o setacci sovrapposti a una bigoncia di legno. Importa molto, dice, che la spremitura avvenga a mano: è un po’ più delicata che con i piedi, e infinitamente più delicata che con qualunque tipo di macchinario: “Vede? Pigiando con le mani, io escludo naturalmente, senza nessuno sforzo e nessun particolare dispositivo, tutta una quantità di sostanze troppo acri, come quelle racchiuse nei peduncoli, nei cirri, nei viticci, o quelle troppo tanniche come le bucce.” a mano! Dopo due anni di botte e almeno due travasi, imbottiglia “con un sifone a cannello di canna vegetale” e Pepe ripete con entusiasmo: “Vegetale, sa? vegetale!” Poi, accatasta le bottiglie. E le lascia così, in catasta, un altro anno. Poi, le stappa e le ritravasa, una per una, in altre bottiglie. Una lavorante non riesce a travasare più di cinquanta bottiglie al giorno: “Si tratta di un’operazione che bisogna fare adagio adagio badando a non scuotere le bottiglie e a eliminare ogni volta il fondo torbido, carico di impurità. Di modo che, di ogni dieci bottiglie, ne faccio otto, e ne perdo due. Infine, anche le etichette le appiccichiamo a mano. Dimenticavo: ogni bottiglia è numerata. Vendo a un prezzo che va da mille a duemila lire per bottiglia. Quello del 1970 a duemilacinquecento. Il vino è buono anche vecchio di dieci anni. Invece, nelle cooperative delle zone qui intorno, non lo si invecchia mai. Si vende a centosessanta lire al litro. Ma si solfita, si refrigera, si filtra, si pastorizza. Molto resta invenduto. Allora c’è l’obbligo della distillazione. Qui vicino, hanno creato apposta le distillerie. E quello è un vino che ” fa male. Assaggiamo. Trebbiano d’Abruzzo, del 1973. Giallo paglierino con riflessi verdolini. Limpidissimo, molto asciutto, liscio, profumato, amarognolo: retrogusto come di noccioli di pesca. Gradazione: 11,88. Acidità fissa 3,58. Volatile 0,41. Montepulciano d’Abruzzo, del 1970. Rubino scuro con riflessi mattone. Gradi 13,50. Acidità fissa così alta che quasi pela la lingua, dando un’illusoria impressione di frizzantino. Nella guida del Di Corato, non trovo nessun vino del Teramano: neppure questo, che mi pare di una qualità eccezionale. Avrò in seguito la conferma che il Trebbiano di Teramo è il migliore Bianco di tutti gli Abruzzi. Ma, già ne ho fatto cenno: vi insisto adesso a totale discolpa del Di Corato: un catalogo completo dei vini italiani è un’impresa assolutamente impossibile. . Un pendolare di lusso che ama fare (e bere) vino. Io sono razionalmente pessimista e istintivamente ottimista A Pescara. Due personaggi saranno, quasi alternandosi, le nostre guide nelle provincie di Pescara e di Chieti: Domenico Tenaglia e Carmine Festa. Domenico Tenaglia è di Orsogna. Alto, nerboruto, cordiale, vivace: va spesso a Roma, ma è attaccatissimo alla sua provincia (Chieti): si interessa di vino solo in quanto si tratta di . Carmine Festa, invece, è enotecnico, Maestro dell’Ordine degli Assaggiatori, consulente di innumerevoli Cantine Sociali e private. Piccolo, biondo, ridente; non soltanto vivace, ma vitale. Gli devo molto. In pochi giorni, siamo diventati amici. È stato Janni, telefonandogli dall’Aquila, a indirizzarmi a lui. E anche questo è un altro punto a favore di Janni. vino di qui Primo giorno. Non lontano da Pescara, ma in provincia di Chieti, comune di Miglianico. Una gradevolissima sorpresa: mia moglie e io ritroviamo un vecchio e carissimo amico col quale, da tempo, ci eravamo persi di vista. Giornalista, scrittore, regista di documentari, Gaetano Petrosemolo si è ritirato al Cerreto, nella “casa avita”, una bella villa del secolo scorso, in pianura, in mezzo alle vigne: e vive pendolare tra Roma e qui, ma più qui che a Roma, perché ormai si occupa quasi esclusivamente di fare il vino. Alto, biondo di un biondo un po’ brizzolato, gentile e mite, intelligente, sorridente e malinconico. Giubbotto di pelle sui pantaloni di flanella grigi, una versione aggiornata del gentilhomme campagnard. E moglie degna di lui: slanciata, cittadina, modernissima. Con Gaetano, passeggio mezz’oretta nella tenuta. All’aria tersa, al sole vivido del mattino, si allarga il cuore. Camminiamo adagio, immersi fino al petto nelle vigne. Le vigne si distendono senza interruzione per quarantacinque ettari in pianura, serrate, frastagliate, screziate di verde di giallo di rosso di viola: e sembrano raggiungere l’orizzonte, là dove s’innalza, visione bianca e azzurra, la Majella con tutta la sua neve! Ma la naturale lietezza dell’ora e del luogo, per uno strano contrasto, come se coincidesse con qualcosa che stiamo per perdere, ci suggerisce considerazioni tristissime e altrettanto naturali: parliamo dell’avvenire nostro, dei nostri figli, e di tutto il mondo oggi. A un certo momento confesso una mia personale perplessità: “Se parto soltanto dalle considerazioni oggettive che posso fare sulla realtà, insomma se ragiono, sono pessimista: anzi, atterrito dal futuro. Tuttavia, per istinto, irrazionalmente, sono ancora ottimista”. “Io no, non lo sono,” dice Gaetano, “né per istinto né per ragionamento.” “Perché sei più giovane di me. Io invece, perché sono almeno dieci o dodici anni