Nelle provincie di FROSINONE, ROMA, TERNI, PERUGIA Un racconto vero, autobiografico, sincero. Il transfert di una nostalgia addolcita dal vino dei Castelli. Di quanti, ahimè, e di quali vini non ho parlato anche se li conoscevo benissimo! anche se erano grandi vini della stessa regione che in quel momento perlustravo! anche se mi rendevo conto che, così, i miei tre viaggi attraverso le regioni italiane parevano incompleti e questo resoconto presentava qualche grave falla! tutte Valga un solo esempio, il massimo: nel primo viaggio, tra i vini della provincia di Novara, manca il Ghemme e manca addirittura il Gattinara. Il motivo è semplice: del Gattinara e del Ghemme avevo già parlato a lungo, in varie occasioni, e mi annoiava ripetermi. Sono tuttavia obbligato a ripetere ciò che ho detto più volte: non pretendo di essere esauriente né sistematico, ma soltanto sincero. Il vino sincero ha bisogno di sincerità. Forse ho sbagliato a dire resoconto: questo è un racconto, un racconto vero e autobiografico. Adesso, risalendo la penisola, toccherebbe al Lazio. Circostanze personali, che non merita la pena di riferire, mi obbligarono a passare quasi subito in Umbria. Dirò, dunque, poco o nulla dei vini del Lazio: ma sia chiaro che questo vuoto, certamente gravissimo, non implica in nessun modo un giudizio negativo, e neppure una mia antipatia. Ho vissuto trentacinque anni a Roma bevendo quasi sempre soltanto quel che piaceva a Cesare Pavese più del suo Dolcetto e del suo Barolo. E piaceva anche a me, moltissimo, il vino dei Castelli, soprattutto il Marino: fa parte integrale dei soli ricordi belli che ho della mia lunga vita romana. Chissà che le circostanze avverse a fermarmi questa volta nel Lazio non fossero, in fondo, il transfert di una nostalgia che avrei preferito non provare perché combattuta e vinta da troppa amarezza, perché immersa in troppo disgusto? vino giallo Anagni. Alla ricerca di una storica trattoria, 25 anni dopo la regia di un film. Un pasto da amatore dall’inizio alla fine. Luigi Colacicchi: ovvero da Mozart al Petit Sirah e al Sauvignon. Avevo, però, ricordi meravigliosi di Anagni. C’ero stato ripetutamente, e una volta mi ero fermato più di un mese, per girare gli esterni di un film. Ecco perché, da Campobasso raggiunta Napoli a notte, e ripartito la mattina dopo per Roma, quando sul lungo ciglio dell’ultima collina della Ciociaria vidi Anagni alta nel sole di mezzogiorno, dissi a mia moglie di uscire dall’autostrada: avremmo fatto colazione lassù, in una vecchia trattoria sublime dove tanti anni fa si beveva un vino indimenticabile: un Cesanese del Piglio: dolce, pastoso, corposo, spesso, rosso cupo quasi nero, e di un gusto che soddisfaceva completamente malgrado la sua stranezza. Ma ne avevo dimenticato il nome: Trattoria dell’Aquila? Trattoria del Falco? Ricordavo solo che era a destra, nella stretta, buia, serpeggiante via principale. Un antico palazzo, forse medievale: enormi mura, grandi sale, soffitti a cassettoni anneriti. La facciata dava sulla via; e il retro, come lo sperone tufaceo su cui era costruito, si protendeva verso il sole, nell’aperta vallata del Sacco. Ricordavo che dal portone massiccio dell’ingresso si vedeva, a cannocchiale, in fondo al grande buio delle successive stanze, una piccola finestra quadrata, dorata e sfavillante dì sole. Ah, la gioia di arrivarci verso l’una, di giugno, sudati, assetati, affamati, affranti dopo che dall’alba avevamo lavorato nei campi, nelle vigne e sulle strade polverose, combattendo una vera battaglia con le macchine da presa, i cavalli, gli attori, i cascatori, le comparse, per ricostruire una battaglia finta tra i soldati napoleonici del generale Hugo e le truppe di Fra’ Diavolo! La gioia di attraversare quel fresco e quel buio verso le tavole di salvezza che ci attendevano nella penombra dell’ultima sala splendendo col candore delle tovaglie appena sfiorate, alle cocche, dai raggi del sole ancora altissimo! Naturalmente, trovai cambiata anche Anagni. Una nuova città – i soliti condominii e le solite villette – era stata costruita tutt’intorno alla vecchia sui due versanti della collina, specialmente dalla parte di mezzogiorno. Ma, per fortuna, all’interno, tutto lunghesso il ciglio, la vecchia Anagni sembrava intatta. Infilammo la stretta e buia via principale. Pregai mia moglie di guidare adagissimo. Spiavo sulla destra, sicuro di riconoscere la straordinaria trattoria dall’insegna o anche soltanto, se insegna e trattoria non esistevano più, dall’archivolto e dagli stipiti, a grossi bugnati, del portone d’ingresso. Invano. D’altra parte, i vecchi palazzi dalle mura scure e consunte erano tutti lì, stretti, addossati, ininterrotti: neanche uno era stato demolito e sostituito con un nuovo edificio: neanche uno era stato restaurato o ridipinto. La trattoria sembrava che fosse sparita! “Forse non ti ricordi bene” disse mia moglie. Ma se non fossi riuscito a trovare traccia dell’antica osteria, avrei pensato, piuttosto, a un’allucinazione retrospettiva. Arrivammo sulla piazza Cavour, che si affaccia alla vallata con un ampio terrazzo. Era, adesso, un parcheggio ingombro di un centinaio di macchine: a stento troviamo un posto per la nostra. Mi avvicino a un vecchio e comincio, esitando, a descrivergli la trattoria: mi interrompe, senza lasciarmi finire: mi ha riconosciuto, si ricorda benissimo di me: mi indica la via principale, che continua dopo la piazza, oltre il turrito, fosco Palazzo del Comune: pochi passi più in là, sulla destra, troverei non l’Aquila, non il Falco, ma “Il Gallo”! Anche al Gallo, la Dio mercé, tutto è identico a una volta. E anche lì la padrona, che allora era una ragazzina e adesso è una donna, una bella bionda, mi riconosce. Sono venticinque anni che non mi vede: eppure mi accoglie come se mi stesse aspettando da un momento all’altro. La osservo, cerco di ricordarmela, sì, mi sembra e non mi sembra... ma no, evidentemente si trattava di sua madre. Ed ecco, infatti, la madre, anziana e solida, che, a se stessa di venticinque anni fa, non assomiglia quanto le assomiglia, ora, sua figlia quarantenne, alta, forte, allegra. Vedendo che continuo a scrutarla, mi dice a bruciapelo: “Lei guarda i miei capelli e si stupisce, no? Embe’, me li so’ fatti biondi!” Chissà perché, forse perché non riesco proprio a ricordarmela, penso che quando aveva quindici anni fosse meno bella di adesso. Certo era meno curata, meno signorile, meno chic. E alta, ho detto: e osservando, al di sopra della sua capigliatura bionda, il vecchio soffitto a cassettoni, mi accorgo di un altro particolare che