più vecchio di te, arrivo a dubitare del mio razionale pessimismo: sì, le cose vanno male, guerre e guerriglie in molti paesi del mondo, e violenza, delitti, corruzione in tutti gli altri, e la minaccia atomica che dissennatamente cresce ogni anno... ma forse io vedo così nero anche perché sto invecchiando.” “Ti contraddici, Mario. Non hai detto, un momento prima, che di istinto sei ottimista?” “Appunto. Il mio istinto ottimista cerca di demolire il mio ragionamento pessimistico attribuendolo a una profonda, generica, inconsapevole preoccupazione senile.” Gaetano ride amaramente: “Magari fosse così” e leva gli occhi azzurri al cielo, dove, in quell’attimo, con un rombo che, per quell’attimo, avvertiamo appena, si srotola la sottile candida treccia di un jet. Lo seguiamo in silenzio, come cercandovi una risposta alla nostra inquietudine, finché si allontana, altissimo, sulla Majella con tutta la sua neve: affonda nell’azzurro: scompare. Raggiungiamo le nostre mogli e assaggiamo i vini della cantina Petrosemolo al Cerreto. Sono due. Il Montepulciano d’Abruzzo e il Cerasuolo. Tutti e due di prim’ordine. Se proprio devo preferirne uno, è il Cerasuolo. Dipende forse dal fatto che è mattina? e che sono digiuno? e che per il momento non mi va di accompagnare l’assaggio neanche con un pezzo di pane? Ma lo riprovo, oggi, a mesi di distanza. È un vino straordinario: leggero, appena frizzantino, appena abboccato, buono in qualsiasi occasione: fuori pasto e a pasto: come aperitivo e come digestivo: sugli hors-d’oeuvres, sulle minestre, col pesce, colla carne, con la frutta e con i dolci. Se una legge mi obbligasse ad acquistare un vino solo, candidato preferenziale sarebbe il Cerasuolo del Cerreto. Nella dimora della famiglia Masci, la ricetta per un vino cotto eccezionale. Un fanatico direttore di cantina cooperativa, Don Vincenzo Pizzica, fa rombare le sirene per sottolineare l’importanza del suo stabilimento. Saliamo in collina, al paese di Migliànico. Proprio in cima, accanto alla torre campanaria e alla vecchia chiesa completamente rifatta in pseudo stile romanico, è un castello del secolo XII. Anche questo, completamente restaurato, ma almeno con un certo garbo. Proprietà e dimora della famiglia Masci. Gli antichi sotterranei sono stati trasformati in una bellissima cantina. I Masci fanno il vino sotto la direzione enologica di Festa: e li troviamo tutti lì al completo per accoglierci. Nella sala di una torretta ottagonale troviamo pronte in bell’ordine bottiglie di varie annate, e le pizzette dette , graziose focaccine decorate a stampo, quali appena dolci e quali appena salate: l’ideale per un assaggio di vini. Festa è con noi, e ora illustra i vari tipi: néole Maestrale, un Trebbiano d’Abruzzo, sedato, tranquillo, 12 gradi; Cerasuolo, cioè Montepulciano d’Abruzzo vinificato senza bucce, gradi 13,5; Garbino, Montepulciano d’Abruzzo Rosso, gradi 13. E il : a differenza di altri da me provati prima, sia in Ascoli Piceno sia a Vasto, lo trovo gustosamente dolce ma non fumoso, e nemmeno succulento. Perfetto, in ogni caso, con il tipo dolce delle néole. cotto cotti Chiedo a Festa come si fa il vino cotto. Mi aspetto un procedimento simile a quello adottato nella cosiddetta , cominciando dalle uve utilizzate, che, in Ascoli, sono un’accozzaglia di qualità inferiori e provenienti da vitigni diversi, insomma il recupero di tutto quello che avanza quando si è finito di pigiare le uve per i vini migliori. Ma no, il che descrive Festa è tutt’altra cosa: Marca sporca cotto “Uve esclusivamente di Montepulciano d’Abruzzo. Si lasciano bollire in un calderone di rame finché si riducono a un terzo del volume iniziale. Supponendo che fossero tre quintali, sono ora un quintale: un quintale di un liquido senza alcool e ricchissimo di sostanza zuccherina, il . Si prende ora un tino della capacità di sette quintali: lo si riempie con il quintale di vino bollito e con sei quintali di fresco, sempre di Montepulciano d’Abruzzo. Si lascia fermentare il tutto per la durata di circa tre mesi. Ovviamente, raggiunge una gradazione alcoolica che sta tra i 17 e i 20. Questo che lei assaggia, ha poco più di 17 gradi e venti anni di età. Dopo i tre mesi di fermentazione, lo si conserva prima in botti piccole e poi in damigianette. Ma il , qui, non lo si fa tutti gli anni: soltanto in determinate occasioni tradizionali. Di solito, lo si fa nell’anno in cui è nato, oppure sta per nascere, un figlio o una figlia. Poi lo si lascia invecchiare, e lo si beve soltanto quando quel figlio o quella figlia si sposa. Una produzione casalinga, che si consuma tutta in famiglia. Infatti il vino cotto o, per l’esattezza, il commercio del vino cotto, è vietato dalla nostra legge.” concentrato mosto vino cotto “Vietato? Ma perché?” “Perché la legge contempla espressamente un’eccezione: il Marsala. La verità è questa: con la legge, si è soltanto voluto proteggere il Marsala.” Mentre usciamo dal castello, improvvisamente un enorme boato riempie l’aria: è vicinissimo, e continua, sembra non debba finire più. Chiedo che cosa diavolo stia succedendo. “La sirena dell’una, riprendono il lavoro.” Mi stupisco che esista, lassù, proprio in cima all’antico paese, uno stabilimento industriale. Spiegazione: “È il parroco, Don Vincenzo Pizzica, che ha voluto così. Dirige le Cantine Sociali con un entusiasmo da fanatico.” Mi si invita a fare qualche passo. Un delizioso vicolo medievale. Incanto delle antiche cittadine delle colline italiane. L’incanto, dice Henry James, “di certi angoli solitari dove cresce l’erba e che, nel passato, risuonavano di vita”. Ma a una svolta tra le vecchie case color del miele, adesso scorgiamo, lì in mezzo, un colossale cilindro di un biancore abbagliante: le Cantine Sociali. Quand’è che si farà un processo ai responsabili funzionari delle Sovraintendenze e dei Comuni? Salteranno mai fuori le bustarelle che hanno percepito? Se proprio si dovevano fare queste Cantine Sociali, non era più pratico e meno costoso costruirle in pianura? Su quest’ultima accusa, perfino Festa è d’accordo. Ma difende le Cantine Sociali, così provvidenziali, dice, per l’economia dei piccoli coltivatori. Non sto a ripetere il ragionamento di Festa: l’ho anticipato a proposito delle Cantine Sociali sarde. È un ragionamento che mi ha suggerito Festa, e di nuovo devo ammettere che fila. Per rinunciare alle Cantine Sociali in modo che i piccoli coltivatori abbiano gli stessi vantaggi, occorrerebbe una organizzazione lenta, meticolosa, capillare, è praticamente impossibile, almeno per ora. Non c’è dunque speranza di vedere un giorno demolite queste e tutte le altre assurde torri, i colossali candidi cilindri che profanano il nostro paesaggio. A 19 anni Maria Gabriella Mezzanotte proprietaria di 40 ettari di vigne. L’album dei ricordi del nonno, amico di d’Annunzio e ministro in un gabinetto Depretis. Alcuni chilometri a ponente da Migliànico, verso Chieti, sono le colline e i dolci avvallamenti, tutti un vigneto, di Ripa Teatina. Arriviamo a una villetta di stile napoletano, fine Settecento o primo Ottocento, grigia, lunga, bassa, signorile e affettuosa, delicatamente decadente. C’è intorno un grande silenzio. Un’aria di solitudine e di abbandono. Scalette di pietra, ringhiere di ferro battuto a gentile, leggero ornamento. Imposte verde pisello, vecchie, scrostate, e quasi tutte chiuse. Un portico a pilastri e volte: l’ingresso delle carrozze e dell’antica scuderia. Due donne ci attendono, avvertite, quasi evocate da quel diavolo di Festa. Madre e figlia, la vedova Mezzanotte e sua figlia, una ragazza di diciannove anni, Maria Gabriella, che per testamento del padre è la proprietaria. Quaranta ettari di vigneto. Carmine Festa, consigliere di tante cantine sociali, consiglia anche qui, ma limitandosi con grande buonsenso a modernizzare appena un pochino i metodi tradizionali e artigianali. Maria Gabriella, bellezza affascinante: bruna corvina, una massa di capelli lucenti che le incorniciano il volto roseo pallido, romantica, raffinata, con grandi e dolcissimi occhi marron. Tutto in lei è così delicato che non si riesce a guardarla senza tremare un po’. Suo nonno, Camillo Mezzanotte, era una persona importante: Senatore del Regno, Ministro dei Lavori Pubblici nel 1878-79 in uno dei gabinetti Depretis: ma, soprattutto, amico di Gabriele d’Annunzio. Siamo al piano terreno rialzato, in un’ampia sala ancora arredata coi mobili con cui era arredata all’inizio del secolo, e che erano, allora, caratteristici delle dimore signorili di villeggiatura campagnola: poltrone e sedie di vimini, mèseri alle pareti, divani e poltrone con le fodere bianche, vecchie specchiere con le cartoline illustrate, vecchie étagères, un tavolo e una consolle di marmo, il pianoforte a coda, scaffali a colonnine tortili con fascicoli di musica, carte, libri. Disordine, e su tutto come un velo invisibile, un che di consunto e sbiadito che non guasta, anzi completa l’incanto, paradossalmente lo vivifica con la presenza, attuale e magica, del passato. Da uno di quegli scaffali Maria Gabriella sfila un grande album in pelle verde e me lo mette sulle ginocchia. Lo sfogliamo insieme. Le meravigliose antiche fotografie, i nonni quando erano giovani, i nonni che lei non ha mai conosciuto ma dei quali, chiaramente, è fiera. Lettere e cartoline di d’Annunzio al senatore Mezzanotte: una cartolina del 1897, che ringrazia dell’ospitalità con cui è stato ricevuto proprio lì, nella villa di Ripa; una lettera del 26 ottobre 1900; un’altra lettera, da Chieti, del 3 luglio 1905. Maria Gabriella, però, non la direi dannunziana: più romantica, casomai gozzaniana. Ma studia architettura all’università e chissà, dentro, è modernissima: contiene naturalmente, frena graziosamente una tranquilla tensione con cui reagisce senza ribellarsi alla dolcezza sognante, fedele, ottocentesca, della sua stessa intima natura. La madre ora posa sul marmo un grande vassoio d’argento, carico di flûtes di Boemia intagliate e screziate. E un altro vassoio, di ceramica, con le néole. Ogni famiglia ha i suoi stampi. Questi sono più elaborati di quelli delle néole dei Masci. Il vino è Montepulciano d’Abruzzo 1974, 15 gradi. Senza dubbio il migliore Montepulciano d’Abruzzo che abbiamo assaporato nella zona. I due migliori vini serviti