assolutamente non ricordo: i travi sono gli stessi, massicci e anneriti, ma il fondo di ogni scomparto è celeste vivo, con decorazioni di bellissimi fiorellini multicolori. “Ma quei fiorellini una volta non c’erano!” dico alla madre. “C’erano, c’erano: solo che erano sporchi e nun se vedevano: li abbiamo fatti ritoccare.” Mi guardo intorno e capisco che dappertutto si è proceduto alla stessa operazione giudiziosa, un modello che l’intera Italia dovrebbe imitare: non solo conservare il conservabile ritoccandolo con estrema cautela, ma migliorarlo in modo così scrupoloso che le innovazioni si accordino sempre all’antico. E così è, al Gallo di Anagni, anche per il vino e per il cibo. I Cesanese del Piglio? C’è sempre, naturalmente: ma quello dolce, lo servono alla fine, come va, per il dessert. Durante il pasto, assaggiamo un Cesanese del Piglio ben secco, con un fondo amarognolo, e servito, come va, fresco di cantina. E assaggiamo, prima e in maggior copia, un Bianco di Anagni che allora, almeno qui al Gallo, non davano, e che è semplicemente perfetto: leggero, in equilibrio tra l’asciutto e l’abboccato: gradazione alcoolica 12. Vitigni: Trebbiano e Malvasia di Candia, come quasi tutti i bianchi del Lazio: più qualche percentuale di Agostinella, Romanesco, Bello Velletrano. Quanto al pasto, mi annoto il principio e la fine. Il delizioso , una focaccia calda e croccante, insaporita di aglio, ripiena di prosciutto e provolone. E una ricotta fresca, appena dolce e, nel contempo, appena salata. Non acquosa. Non troppo soda. Se pensiamo che oggi la ricotta quasi non esiste più! Si presenta frattanto al nostro tavolo un giovane del luogo, il professor Alberto Vari. Ci parla di Anagni. Esalta lo straordinario progresso di Anagni in questi ultimi anni. Ci conferma una realtà che già avevamo intuito: costruita tutta in cresta, la città vecchia non ha potuto essere guastata. Inoltre, nella pianura immediatamente sottostante, fioriscono moltissime industrie: perché qui siamo a Sud e cioè dentro gli stabiliti confini che permettono nuovi impianti coi capitali della Cassa del Mezzogiorno, ma siamo ancora vicinissimi al Nord. “Lo sa che, come numero di automobili in rapporto al numero degli abitanti, Anagni è addirittura la prima città d’Italia? La seconda è Torino.” ganascione Non gli dico niente, ma penso che vorrei controllare. Intanto la colazione è finita, forse bisogna decidersi e andare a Roma: un ritorno che, ogni volta, mi inquieta. Scartabello istintivamente il mio taccuino e trovo un foglietto piegato in quattro con su scritto “Lazio”: un appunto di Gino Veronelli che non ho ancora letto. Nel Lazio, mi consiglia di assaggiare i vini di tre produttori eccezionali: il Principe Alberico Ludovisi Boncompagni a Fiorano; il Principe Antonello Ruffo a Paliano; e il maestro Luigi Colacicchi ad Anagni, in via Vittorio Emanuele 241... Ma è qui a due passi! Via Vittorio Emanuele si chiama appunto la via principale! Verso il principio degli anni trenta Colacicchi e io amavamo tutti e due Mozart di un amore sviscerato: proprio in quell’epoca ci accadde di lavorare allo stesso film: diventammo amici. Ignoravo che si fosse messo a fare il vino. Musicista finissimo, i suoi vini non possono essere che di grande classe. “Andiamo da Colacicchi” dico a mia moglie “e fermiamoci qui stanotte. Perché no? Ci sarà bene un albergo. In caso, dormiremo a Fiuggi, sono venti chilometri.” Era, in fondo, un ultimo pretesto per ritardare ancora. Senonché, il giovane Vari mi dà la triste notizia che Colacicchi da tempo si trova in clinica a Roma, gravemente ammalato: “C’è però qui suo nipote. Bruno Colacicchi. Dirige un collegio alla periferia di Anagni. E manda avanti l’azienda vinicola in assenza dello zio.” Andiamo dunque a trovarlo. Il collegio è una grossa villa del principio del secolo in mezzo agli spelacchiati resti di una pineta. Bruno Colacicchi, cordiale e gentilissimo, ci accoglie e ci illustra i vini che lo zio produce: nelle vigne di Torre Ercolana, un Rosso tipo Piglio, un Cabernet e un Petit Sirah; nelle vigne di Romagnano, il Romagnano Bianco, che è un Sauvignon. Come vorrei assaggiarli! In calce al suo appunto, Veronelli ha scritto: “I vini di Colacicchi: eccezionali, fra i migliori di tutta Italia.” E adesso i nomi, soprattutto Petit Sirah e Sauvignon, mi accendono la fantasia. Ma vorrei assaggiarli avendo vicino il mio vecchio amico, parlare intanto del vaudeville del : qual è il segreto di quella sublime melodia? perché non possiamo ascoltarla senza lacrime? Il pensiero che Colacicchi non sta bene e l’atmosfera tetra del collegio mi deprimono al punto che, dopo essermi brevemente consultato con mia moglie, decido di andare subito a Roma. Bruno Colacicchi mi dà il numero dello zio in clinica. Lo chiamerò: se può ricevere visite, andrò a trovarlo. E tornerò ad Anagni quando ci sarà tornato anche lui, guarito... Ratto dal Serraglio L’indomani ho telefonato. Aveva la voce molto stanca, non sapeva quando avrebbe potuto lasciare la clinica. Sono rimasto a Roma un solo giorno, e l’ho dedicato ai vini di un altro vecchio amico: Renato Castellani, che vive in una casa costruita da lui in mezzo ai vigneti, sulle pendici dei colli Albani, a Grottaferrata. Con Renato Castellani, regista pieno d’amore per il popolo e la terra. Il suo segreto sul vino: lasciarlo cadere dall’alto, che si ossigeni... I sette precetti di Castellani in contrasto con i comandamenti enologici. Da ragazzo, Renato Castellani aveva creduto innocentemente nel fascismo. Aprì gli occhi alla realtà solo qualche anno prima della guerra. Spero di non offenderlo se dirò, qui, che Libero Solaroli, liberissima persona sebbene antico direttore di produzione alla Cines, e, con Solaroli, io stesso, fummo gli amici che lo aiutarono a vedere. Vide, certo, vide. Ma soffrì quasi di un trauma: e ne cavò uno sconforto esistenziale e una sfiducia nella politica che sono alla base della scelta del soggetto del suo primo film, , dalla novella omonima di Puškin, vicenda disperatamente romantica, chiusa nei problemi psicologici di un solo personaggio. Il film è del 1941. Come prima opera di un giovane, sbalordì. Visto oggi, ancora commuove, ancora splende. Un colpo di pistola Dopo la guerra, Castellani, al pari di ogni altro animo bennato, sperò in un rinnovamento più o meno rivoluzionario dell’Italia. Dal ’46 fino al ’51, nei suoi film neorealistici ( , , , ecc.) assistiamo a una straordinaria esplosione di affettuoso interesse per le classi popolari e, insieme, a uno stile cinematografico completamente nuovo: interpreti presi direttamente dalla vita invece di attori, e un continuo movimento impresso alla macchina da presa, una tecnica che intuì e anticipò l’elasticità, la scorrevolezza, la fluidità del documentario televisivo. Castellani nel ’46 cominciò a girare facendo eseguire dal cameraman, incessantemente, i più bizzarri movimenti di macchina. Fece di più. Sempre alle prove, ma non di rado anche quando si girava, prese lui stesso la macchina da presa sottobraccio: e la spingeva, l’arretrava, la torceva in ogni senso, seguendo a volte solo le gambe o il torso o il capo di un personaggio, altre volte solo la direzione dello sguardo, e altre ancora non seguendo più un’immagine ma un’idea astratta, il pensiero di se stesso regista. E furono film vivacissimi, divertenti e, allo stesso tempo, molto raffinati. Ma quando, con gli anni cinquanta, si capì che il rinnovamento in cui tutti avevamo sperato era stato un’illusione, Castellani soccombette di nuovo alla sfiducia: ripercosso dall’antico trauma, tornò con a soggetti letterari e a uno stile estetizzante. Fu allora che, avendo comprato a Grottaferrata una bella tenuta, restaurò la vecchia casa colonica e si mise a lavorare intorno alle vecchie vigne e a pigiare vini di sua invenzione. Non ho poi visto Colacicchi e non so perché né come si dedicò anche lui al vino; ma è probabile che si tratti di un analogo processo psicologico: il vino come transfert di una rivalsa nei confronti di una delusione artistica e morale, il vino come parziale consolazione. Mio figlio professore Due soldi di speranza È primavera Mio figlio professore Romeo e Giulietta Arrivai da Castellani verso le sei del pomeriggio. Ci ero già stato molte volte; ma cominciammo subito con il giro delle vigne: finché c’era luce, volevo rivederle. Era la più favorevole posizione di tutti i Castelli: orientate a sud-ovest, drappeggiate su morbidi dossi che si alternavano a vaste conche, scendevano dolcemente verso quell’immensa pianura, prima coltivata e poi arida e incolta, che diventa a poco a poco l’immenso tritume edilizio di Roma: all’orizzonte, nel sovrastante pulviscolo dorato, contro la luce del sole al tramonto, si distingueva solo la cupola di San Pietro. Finito il giro, risalivamo verso casa. “Lo sai che ho venduto tutto?” mi disse di colpo. “Tutto? Ma allora, il vino?” “Il vino, per contratto, continuo a farlo io. La casa e la cantina, naturalmente, me le sono tenute: con un po’ di terreno intorno. Ho venduto tutto il resto. Cosa vuoi, era troppo grande.” Entrammo in casa: arredamento squisito, ceramiche disegnate da Castellani stesso, mobili tutti antichi, strani, bellissimi. La cantina era in fondo, scendeva e penetrava la viva roccia: da ogni lato, in ordinate cataste, le bottiglie coperte di bianche muffe spettacolari. E il vino? il vino, com’è? Se, per un’improbabile eredità o una ancor meno probabile compera, fosse capitata a me la stessa fortuna, sono certo che avrei coltivato le vigne coi sistemi e con le uve locali e tradizionali, e che avrei fatto il vino come da secoli lo si fa a Grottaferrata, limitando le migliorie moderne a minimi accorgimenti. Renato Castellani, invece, lesse e studiò collo scrupolo che gli è abituale tutti i più recenti testi di vitivinicoltura, e poi, abbandonandosi al suo dèmone inventivo, rivoluzionò tutto quanto: l’antico e il moderno. Quando si riposa, quando ragiona o racconta tranquillamente, gli occhi marron di Renato hanno uno sguardo dolce e malinconico; ma quando parla di un film o di qualunque altra opera che vuol fare, e anche quando ne rievoca l’impresa, sfavillano di un’arguzia, di un’animazione frenetica, quasi diabolica: “Il segreto del vino” gridò: “il segreto del vino è uno solo: travasarlo, e, travasandolo, lasciarlo cadere dall’alto, così che prenda aria, aria, si ossigeni!” Trasecolo. Finora tutti gli enologi che conosco mi hanno sempre detto l’esatto contrario: “I travasi sono necessari, vitali, importantissimi: ma ciò che più importa, nei travasi, è che il vino non venga mai, neppure per un istante, a contatto con l’aria. L’ossigeno lo distrugge! Bisogna che le manichette combacino, accuratamente avvitate, con l’entrata e con l’uscita dei recipienti, e che le guarnizioni garantiscano una chiusura ermetica!” Sette, oltre quello dell’ossigenazione, sono i precetti di Castellani vinificatore: 1) scegliere con pignoleria le uve, scartando i grappoli immaturi, o troppo maturi, o in ogni caso difettosi; 2) diraspare; 3) non usare mai bisolfito, neanche in minime percentuali; 4) far durare poco la prima fermentazione, al massimo cinque giorni; 5) durante la prima fermentazione, follare cinque o sei volte: ma limitandosi a scalzare e a levare la parte superiore del cosiddetto cappello galleggiante, cioè , che è più leggera, e lasciando che il resto, che è più pesante, affondi nel mosto da sé; 6) considerare la prima svinatura come l’optimum assoluto, e non mescolarvi poi nessun’altra svinatura, neppure dello stesso vino; 7) procedere alla seconda svinatura dopo dieci giorni, e considerarla , senza darvi importanza. la parte delle mosche semplicemente come un di più Ignoro quanto valore abbiano questi precetti. Mi paiono abbondantemente e variamente contraddetti dalle più comuni pratiche artigianali: di quelle più moderne e paraindustriali naturalmente non parlo nemmeno. Però: però delle bottiglie che questa e altre volte ho assaggiato da Castellani, almeno cinque su dieci sono sempre deliziose. E la meraviglia mi pare soprattutto questa: che il vino buono possa essere prodotto anche così: dalla fantasia più sfrenata, sperimentale, individuale. Innumerevoli, a esempio, i travasi che Castellani opera in damigiana, in botte, talvolta anche in bottiglia, durante i primi cinque o sei anni, e sempre col metodo, che qualunque esperto giudicherebbe assurdo, di una voluta, esasperata ossigenazione. E il risultato finale, trattandosi esclusivamente di vini bianchi, è addirittura sbalorditivo: capita infatti ai suoi vini tutto l’opposto di ciò che capita agli altri: i giovani sono meno buoni dei vecchi, nei giovani c’è sempre un retrogusto più o meno sgradevole di lievito o di feccia, che diminuisce risalendo nel tempo e che sparisce man mano che si assaggiano, in ordine cronologico inverso, le bottiglie degli anni prima. “Tutti gli anni viene diverso!” esclama adesso Renato, come se tornasse a provare la gioia, l’entusiasmo della sorpresa provata la prima volta che fiutò ognuno dei suoi vini: “e il profumo di ciascuno continua, negli anni, riconoscibile e diverso, diversissimo, dal profumo di tutti gli altri! Tengo qualunque scommessa: senza