col miglior pesce dell’Adriatico. Quasi incredibile: un abruzzese che vinifica coi sistemi tedeschi. E senza dubbio, la sera, a Pescara, nel ristorante Guerino, troviamo il miglior pesce di tutto l’Adriatico. Una grande cena che Festa ha voluto organizzare per noi. Viticoltori, produttori, appassionati di vino. C’è Angelo Jasci, presidente del Consorzio Cooperative delle Cantine Sociali. Conosco finalmente Piergiorgio Cinelli, il farmacista di Ofena. È di Bazzano, provincia di Bologna. Ha sposato una ragazza di qui, vive a Chieti da sei anni, da quando ha la farmacia a Ofena. Mi dice che il Barone Cataldi, nelle sue cantine di Ofena, . Non posso supporre che Cinelli sia in malafede: a che scopo lo sarebbe? Ma, in tal caso, tutte le uve di Montepulciano d’Abruzzo Cataldi, che non sono destinate a diventare Cerasuolo, sarebbero trasportate con le cisterne all’Aquila, dove Janni le vinifica. vinifica soltanto il Cerasuolo Confesso che, lì per lì, questa rivelazione di Cinelli mi impressionò, di nuovo indisponendomi contro Janni. Soltanto adesso mi ricredo: dopo avere constatato che il Montepulciano d’Abruzzo di Janni è squisito. Voleva il destino, però, che la mia opinione su Janni fosse sottoposta a docce scozzesi. Mio vicino di mensa, quella sera, da Guerino, era il professor Santoro Colella: di sua produzione i due migliori vini serviti col pesce: Pinot Grigio d’Abruzzo e, soprattutto, Riesling Renano d’Abruzzo. Il professor Colella comincia a parlarmi in tedesco, nell’accarezzata speranza che io gli risponda. Volto glabro e roseo sotto una raggiera di capelli come neve, tratto gentile ma voce acuta e aggressiva. Laureato a Pisa in agraria nel 1923, ha poi studiato e soggiornato a Montpellier e più a lungo in Germania, a Geisenheim, e poi in Austria, a Klosternenburg. Fanatico della cultura tedesca. Poche cose rimpiango nella vita come l’impossibilità in cui mi sono trovato di continuare a studiare il tedesco pochi mesi dopo averne appreso i primi rudimenti. Avverto Colella, con sincera tristezza, che so solamente il francese e l’inglese. Deluso, lui continua parlandomi in italiano di vini tedeschi, dei vitigni tedeschi che lui importa e dei metodi di vinificazione tedeschi che lui adotta in Abruzzo. Gli chiedo: “In Abruzzo, dove?” “Ah, un paese, Pratola Peligna, provincia dell’Aquila. Le vigne sono tra 450 e 600 metri sul livello del mare: un’altitudine perfetta, alla nostra latitudine!” Pratola Peligna mi riporta a Janni e alla sua affermazione: “È vero quello che ho sentito? che a Pratola Peligna non si fa più il famoso Peligno, il miglior bianco d’Abruzzo?” “Come non se ne fa più?! venga da me, e gliene do quanto ne vuole!” Allora gli spiego come soltanto qualche giorno prima, andando in macchina dall’Aquila a Ofena, dopo la Piana di Navelli mi fosse venuta l’idea di fare una puntata fino a Pratola, per gustare il Peligno, e come e perché ne fossi stato dissuaso... Non gli dico però da chi. Perdonerò Janni soltanto se un giorno riuscirò a bere un bicchiere di Peligno. Ritorno da Maria Gabriella, prima truccata e poi, figura gozzaniana, col viso acqua e sapone. “Donna, mistero senza fine bello.” Ricordi del tempo di guerra, sotto la Majella. Un pranzo a Guardiagrele finito con le “zizze delle monache”, dolci squisiti della pasticceria Emo Lullo. Giorgio Lotti arriva in macchina da Milano. Come abbiamo fatto in Sardegna, torno con lui sui luoghi già visitati. Carmine Festa, la sera prima, ha telefonato per avvertire. Torniamo a Cerreto da Petrosemolo. Lotti è fortunato: per le fotografie, la luce e il cielo sono ancora più belli di ieri. E mentre Lotti lavora, non mi stanco di guardare il paesaggio con la Majella. Il verso di d’Annunzio mi ossessiona, me lo ripeto e me lo declamo senza tregua, come una giaculatoria: la Majella con tutta la sua neve! Poi, è la volta della Mezzanotte. Dai Masci non andiamo. Lasciamo fuori Migliànico, scendiamo nella piccola valle di Ripa Teatina. Ci fermiamo a una svolta inghiaiata: Lotti ha visto un furgoncino fermo. Vi sale sopra, sul tetto, per fotografare le vigne dall’alto, in campolungo. C’è una macchina che viene su velocissima. Alla svolta, sulla ghiaia, di colpo sterza fragorosamente, frena, si ferma. È Maria Gabriella. Non vedendoci arrivare, ci veniva incontro. Ha cambiato vestito da ieri. È in pantaloni e giacchetta di velluto nero, con una camicetta azzurra, elegantissima. Anche tutta truccata, mentre ieri non lo era. Ma truccata benissimo: sopracciglia rifatte, ombre blu sulle palpebre, labbra cremisi. Le dico, ridendo, che era più bella ieri. Ma non è vero: ho mentito d’istinto, e scherzando, quasi per gelosa fedeltà all’immagine gozzaniana che ho di lei. Non è vero soprattutto per le fotografie che dobbiamo fare: e in vista delle quali, appunto, lei si è truccata. Senonché, un quarto d’ora dopo, quando arriviamo alla villa. Maria Gabriella si è rimessa l’abituccio modesto del giorno prima, e si è lavata il viso. È il caso di citare proprio Gozzano: donna, mistero senza fine bello. Andiamo a Guardiagrele. La strada, per chi come noi viene da nord, punta direttamente verso la Majelletta: su un’inferiore propaggine della quale, a 600 metri di altitudine, si allunga l’antichissima città di Guardiagrele. Oltre, e più in alto, è la vetta del Monte Amaro, e poi, ancora, la Majella con tutta la sua neve! che però nuvole scure e spesse, risalendo i valloni, cominciano a coprire: come sempre accade in montagna di questa stagione autunnale, anche se fa bello, dopo l’ora del mezzogiorno. Cosicché, la Majella con tutta la sua neve! scintillante al sole e le precoci ombre che scendono sulla città medievale, nordica, rupestre, cinta da spalti guerreschi, concordano con l’idea che, vedendo Guardiagrele per la prima volta soltanto adesso, me ne ero fatto fino dal 1943, dai racconti di Leo Longanesi e Stefano Vanzina. Fuggiaschi da Roma anche loro, avevano raggiunto finalmente a Torella dei Lombardi, in provincia di Avellino, Dino de Laurentiis e me, che li avevamo preceduti verso il lentissimo, cauto avanzare delle linee alleate. Allora, con la gioia di ritrovarci sani e salvi, protetti da quella terra di nessuno, tra i tedeschi in ritirata ormai lontani e la Quinta Armata non ancora in arrivo, passammo i primi giorni a raccontarci vicendevolmente e minutamente della nostra fuga per due diverse strade. Appunto a Guardiagrele, Longanesi e Steno erano rimasti, seminascosti, per un paio di settimane. Montagna, faceva freddo. Loro erano fuggiti da Roma, come tanti altri, vestiti d’estate, sulle spalle un sacco con un po’ di biancheria. Ma Guardiagrele era, da tempo immemorabile, la città non soltanto dei fonditori di campane, dei battitori del ferro, degli orefici: era anche la città dei sarti. I nostri amici, accolti fraternamente dalla popolazione, con pochissima spesa ebbero splendidi abiti di lana fatti su misura. Longanesi per tutto l’inverno a Napoli indossò il . cappotto di Guardiagrele Esistono, nella vita di ognuno di noi, strane, magiche armonie. Ma esistono altresì innegabili realtà oggettive. Anche noi, dopo esserci fermati a fotografare vigne e cantine col tempo che si guastava e la tramontana che cominciava a soffiare, entriamo in Guardiagrele stanchi, affamati, rabbrividendo dal freddo. E anche noi troviamo qui un’ospitalità generosa e umanissima, il caminetto acceso, un pranzo indimenticabile, vini senza difetto. Si direbbero dunque i cittadini di Guardiagrele per tradizione tanto più civili quanto più aspro e solitario il luogo, estremo insediamento urbano di qualche importanza che si spinge sotto la Majella: la Majelletta è a poco più di due chilometri in linea d’aria. Non però un vecchio sarto il nostro benefattore: ma un giovane studente, Nicola Santoleri. Ventisei anni. Sta per laurearsi a Roma in architettura, e intanto si occupa personalmente dell’azienda enologica famigliare. Santoleri. Tenuta e cantina di Crognaleto. Coltivazione, produzione e imbottigliamento. Quattro vini: Montepulciano d’Abruzzo a 15 gradi; Cerasuolo a 14; Trebbiano d’Abruzzo a 14; e una Malvasia secchissima, a 14. Quantitativamente, la produzione si può definire minima: duecento quintali. Travasa tre volte entro un anno dalla pigiatura. Imbottiglia dopo un anno e mezzo. Vini, cosa rara da queste parti, abbastanza equilibrati: profumo e sapore abbastanza vivi in rapporto alla gradazione. Alla fine del pranzo un commensale, compaesano e amico di Santoleri, studente anche lui, Francesco Lullo, offre i dolci della pasticceria paterna, la ditta Emo Lullo. Tutti squisiti, ma specialmente una curiosa e squisita specialità locale. Le chiamano “le zizze delle monache”. Forse un tradizionale scherzo alludeva così a un mistero inviolabile. Sono bignole di pan di Spagna farcite di crema pasticcera. E la loro forma è appunto di zizze, coi capezzoli in punta, erti: e riunite, e riunite non a due, come sarebbe stato normale, ma addirittura a tre. Il buon vino Montepulciano d’Abruzzo è un’invenzione recente. Raffaele Mattioli aveva nostalgia del vino cotto. Entra adesso in scena Domenico Tenaglia, che mai per la verità ci aveva abbandonato anche se cedeva tecnicamente il passo all’enologo, a Festa. Tenaglia è compaesano e amico di Nino Magno, un avvocato romano nostro vecchio amico. Tutti e due sono di Orsogna, centro meno popoloso e meno antico di Guardiagrele, a mezza strada tra Guardiagrele e Lanciano. Vi arriviamo ormai a notte, e, con grande dolore di Tenaglia, possiamo vedere poco. Orsogna, dice il Touring, è “un grosso paese dall’aspetto di cittadina, quasi interamente costruito dopo l’ultima guerra”. Andiamo a casa di Tenaglia, il quale ha radunato, per accoglierci, alcuni amici. Beviamo Malvasia secca, 13,7 gradi, del 1972; la vinifica Vinicio Saraceni, che è lì con noi. Ha gusto delicato quasi di leggero Sherry: va bene come aperitivo o sul pesce. “Lo faccio bene,” dice Saraceni, “principalmente perché lo bevo io. Lo faccio quaranta giorni dopo ogni svinatura. E poi, prima di berlo, lo travaso sette volte.” E allora Tenaglia approfitta dell’occasione per rivelarci una di quelle verità storiche solitamente trascurate da coloro che si trovano in piena mêlée enologica: “Perché,” dice, “il Montepulciano d’Abruzzo che oggi tiene banco è un’ di dopo la guerra. E prima? Prima