assaggiare, soltanto fiutando il secondo bicchiere, sono in grado, ogni volta, di dire: ’57, ’60, ’64!” Perché lui fiuta soltanto. Fiuta a lungo. E capisce e gioisce soltanto così. Non lo dice pubblicamente né in segreto, e neanche a me solo, ma crede in cuor suo, crede fermamente che il vino non sia fatto per bere. Resta da rivelare l’ultima, o piuttosto la prima di tutte le sue follie enologiche: la composizione delle uve. Da tempo immemorabile, il Grottaferrata, come qualunque altro bianco dei Castelli Romani, è un prodotto della seguente mescolanza: per il 90% Malvasia Bianca di Candia, Malvasia Rossa, Trebbiano Giallo, Trebbiano Verde, Trebbiano Toscano; e per il 10% Bellone, Bombino Bianco, Bonvino, Cacchione, Malvasia del Lazio, Malvasia Puntinata. Ecco, ora, la mescolanza Castellani: per il 50% Malvasia e Trebbiano con piccole quantità delle altre minori uve tradizionali che si trovano in tutte le vigne della zona; ma poi, per il 25% Moscato d’Amburgo, per il 12,5% Tocai Friulano, per il 12,5% Riesling Italico. La scelta del Tocai e del Riesling denuncia l’intenzione di ottenere qualcosa di più leggero del solito vino dei Castelli; la scelta incredibile del Moscato d’Amburgo, quella di ottenere a ogni costo un vino molto profumato. Ripeto: il risultato è sempre vario ma, almeno per metà delle bottiglie, sempre stupefacente. Un vino unico: o, meglio, una serie a sorpresa di vini ciascuno dei quali è unico. Renato non vende. Regala le bottiglie vecchie agli amici, oppure le stappa per loro, li guarda mentre bevono e assapora ogni volta, felice, il profumo del secondo bicchiere, che ha riempito per un terzo. Tra i misteri del vino che ho sfiorato in questo viaggio, nessuno, in fondo, mi affascina di più. La tentazione della pittura nella poesia dell’Umbria, terra fortunata anche per il ritardo dell’industrializzazione enologica. Benedetta la tradizione! Quante volte in campagna, in montagna, al mare, perfino in città, guardando un paesaggio che improvvisamente, stranamente mi commuoveva, ho provato il desiderio di essere pittore: come se, dipingendo ciò che vedevo, avessi potuto scoprire il perché della misteriosa commozione. Chissà, mentre contemplavo, forse ero già un poco pittore. A volte, infatti, fino da quando ero ragazzo, mi capitava addirittura qualcosa di più: su un foglio qualunque, su una pagina del taccuino o anche su uno spazio bianco, in un giornale, di lato a un avviso pubblicitario, disegnavo rozzamente quel paesaggio. Chissà, se avessi cominciato allora a procurarmi pennelli e colori... Un tentativo, a ogni modo, l’ho fatto anche in questo viaggio: un piccolo disegno a matita di ciò che vedevo dalla finestra della mia camera all’ultimo piano, in un albergo dell’antico centro di Orvieto. Giardini chiusi tra case, case chiuse nel profondo dei giardini. A destra e a sinistra, case, tetti, terrazze: forme geometriche di color avorio, rosa, grigio, che incanalavano lo sguardo verso l’orizzonte lontano delle colline di là dalla valle, a sud, ma intanto, qui vicino, lasciavano traboccare dovunque le libere forme di foltissime alte piante, verdeneri abeti, verdelucide magnolie, verdevaporosi salici piangenti, e i gialli e i rossi autunnali dei platani, dei tigli, dei faggi. Forse il segreto della bellezza che tanto mi commuoveva era in questa composizione compatta dove rigore prospettico e fantasia di masse si incastravano armoniosamente, senza intervalli inerti. È l’Umbria, mi sono detto. Questo meraviglioso “paesaggio interno” è l’Umbria. L’Umbria, cioè qualcosa di chiuso, calmo, ordinato, apparentemente aggraziato ma nascostamente simmetrico e quasi ispirato dal sentirsi il tranquillo centro ovale di una figura allungata, agitata, stretta tra le montagne, l’Italia! Ho citato più volte Cyril Ray. Ma non ho detto che la cosa più bella del suo libro sono gli esordi dei capitoli, uno per regione. E il più bello di tutti è proprio quello dell’Umbria. “L’Italia è un paese così diverso, così unico, e gli italiani sono a loro volta così individuali, che è difficile, di una persona o di un posto qualunque, dire che sia tipicamente, caratteristicamente Ciò malgrado, qualcosa dell’essenza dell’Italia c’è nell’Umbria, una delle regioni più piccole, a mezza strada tra l’anca e l’alluce della lunga penisola, e la sola che sia interamente circondata per così dire dall’Italia, perché tutte le altre confinano con il mare o con paesi stranieri...” italiano. A questo punto, il Ray dedica una pagina al paesaggio umbro: campi, prati, cipressi, colli ondulati nella distanza luminosa, che sono ancora identici ai paesaggi dei grandi pittori del Quattrocento. Se, infatti, il Perugino non incluse mai le vigne nei suoi paesaggi, “il visitatore di oggi non nota, in Umbria, l’onnipresenza della vigna come nel Veneto, nell’Alto Adige, o nelle nuove tenute del Chianti. In Umbria, per lo più, la vigna cresce alla rinfusa con il grano e l’olivo, ed è l’olivo che caratterizza il paesaggio. Cosicché, in Umbria, la produzione del vino è modesta, e uno solo dei suoi vini ha qualche reputazione fuori dei confini regionali”. Pubblicato la prima volta nel 1966, il libro del Ray si riferisce a viaggi che l’autore compì negli anni immediatamente precedenti. Il grande sviluppo della vitivinicoltura umbra, diretta conseguenza ed espansione del boom del vino in tutta Italia, cominciò soltanto in quegli anni e dunque il Ray non poté prenderne nota. Tuttavia, in rapporto alle altre regioni, l’Umbria è rimasta un po’ indietro. Ed è stata, in questo, fortunata: perché, se raggiunge solo in due o tre casi eccezionali la classe dei migliori vini piemontesi o altoatesini (cioè di vini prodotti in piccole quantità e con tutte le raffinatezze e le caute innovazioni di un artigianato serio), allo stesso tempo si è salvata dagli abominii dell’industrializzazione integrale delle refrigerazioni, pastorizzazioni, stabilizzazioni come nelle cantine sociali sarde, lucane, calabresi, abruzzesi. Sì, anche qui, sulle sponde del Trasimeno, abbiamo trovato una Cantina Sociale; ma il tono generale della vinicoltura umbra è ancora profondamente umbro: ossia discreto, austero, originale: e capace, seppure raramente, di eguagliare le vette del Nord. Concludendo: la tradizione che li consacra più all’olio che al vino, gli umbri possono benedirla. Accanto ai vicini Chianti, Montepulciano, Brunello, abituati a tagliare vittoriosamente i traguardi, i vini umbri devono la loro squisitezza proprio alla loro posizione di outsider: nomi segreti e bellissimi che in ordine sparso seguono l’Orvieto, asso unico e infido. Infido