si pigiava , un misto di tutte le uve: fra cui, naturalmente, anche il Montepulciano d’Abruzzo. E prima si faceva il vino cotto, il solo che durava qualche anno.” invenzione recente quello che c’era nelle vigne Ricordo, infatti, che Raffaele Mattioli, che era di Vasto, l’ultima città a sud in provincia di Chieti, e che parlava sempre molto volentieri del suo paese, nominava, come vino abruzzese, soltanto il cotto. “A quei tempi,” continua Tenaglia, “la grande usanza del luogo era il maiale: tutti lo allevavano e tutti lo ammazzavano solennemente: un vero e proprio rito. Adesso...” conclude sospirando, “... adesso c’è il vino.” Interviene Gastone Tenaglia, cugino di Domenico, e descrive a lungo le . Budelle di maiale, ripiene di peperoncino, aglio e varie erbe. Poi affumicate. Diventano dure e si conservano a lungo così. Le si mangia tagliandole a fette, crude. Oppure cotte, coi fagioli. Brindiamo un’altra volta con la Malvasia a Nino Magno, assente e presente. buie Infine, con il viatico di un bel pacchetto di buie ce ne andiamo a Lanciano, ultima tappa della nostra scorribanda abruzzese. Il nome del Generale Montgomery sui bottiglioni della tenuta D’Ortona: un vino migliore del Porto. A Lanciano ci attende Giuseppe D’Ortona. Ha le vigne a Santa Maria Imbaro, verso il mare, sulla strada per Vasto. Suo padre, e i suoi nonni, hanno sempre fatto il vino. Bisogna sapere che nell’ottobre del 1943 il Generale Montgomery aveva il quartiere dell’Ottava Armata a Rocca San Giovanni, vicinissimo all’attuale casello autostradale di Lanciano. Pare che si sia talmente appassionato per questo vino dei D’Ortona da esigerne a ogni pasto, ed è per questo che Giuseppe D’Ortona ha inoltrato a Londra pratica regolare perché gli venga concesso di metterlo in commercio col nome Montgomery sull’etichetta. Lo proviamo. Sono bottiglioni da due litri, con un’etichetta rustica, di carta da pacchi marrone e su scritto Montgomery col pennarello nero. Anno 1974, gradazione 16 gradi, forse più. Uve, soltanto Montepulciano d’Abruzzo. Nessuna solfitazione. Rosso scurissimo, denso, carico, di grande corpo. Profumato, saporoso, fortissimo. Capisco che a Montgomery sia piaciuto tanto, e sono sicuro che lo preferiva alla fine del pasto e anche oltre, nelle prime ore notturne, a piccoli sorsi: come gli inglesi bevono il Porto, insomma. Assomiglia infatti tremendamente al Porto. Si verifica di nuovo, stranamente, lo stesso fenomeno delle Vernacce sarde: se quelle, in sostanza, erano degli , il Montgomery è un . Dirò un’enormità: secondo me, è molto meglio di qualunque Porto, senza escludere i più celebrati e costosi. Oltre tutto, viene meno a noia, se ne può bere di più. Unico difetto: ubriaca così tranquillamente e lentamente, che uno se ne accorge soltanto dopo, quando si alza da tavola. Non sembra tuttavia che il Generale, anche abbandonandosi, abbia poi avuto a pentirsi. Sherries naturali Porto naturale A Termoli il vino finisce, ma quanti nomi per il Montonico! A colazione con Enrico De Capoa meditando sull’economia artificiale del Molise. Tremila zingari senza destino. Parliamo ancora del Montgomery il giorno dopo con Carmine Festa che mi accompagna nel Molise. Mia moglie è partita ieri per Roma, tornerà a prendermi nel pomeriggio a Campobasso. Dico a Festa che non c’è nessuna ragione di non accettare nomi nuovi per i vini e per i vitigni. Proprio perché i nomi tradizionali, attraverso i secoli della storia enologica italiana, sono innumerevoli, non possiamo rifiutarne altri, sempre altri. È vero che, così, complichiamo i consumi e gli studi: ma dobbiamo, in un certo senso, gioirne, come di una prova della vitalità del vino. Festa, mentre guida, mi passa una sua recente pubblicazione sul vitigno Montonico Bianco. Si tratta, senza dubbio, delle stesse uve da cui a Bianco di Calabria il presidente Jelasi ricava il suo spiritoso Montonico o Mantonico di colore carico, un po’ rossastro, quasi manto di monaco, e di gradazione decisamente alta. Ma il terreno, il terreno! Qui in Abruzzo, sulle alte colline di Cermignano e di Bisesti, così vicine ai contrafforti settentrionali del Gran Sasso, il vino prodotto col Montonico è ben diverso. Ha colore paglierino con tenui riflessi verdolini; odore pungente; sapore morbido, fresco, vivace per la presenza di anidride carbonica; e, infine, alcool soltanto sugli 11 gradi! Ecco, ora, la stupefacente lista dei sinonimi del vitigno Montonico: Bottato, Caprone, Ciapparone, Montonico Gentile, Montonico Bottato, Racciapollona, Racciopollone, Racciapolluta, Trebbiano Marchigiano, Trebbiano Montanaro, Uva di Poggio delle Rose, Uva Regno! Sono poi andato a consultare il quinto volume di Italo Cosmo, dove sono elencati migliaia di sinonimi per duecentoventuno vitigni d’Italia: e ho trovato per il Montonico solo cinque sinonimi. Credevo il Cosmo completo o quasi completo. Mi trovo costretto a sospettare che un completo elenco, se mai fosse possibile redigerlo, sarebbe almeno due volte più lungo di quello di Cosmo. “La sola zona di tutto il Molise dove la viticoltura abbia qualche importanza è questa che stiamo attraversando, la zona di Termoli, l’ultimo