perché, ormai, i casi in cui lo si trova autentico e in grande forma sono infinitamente meno numerosi dei casi in cui lo si trova truccato e debilitato. Come si fa l’Orvieto abboccato, secondo la descrizione di Cyril Ray. Il duomo dell’enologia, dove i fratelli Morino hanno antichissime cantine scavate nel tufo. Sergio Morino conferma, in parte, le ragioni del “folle” Castellani. Una bottiglia di vino “dispiaciuto”. Orvieto è costruita sulla cima piatta di un’immensa rupe bruno-giallastra di tipo vulcanico, dalle pareti a picco, quasi muraglie di circa duecento metri di altezza. Questa rupe sorge come un’isola sul piano del fiume Paglia ed è “tutta crivellata di caverne naturali, in cui per secoli e secoli il vino di Orvieto fermentò e maturò”. Così sempre il Ray; ma si riferisce soprattutto all’Orvieto dolce, o abboccato, o amabile: e trascura il secco, la cui maggiore e crescente diffusione in rapporto al dolce fa parte, anche questa, del boom degli ultimi dieci anni. “L’Orvieto abboccato si fa lasciando che le uve incomincino ad appassire dopo che sono state raccolte: non sulla vigna come per i Sauternes e per il tedesco , sviluppando quello che gli italiani chiamano , i francesi , e i tedeschi . A Orvieto, le uve sono stese entro cassette aperte, nelle cantine di tufo, fino a che vengono pigiate. Curiosamente, ne risulta un vino piuttosto leggero, delicato, soltanto semidolce, niente di così succulento e stucchevole come il Sauterne e il passito tedesco.” Perfino da Sergio e Dino Morino, i più seri appunto perché non i più famosi produttori di Orvieto, il tipo abboccato, ormai, incontra sempre meno dell’asciutto. Il loro padre, il loro nonno, il loro bisnonno, tutti facevano l’Orvieto. E la loro cantina, tutta scavata nel tufo, e incastrata, per così dire, nelle fondamenta di un palazzo del secolo XV, proprio nel centro di Orvieto, a pochi passi dal celebre Duomo, la si potrebbe definire il duomo dell’enologia. Trockenbeerenauslese muffa nobile pourriture noble edelfäule I fratelli Morino fanno 200.000 bottiglie l’anno; . Non avevo mai bevuto il vero Orvieto, perché l’Orvieto, in Italia, merita la triste palma di essere stato falsificato fino dal 1924: con grande anticipo su tutti gli altri vini. Posso dunque dire di aver bevuto per la prima volta un bicchiere di vero Orvieto soltanto adesso, entrando con l’amico Gaio Fratini in una delle cantine dei fratelli Morino. ma vendono solo a privati È un vino, se altri mai, che darebbe ragione a Castellani. Il momento magico dell’incontro – e ancor di più, naturalmente, del incontro – avviene non quando lo si assaggia ma quando, riempito di un terzo il bicchiere, lo si fiuta. Ecco la composizione delle uve tradizionali: 60% Trebbiano Toscano, che qui preferiscono chiamare Procanico; 20% Verdello; 15% Malvasia; 5% Grechetto. La misura della mistura, come del resto accade anche nel Chianti, è già fatta “in vigna”, secondo una costumanza plurisecolare. primo È probabile che lo straordinario profumo di Orvieto secco dei Morino dipenda dal Verdello, sinonimo di Verdicchio Bianco: e così pure il retrogusto come di noci che poi si trova assaggiandolo. Ma, ricordando il Riesling e il Moscato d’Amburgo “evocati” dal folletto castellaniano, sospetto invece che il profumo, come tutte le altre doti di un vino, sapore colore leggerezza forza, dipendano non tanto dai vitigni quanto dal modo con cui ciascun vitigno reagisce al clima del luogo, e all’orientamento della vigna, e alla natura del terreno, e ai minerali che vi si trovano diffusi. questo Questo accade anche per l’Orvieto Rosso, che è a base di Sangiovese e di Pinot Nero. In principio, al naso, alle labbra, alla lingua, olezza, frizza, eccita: poi, nel trangugiarlo, si smorza in un gusto feccioso, non dissimile da quello che così sovente affligge i vini di Uve Schiave dell’Alto Adige e appunto, i Sangiovese di Romagna. “Cascante” lo definisce Fratini: non si potrebbe dire meglio. Sergio Morino conferma l’importanza del terreno: “Il miglior Orvieto, il più delicato e profumato, lo si produce esclusivamente con le uve di due zone:. Monte Rubiaglio, a nord-ovest di Orvieto; e, dalla parte diametralmente opposta, a sud-est, Castiglione in Teverina. Le due zone si compensano stranamente secondo le condizioni meteorologiche dell’annata: se l’estate è secca, meglio Castiglione: meglio Rubiaglio, se è umida. Le vigne sono un mosaico di piccole e piccolissime proprietà. Noi compriamo le uve, e le portiamo a Orvieto, dove le pigiamo in una cantina di tufo simile a questa in cui siamo: simile ma separata, lontana. E questo per evitare che la contagi i vini avviati alla tranquillità o già tranquilli che si conservano apposta qui, per la seconda fermentazione e per l’invecchiamento. Nella prima cantina il vino rimane per circa tre mesi. È una cantina più in alto di questa: a livello del suolo e molto aerata. Sviniamo dopo otto giorni: quello, si chiama il ; il resto, Dopo un mese, un primo travaso e un primo filtraggio, Alla fine di gennaio, lo trasporto qui. E prima della luna di marzo, secondo travaso: e secondo filtraggio, Vedo che lei storce la bocca. Ma le garantisco che questi filtraggi non impoveriscono le sostanze organolettiche. Bisogna, però, durante i travasi e i filtraggi, evitare accuratamente il contatto con l’aria... Perché sorride?” fermentazione tumultuosa fiore vinelli. al sacco. con dischi di amianto a pressione. Gli spiego che penso a un mio amico che sostiene il contrario: secondo lui, l’aria è necessaria al vino, gli giova. “Un po’ di ragione ce l’ha anche il suo amico. A esempio: per la conservazione, io uso fusti di castagno di media dimensione: da 800 a 1500 litri. Ora, se voglio un vino un po’ più abboccato, uso botti grandi, in cui la superficie che lascia passare per osmosi l’aria è, relativamente al volume del vino contenuto, minore. Se invece voglio un vino più asciutto, uso botti piccole, dove avviene il contrario. L’aria, dunque, in questo caso fa del bene al vino: ma si tratta di un minimo, di quella pochissima che può filtrare attraverso le fibre delle doghe di castagno. Per l’abboccato, riduco il periodo della prima fermentazione da otto giorni a sei. Se poi voglio fare un po’ di spumantino, imbottiglio durante la luna di marzo un certo quantitativo di vino giovane, cioè della vendemmia precedente. Per tutti gli altri vini, dopo due anni di botte opero una selezione, tenendo conto delle analisi chimiche, degli esami organolettici e delle necessità di mercato. Se, all’analisi, l’acidità fissa è particolarmente alta, mettiamo da 6 a 8 gradi, destino