tratto della valle del Biferno verso il mare” così dice Festa e crolla il capo. “Non so perché lei si è ostinato a andare a Campobasso. Poteva farne a meno. A Termoli finisce il vino.” Gli spiego che già nei miei primi due viaggi di non ho mai preteso di essere sistematico ed esauriente. Ho viaggiato dappertutto seguendo le indicazioni di qualche amico, e più sovente l’ispirazione del momento: la suggestione di un nome, di un paesaggio, o il suggerimento di una persona simpatica che incontravo per caso. Ma ho voluto, almeno, mettere piede fisicamente in ciascuna delle venti regioni: sia pure per poche ore. Sarà così per il Molise. Ci inoltriamo infatti nella valle del Biferno e dopo una trentina di chilometri le vigne spariscono, per non riapparire più. Vino al vino Festa mi lascia a Campobasso, davanti all’Hotel Roxy, dove trovo ad attendermi l’ingegner Enrico De Capoa, compaesano e compagno di un mio amico, l’ingegner Nicola Mascione. De Capoa mi toglie gli ultimi dubbi: c’è poco di interessante, qui, in fatto di vino: il terreno non è favorevole: arenarie e argille ripide che offrono poca presa. Le vecchie vigne sono a alberello: qui dicono “a ceppo isolato”. Si coltivava una volta l’uva Tintilia. Raspo grosso, nodoso, con acini piccoli, vinaccioli grossi, grappoli piccoli e spargoli. De Capoa mi invita a colazione e soddisfa la mia curiosità procurandomi un fiasco di Tintilia che lui per primo disprezza. È un vino da poco: almeno questo che beviamo. Ho poi provato a rintracciare il vitigno. Secondo il Cosmo, Tintilia è sinonimo di Bovale e di Cagnulari, uve ambedue coltivate in Sardegna. Il Di Corato parla di un’altra Tintilia che si pigia con uve Tintore: secondo il Cosmo Tintore è sinonimo di Aglianico. Potrebbe forse trattarsi di Aglianico, ma il Tintilia che assaggio qui a Campobasso non sembra avere coll’Aglianico nessun rapporto. Con ciò non si esclude che ce l’abbia, naturalmente: ancora una volta debbo ricordarmi che è soprattutto il terreno che fa il vino. Il vitigno non si può mai riconoscere dal vino, ma soltanto dall’esame ampelografico. De Capoa accenna ad altri vini molisani. Sono tutti prodotti lontano da Campobasso: il rosso di Riccia verso Benevento: il Trebbiano della valle del Trigno, tra Termoli e Vasto; il Rosso semisecco di Monterotuni, delle Cantine Pignatelli, tra Isernia e Venafro; e infine il vino cotto di San Martino in Pensilis, ancora verso Termoli, sulle colline del Cigno, un affluente destro del Biferno. La Cantina Sociale di Campobasso è dunque un’operazione sbagliata, come tante altre: fatta non per produrre qualcosa che rende, ma solo per ricevere denaro dallo Stato. Non diversamente si spiegano i colossali svincoli della superstrada fra Termoli e Campobasso, che ho visto questa mattina: deserti di traffico, inutili, insulsi, delittuosi. Ho domandato a Festa a che cosa servissero: e Festa si è messo a ridere: “A niente, servono, hanno arricchito gli impresari e hanno dato per qualche anno un po’ di lavoro ai manovali.” Nel Molise c’è poca agricoltura. Il grosso dell’alimentazione è importato. E la sola industria importante è l’edilizia: ma vi lavorano, per un 65%, soltanto impiegati. Gli abitanti del Molise sono 210.000, e, di questi, 120.000 stanno a Campobasso. Si è aumentato il reddito pro capite, ma esclusivamente a spese dello Stato. Si è dato lavoro a degli impiegati. Prima erano contadini, almeno producevano qualche cosa. Facciamo un giro sconsolato per la città. Curiosamente, in un quartiere periferico semidiroccato e abbandonato dalla popolazione locale, si sono installati, da qualche anno, circa tremila zingari. Vivono di espedienti, di piccoli commerci. Li vediamo seduti neghittosi nei loro colorati abiti di sempre, davanti alle grige casette di pietra riattate alla meglio con un po’ di cemento. Dove sono i loro carrozzoni e macchinoni? È l’ora per De Capoa di tornare al suo ufficio di ingegnere capo all’Azienda del Gas. Mentre mi riaccompagna all’albergo, parliamo ancora degli zingari. Riprenderanno un giorno a vagabondare oppure finiranno per integrarsi nelle normali comunità cittadine? E come mai si sono fermati proprio qui a Campobasso dove oggi esistono, meno che ovunque altrove, margini di ricchezza? Ma, prima di tutto, pare che Campobasso, dal principio del secolo, sia un luogo tradizionalmente scelto dagli zingari come stanza stagionale in quei periodi di passaggio o di residenza che sono segreti per noi e forse misteriosi a loro stessi. E poi, a parte le loro scorribande nelle grandi metropoli, che si ripetono anche quelle secondo un calendario imprevedibile, è un fatto che dovunque in Europa, e per esempio nella stessa Val Padana, le carovane degli zingari occupano sempre le periferie più squallide e le località più misere. Riflettendo su questo fenomeno, ci diciamo che, evidentemente, non si tratta di una loro scelta. Si fermano soltanto e appunto dove le autorità li lasciano fermare. I proprietari dei quartieri ricchi hanno abbastanza influenza sulle autorità per negare l’accesso ai miserabili nomadi. Accade così che la possibilità di esercitare qualche spirito umanitario di fratellanza