quella partita all’invecchiamento. Se, invece, è alta l’acidità volatile, imbottiglio subito e vendo al più presto. Quello che invecchia, sta nelle botti fino a cinque anni, poi in bottiglia. Dura fino a quindici anni, non più. Ma la cantina deve essere come questa: asciutta, fresca d’estate e tepida d’inverno, buia e soprattutto : l’Orvieto ha un certo corpo.” senza scosse Ecco, l’Orvieto ha un profumo e un sapore così sottili che, a tutta prima, gli si suppone un corpo molto più leggero. Chissà che questa contraddizione non corrisponda al suo fascino misterioso: vino etereo e vulcanico, vino di sole e di caverna, vino asciutto con un fondo dolceamaro: vino, soprattutto, delicato ma, proprio per questa sua delicatezza, assolutamente intrasportabile. Capisco: l’intrasportabilità, per il trend consumistico, è un marchio negativo: ma comincio a sospettare che, in assoluto, si tratti, al contrario, di un marchio positivo: i vini migliori sono, forse, anche i meno trasportabili. Sergio Morino, infatti, conclude il suo monologo sull’Orvieto così: “Se qualcuno mi dicesse: mi mandi il suo vino fuori dal suo clima – ebbene, io, magari scioccamente, non glielo mando.” Faccio un salto a oggi. Mesi di distanza. Pasqua 1976. Viene a trovarmi a Tellaro Cesare Cosentini, l’ingegnere di Cosenza. Stappo per lui una bottiglia del migliore Orvieto di Morino che ho in cantina da Natale. Fiutiamo, assaggiamo. Il vino è lui e non è più lui. Avvertiamo qualcosa di strano, di non più amalgamato, come se la sua asciuttezza e la sua dolcezza si fossero “separate” l’una dall’altra, come se la sua virtù alcoolica, invece di fondersi col sapore, si fosse identificata e irrigidita in una vena a sé. “È il principio della fine” osservo. E Cosentini: “Noi calabresi, in questo caso diciamo che il vino Badi bene: l’espressione contiene una certa tristezza, una certa rassegnazione... come per un animale, o addirittura per una creatura umana.” è dispiaciuto. Certo. L’Orvieto era dispiaciuto, si era dispiaciuto di non trovarsi più là, nell’aria insostituibile delle sue morbide rocce. Il miracolo di un’aia alla Cerqua Pinza: architettura e pittura straordinariamente fuse dalla “benedetta avarizia”. Coscienza, fierezza e felicità dei contadini umbri. Il ruzzolone, un formaggio con cui si gioca. Nell’ombelico d’Italia un bicchiere di vino nuovo fatto con uve sconosciute. Torno all’autunno del ’75. La mattina dopo andiamo con Fratini al suo paese, Parrano. Saliamo al valico di monte Nibbio. Di là dalla valle del Paglia, in fondo, a sinistra, il grande cono scuro dell’Amiata. Attraversiamo Ficulle, un paesino in cresta che da anni mi affascina la notte quando, viaggiando sull’autostrada verso Roma, vedo i suoi lumi sfavillare azzurri, altissimi, nella nerezza assoluta della montagna. Fratini dice che Ficulle è un paese strano, unico: nei bar e nei caffè si gioca solo a bridge: non, come dovunque altrove, a scopone tresette briscola ramino. Poco dopo, alla frazione di San Cristoforo, ci fermiamo per gustare un vino bianco comune, dell’anno prima: fresco, abboccato, squisitissimo. Dolce, non c’è dubbio e un dolce pronunciato: ma che non dà fastidio! A Peperaio, altra frazione di Ficulle, deviamo dalla strada principale per visitare una fattoria, la Cerqua Pinza. Occupa l’intera sommità di un poggio alto e isolato, coltivato a vigne e a ulivi. Ecco la casa del capoccia, l’immensa aia, i due grandi pagliai. Ecco, intorno, spaziate costruzioni minori: la cappella, l’ovile, il porcile, un magazzino. L’insieme sorprende e incanta: una meravigliosa piazza rustica, che per l’architettura contadina è quello che sono, per l’architettura urbanistica, Piazza del Campo e Piazza della Signoria: un capolavoro. Qualcuno potrebbe obbiettare che, in Umbria e in Toscana, ignote fattorie altrettanto belle non si contano. Ma l’obbiezione non toglie pregio alla Cerqua Pinza. Questi casolari rustici sono quasi senza tempo: appartengono indeterminatamente a un arco di almeno quattro secoli, dalla fine del Quattrocento alla fine dell’Ottocento, e solo un esperto, studiando i minimi particolari, potrebbe datarli con precisione. I capimastri e i muratori li costruiscono lavorando d’accordo coi contadini e insieme ai contadini, apportando di volta in volta, secondo le varianti dettate dall’esperienza locale, piccole modifiche a norme codificate come da sempre. Chi ricorda oggi quei contadini, quei muratori, almeno quei capimastri? Nessuno, niente. Tuttavia, ci pare di poter affermare che essi non facevano parte “d’un vulgo disperso che nome non ha”. Come si spiega, se no, la bellezza che ci lasciava senza fiato sulla nuda aia della Cerqua Pinza? Che senso ha, qui, la straordinaria evidenza dei valori plastici e pittorici? la sfericità delle cupole dei pagliai, che il sole di taglio esalta, luce gialla e ombra marrone, sullo sfondo lontano, verde e azzurrino, dei colli di là dal Paglia? l’equilibrio delle proporzioni tra ciò che è verticale e ciò che è orizzontale, tra l’altezza della casa del capoccia e la vastità dell’aia, tra il vecchio intonaco rosa di quella e il beige terroso di questa? Ah, tutto allude a qualcosa, tutto contiene un mistero. Questa architettura umile, utile, di piccoli ignoti, quest’arte non intenzionalmente artistica possiede forse una qualità che manca alle opere dei grandi, e che si spiega con la semplicità e l’eleganza derivate soltanto dall’involontarietà, da un secondo scopo, dalla benedetta avarizia, dal rigore economico e produttivo con cui fu costruito tutto ciò che vediamo. Non, dunque, un vulgo disperso che nome non ha: ma un vulgo immerso in una civiltà che ha un nome ben preciso, e della quale, per operare come hanno operato, quei contadini muratori capimastri dovevano essere tranquillamente coscienti, fieri e felici. Felici per quanto si consente agli esseri umani: in ogni caso, molto più di quanto tocca ai loro pari oggi. Il verso del Manzoni, infatti, si riferiva agli italiani del Medioevo e potrebbe purtroppo cominciare a riferirsi agli italiani del Duemila. Cosa c’entra col vino? C’entra moltissimo. Perché almeno in questi piccoli paesi sperduti delle colline l’Umbria è rimasta più antica, più pura e meno consapevole della Toscana. Come accade da tempo ai contadini in Francia, ormai anche in Toscana tutti i contadini sono estetizzanti, letteratoidi, pubblicisti e antiquari. Un certo squallore, invece, una certa incuria, un’aria di abbandono sembra coprire di malinconia la Cerqua Pinza: ma è proprio questo velo impalpabile che garantisce finora al luogo la sua estrema bellezza. Sarà così anche