venga offerta in maggiore misura proprio ai poveri: ossia a coloro che, meno possedendone i mezzi, meno ne avrebbero il dovere. Arriviamo a questa conclusione con De Capoa dopo una tazza di caffè nel bar del Roxy. Ci salutiamo con quella naturale e discreta commozione che si prova quando, nel viaggio della vita, si fa insieme un tratto di strada breve, anche brevissimo come questo, ma sufficiente a capire che si potrebbe diventare amici. Se lo Stato italiano, malgrado tutto, non affonda, lo si deve a un certo numero di persone come l’ingegner De Capoa, sparse qua e là un po’ dovunque nelle nostre provincie. Un italo-americano maestro di fisarmonica, ossessionato dalle tasse, ma felice. Bacco si è fermato a Termoli. Accompagno l’ingegnere capo alla macchina e, appena rientro nell’atrio deserto dell’albergo, odo una voce acuta e aggressiva, inequivocabilmente americana: “ ” Have you been in Hollywood? È un signore anziano, seduto in un angolo non lontano dal bar. Ha indosso il cappotto e la lobbia in testa. Sorride, e guarda verso la mia direzione. Mi volto, ma dietro di me non vedo nessuno. Forse, parlando con De Capoa, avrò usato qualche espressione inglese: o, più probabilmente, il barista che ci ha fatto il caffè gli avrà detto che ero . un regista “ ” Yes, I have been in Hollywood. Mi dice tutto, subito, di sé. Si chiama Dominick Spirito. Lui pronuncia: . Ma è nato qui, a Campobasso. Gli chiedo, come si usa tra americani, quale sia il suo business. “ ,” dice, “ .” La musica, ma sono in pensione adesso. “Ero maestro di fisarmonica. Avevo a Cleveland, Ohio, una scuola di fisarmonica. Sono vedovo da tempo. Non ho figli maschi. Solo una figlia. Lei ha sposato il migliore dei miei allievi e adesso sono loro due che mandano avanti la scuola a Cleveland. Quando sono andato in pensione, cinque anni fa, mi sono trasferito a San Diego, California. Da allora, ogni estate, ho fatto un viaggio di qualche mese in Italia. Ma ora, da un anno, sono tornato qui , per sempre. Ho qui una sorella con cinque figli maschi.” Spérido, from San Diego, California Music business but I’m retired now The Spirito Accordeon School. for good “Ah, e vive in casa da sua sorella?” “ ”: vivo qui, in questo albergo, ma sono terribilmente preoccupato. Cosa strana, quasi allucinante: dicendo di essere terribilmente preoccupato ride allegrissimo. Ridendo a mia volta, gli domando per che cosa sia preoccupato. No, I live here, in this Motel. But I am terribly worried Dice che non sa come fare per le tasse. Qui non le paga, perché è cittadino americano. Dovrebbe pagarle negli States, ma non sa come pagarle. E poi non è nemmeno sicuro se deve o non deve pagarle. Non vorrebbe pagarle se ne può fare a meno. Tutti i suoi risparmi sono investiti in una banca che non si trova negli Stati Uniti e neanche in Italia. D’altra parte, teme, se non paga le tasse, di perdere la cittadinanza americana. Gli chiedo se ha portato con sé una fisarmonica. No, dice, sarebbe inutile: non suona più, e per poter suonare bisogna mantenersi in continuo esercizio. Lo osservo con attenzione: sano, vegeto, allegro, avrà la mia età ma ha l’aria molto più giovane di me. Ecco perché ride. Solo, libero, vive in albergo, non ha responsabilità, non ha noie. E questa preoccupazione per le tasse forse è soltanto il pretesto per chiacchierare con qualcuno, specialmente in inglese, la lingua in cui ormai pensa. Niente altro. Del resto, mi sembra un uomo felice. Glielo dico francamente. Ma lui continua a ridere e a lamentarsi. Per le tasse, è andato a Roma apposta: al Consolato Generale degli Stati Uniti. “Ho fatto presente il mio caso: devo sì o no, pagare le tasse? Mi hanno mandato da un ufficio all’altro. Nessuno ha saputo dirmi niente.” Che cosa vuole di più? “ ,” gli ripeto “siete un uomo felice, chi non vorrebbe essere al vostro posto?” Come se non mi udisse, tira fuori un foglio dattilografato e me lo mostra: è la copia di una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno spedita solo un mese fa all’ Consulate in Roma, e rimasta, come le altre precedenti, senza risposta. You are a happy man US Gli spiego che alcuni americani miei amici vengono, di tanto in tanto, a passare un anno in Italia appunto per non pagare le tasse. La cosa non lo convince. Per tranquillizzarlo, gli propongo di lasciarmi una fotocopia: “La mostrerò a uno di questi amici e vi scriverò che cosa ne pensano.” Usciamo. Piove. A braccetto, sotto il mio ombrello, andiamo a fare la fotocopia. Ma è troppo presto nel pomeriggio, troviamo la botteguccia ancora chiusa. Torniamo verso l’albergo. Vedo di lontano la macchina con mia moglie che attende: è arrivata all’ora stabilita. mi dà la lettera: “Tenete questa. Me la rimanderete.” Spérido È poi andata così. Il mio amico americano ha consultato il suo avvocato, e, contrariamente alle mie supposizioni, ha scritto a che deve pagare. Gli ha anche spiegato in che modo pagare. Mi accorgo solo adesso che avrei dovuto domandare a se in America beveva vino e se ne beve da quando è qui. Come mai non mi è venuto in mente? Si vede proprio che qui non tira aria: Bacco si è fermato a Termoli. Spérido Spérido