per la bontà del vino? Parliamo con Raffaele Meniconi: un ometto magrolino che probabilmente dimostra più della sua età. E parliamo col figlio Lamberto, giovane ercole, campione di “ruzzolone”. Il ruzzolone è una gara che si fa a Ficulle un paio di volte l’anno, per Pasqua e per la vendemmia, su strade asciutte ma non polverose. Il ruzzolone è una caciotta tonda, spessore dodici centimetri, diametro trenta: intorno a cui, sullo spessore, viene avvolta una sottile correggia di cuoio che termina con lo “zeppolone”, un corto bastoncino di legno. Si lancia il ruzzolone come il disco, ma trattenendo lo zeppolone tra l’indice e il medio: la correggia, svolgendosi automaticamente col lancio, imprime alla caciotta maggiore velocità e una traiettoria più diritta. Vince chi manda il ruzzolone più lontano. In una stanza al piano di sopra della casa del capoccia vediamo fotografie incorniciate e appese alle pareti: la gara si svolge su un rettilineo, in uno stretto corridoio che la folla lascia libero. Vediamo anche le coppe vinte da Lamberto. E vediamo il ruzzolone stesso, che però non è più, ahimè, di vera caciotta, ma una tozza ruota, piena e pesantissima, di legno di sorbo, verniciata di nero olio di noce, come le caciotte vere. “Quando è stato” chiedo al campione “che avete smesso di gareggiare col cacio per usare questa forma di legno?” Risponde il padre, il capoccia, Raffaele Meniconi: “Eh, lui non se ne può ricordare. Era piccino. Il ruzzolone lo si fece con la caciotta fino al 1950.” “Potrebbe essere una data simbolica,” dice Fratini, “per l’Italia agricola e patriarcale, il 1950 segna infatti il principio della fine.” Penso che Ficulle è vicino a Todi e che Todi è l’ombelico dell’Italia: l’antichissimo centro vitale. Da quando a Ficulle si lanciò il primo ruzzolone di sorbo, il destino dell’Italia è cambiato. E il vino? “Non ce n’è più in casa. Lo abbiamo finito ieri sera, e stamattina, tra una cosa e l’altra, non siamo ancora andati a prenderlo. È qui sotto. Lo teniamo lì perché resta più fresco. Vuol venire anche lei?” Dal grande spiazzo in cima al poggio, per un ripido sentiero di terra scendiamo in una forra boscosa. Proprio nel fondo più folto sgorga dal tufo una sorgente. E lì, sono quattro o cinque grotte, l’una attigua all’altra, e tutte chiuse da rustiche porte, dove i Meniconi pigiano e conservano il vino. Troviamo la moglie di Raffaele e la moglie di Lamberto: sono scese con mezzine e damigiane a prendere l’acqua e il vino. La moglie di Raffaele è grassa, alta, ardita: misura due volte il marito. Mi pare che sia lei, il vero capoccia. E anche la giovane moglie di Lamberto non scherza. Entriamo in una delle grotte, beviamo un bicchiere di vino nuovo, nero. Fresco, pastoso, dolce ma non dolce “fragola”. È stato pigiato venti giorni fa. È gradevolissimo. “Che uve sono?” chiedo a Raffaele. “Non lo so,” dice, “le uve delle vigne di qua, ora torniamo su e gliele faccio vedere.” Dal gusto, direi che è Sangiovese più Aleatico. “Quanto ne fate?” “Mah. Saranno ventidue, ventitré quintali, tra botti e damigiane. Facciamo più bianco che nero. Ma il bianco non è ancora pronto da assaggiare. Non lo vendemo. Semo in otto, lo bevemo tutto.” Torniamo su allo spiazzo, salutiamo i Meniconi e ce ne andiamo. Per raggiungere la nostra automobile costeggiamo le vigne. Coltura , secondo l’antico precetto dell’agricoltura umbra: una vite e un ulivo alternati. La vite, spiega Fratini, può essere indifferentemente a palo morto o a palo vivo. Se è vivo, si tratta di ciliegio o di , ossia acero. E finalmente arriviamo a Parrano. mista stocco Parremo: la casa fratescamente gaia di Gaio Fratini. Poi da Luigi Malerba, nel vigneto del vescovo, ecco finalmente il Cabernet, vino del Nord. Dice la Guida del Touring con la sua involontaria poesia: “Parrano, metri 441, abitanti 1320, lindo borgo di carattere medievale, cinto da mura e con un castello; nei pressi, grotte preistoriche e sorgenti di acque minerali.” La casa di Gaio Fratini è fratescamente gaia. Un luogo perfetto per “meditare in sesto”, come diceva Noventa. Il vino è di una qualità unica e somma: Trebbiano 45%, Malvasia 5%, Verdello 50%. Noto che questa composizione delle uve si distingue da quella classica dei vini locali per una piccola ma netta percentuale in più di Verdello. Circa 11 gradi. Secchissimo e profumatissimo: per via del Verdello. Molto diverso dall’Orvieto. Lo assaggiamo adagio, in un tinello tranquillo, con tappezzeria a righe, tra lucidi mobili Luigi Filippo. Ci fa compagnia un signore alto, magro, forte, Sandro Castellani, l’enologo che ha pigiato il vino. Tinello e Verdello spiegano in qualche modo Fratini stesso: la sua prosa ironica e lirica, raccolta, malinconica e sorridente. Più misterioso è il rapporto di un altro scrittore, Luigi Malerba, con il vino da lui pigiato nella sua villa di Settecamini, a breve distanza da Orvieto, dove andiamo a fargli visita, il giorno successivo. Sono appunto quelle colline che vedo all’orizzonte dalla mia finestra all’albergo. E Malerba, dalla sua finestra, vede la rupe di Orvieto, vede la bianca facciata del Duomo che riflette il sole dalla mattina alla sera. In luogo meravigliosamente arioso e festoso, la villa appartenne una volta al vescovo di Orvieto: fu poi, per molti anni, sede di un collegio, che lascia forse una sua traccia di tetraggine nei cupi abeti dello spiazzo terrazzato, verso nord. Ariose e festose, invece, le vigne del vescovo che guardano a sud e che noi attraversiamo per entrare. Malerba, esule emiliano, dal 1970 vive pendolarmente tra Roma e qui. Lo aiuta a fare il vino sua moglie Anna, piemontese e ampelologa. Senza arrivare alla follia di Renato Castellani, i Malerba hanno tuttavia adottato metodi contrari a quelli della più corrente vitivinicoltura: si sono rifatti addirittura ai tempi precedenti la fillossera, escludendo le barbatelle americane e, raro esempio fra i nuovi viticoltori umbri e toscani, si sono ribellati all’innovazione consumistica del per rimanere fedeli al tradizionale alberello, con palo vivo di acero. Niente zolfo, mai. Alla fermentazione, non follano. Talvolta, a marzo, aggiungono chiara d’uovo per favorire il deposito. Sei travasi in due anni. E stop. filare Il bianco è più o meno la solita ricetta orvietana: Trebbiano e Verdello in uguali parti per l’80%, e il resto Malvasia, Grechetto, Rupecio, ecc. Lo assaggio. Trovo diversità tra varie bottiglie della stessa annata e della stessa partita: fatto scomodo, certo, ma secondo me costituisce una garanzia di genuinità. Non vado pazzo per questo bianco, e perciò non insisto. Stupendo invece il rosso. È una miscela semplice e miracolosa, che i Malerba non hanno inventato, ma che hanno trovato, pari pari, nelle vecchie vigne del vescovo e che hanno avuto il buonsenso di non modificare: 50% Sangiovese e 50% Cabernet. Assaggiandolo, ho la sensazione improvvisa, esaltante, di trovare qualcosa che mi mancava dall’inizio di questo viaggio: dopo settimane e settimane di Cannonau, Gaglioppo, Montepulciano d’Abruzzo, ecco finalmente il Cabernet! Un’uva del Nord, finalmente! Lo stesso Sangiovese, nonostante tutto, contiene sempre, nella chiarezza del suo rubino, un periodo di fecciosità legnosa. Ebbene, il Cabernet scuro, erbaceo e saporito, compensa questo difetto del Sangiovese e lo corregge. Il rosso o il nero, chiamatelo come volete, insomma, il Sangiovese più Cabernet di Anna e Luigi Malerba potrebbe essere definito il primo vino del Nord che il pellegrino enologico incontra risalendo la penisola. Non molto diverso ma ancora più nordico è l’Almonte: un vino che scoprimmo gli ultimi giorni, prima di lasciare l’Umbria. Ulteriore ricerca e delusione nella Cantina Sociale... E poi subito a Todi. L’Almonte mi era stato indicato da Ginevra Bompiani con un patto che ho finto di accettare e che ora infrango. “Vai in Umbria? In Umbria, se mi prometti di non parlarne con nessuno, ti do un vino formidabile. Lo trovi a Todi. Si chiama Almonte, e il produttore è un certo Vagniluca del quale non so assolutamente dirti nulla. Io ho trovato le bottiglie in una bottega di Roma.” Veramente, prima di lasciare l’Umbria, avevo deciso di vedere, anche qui, almeno una Cantina Sociale. Si tratta di un fenomeno sempre più diffuso e mi pare ingiusto non tenerne conto. A che cosa serve fare come lo struzzo? E poi, forse, la verità è un’altra. Non riesco a eliminare completamente le cantine sociali dai miei itinerari perché spero sempre di trovarmi davanti a un miracolo: una Cantina Sociale non industrializzata, una Cantina Sociale dove non si refrigera e non si pastorizza, soprattutto una Cantina Sociale di piccole dimensioni o almeno (dato che è una contraddizione in termini: Sociale significa appunto che si vinificano uve di proprietari associati) di proporzioni un po’ meno gigantesche del solito. piccola Ahimè, la Cantina Sociale del Trasimeno, presso Castiglione del Lago, non faceva certamente al caso mio. Per capirlo, basta dare un’occhiata alle fotografie che ho chiesto a Lotti di eseguire proprio per dare al lettore un’idea della spaventosa realtà contro cui si trovano a lottare coloro che oggi ancora credono al vero vino. Mentre Lotti si arrampica sui cilindri di alluminio, io intervisto il giovane e simpatico tecnico Vittorio Cozzi Lepri, che mi dà tutte le informazioni con estrema cortesia. Le cantine sociali del Trasimeno vinificano annualmente più di 110.000 quintali. Bianco secco: Trebbiano 70%, Malvasia 30%. Il Rosso: Sangiovese 75%, Trebbiano 15% e 10% di Malvasia, Gamay, Ciliegiolo. Mi stupisco del Gamay. Cozzi Lepri mi dice che in zona, ossia nei dolci e vastissimi declivi intorno al lago, il Gamay è coltivato da parecchi anni. Assaggio alcuni tipi. Sono quello che sono, non peggiori, in ogni modo, dei vini della più grande parte delle cantine sociali. Chiedo ora di telefonare a Todi. Cozzi Lepri mi conduce in uno degli spaziosi uffici vetrati. Trovo nell’elenco “Ugo Vagniluca, azienda agricola, frazione di Frontignano”. Il numero risulta libero, ma nessuno risponde. Provo il numero dell’abitazione nella città di Todi: ma nemmeno là si risponde. Entrano frattanto nell’ufficio due maturi gentiluomini con la solita giacca di tweed e pantaloni di flanella grigia. Sono il presidente e il vicepresidente della Cantina Sociale: Giovanni Rossoni e il dottor Cesare Cesarini. Non conoscono neanche di nome l’esistenza di un Vagniluca. Tuttavia, pronti e gentilissimi, vedendomi smarrito chiamano al telefono a Todi il professor Giuseppe Orsini, direttore dell’Istituto Agrario, e mi indirizzano a lui. Tutto è risolto. Due ore dopo sono a Todi. Sulla piazza che ispirò a De Chirico un famosissimo quadro. Un buon bicchiere di Almonte mi consola della precedente delusione: aveva ragione Ginevra Bompiani. Il biondo vignaiuolo Ugo Vagniluca mi racconta di un tesoro sepolto e poi moltiplicato. “L’Azienda Vagniluca” mi dice il professor Orsini “è stata fondata da un mio allievo, Pietro Vagniluca, che è mancato tempo fa. Ora la manda avanti l’unico figlio, Ugo, che purtroppo oggi non è a Todi. Mi sono informato: è andato a Roma. Ma se lei torna domani lo trova, e così potrà visitare la tenuta, l’azienda e il castello. È qui vicino a pochi chilometri, un castello del Duecento, nel feudo di Frontignano. Apparteneva alla famiglia degli Atti, la più famosa di tutte le signorie che dominarono Todi. Il vino lo hanno chiamato Almonte per colpa di d’Annunzio, che nel suo sonétto su Todi parla della figlia di un Almonte degli Atti: Ma passa, ombra d’amor su la tua fronte che infoscan gli evi, la figlia d’Almonte, il fior degli Atti, Barbara la Bella... “Ma il vino com’è?” chiedo. E spiego al professor Orsini che prima di decidere se tornare a Todi l’indomani per il solo Vagniluca, vorrei sapere com’è il vino Almonte. Il grosso volto del professore si illumina di un’arguzia prelatizia: “Secondo me è ottimo. Ma a cosa serve che glielo dica io? Anche se non fosse ottimo, io non potrei parlarne male. Sono l’Ispettore agrario... o piuttosto lo ero, perché da due mesi sono in pensione. Ma non è che la pensione mi dia diritto a scorrettezze.” Mi viene un’idea. Siamo sulla piazza di Todi, la stessa che ispirò De Chirico per il quadro . In fondo, in un angolo del “quarto lato”, quello che manca al celebre quadro perché De Chirico, dipingendo dal vero, vi avrebbe dato le spalle, vedo una botteguccia di alimentari. Piazza d’Italia “Crede che laggiù” dico al professore “avranno una bottiglia di Almonte?” “Possiamo provare.” La bottiglia c’è. La compro. Riattraversiamo la piazza, sediamo a un bar, facciamo stappare, versiamo nei bicchieri. Rubino cupo. Profumo intenso e strano: quasi piemontese. Assaggiamo. Buono. Ma non soltanto buono: misteriosamente buono. Insomma, Ginevra Bompiani aveva ragione. Passo il resto del pomeriggio col professor Orsini. È un pozzo di scienza botanica, agraria, pastorizia, enologica. L’Istituto Agrario di Todi fu fondato nel 1860, sotto il Governo pontificio, ed è il più antico d’Italia. Della viticoltura di Todi parla Plinio il Vecchio (24-70 d.C.) nel libro XIV, capitolo IV della sua , e il professore mi consegna una fotocopia che ha fatto fare appena ricevuta la telefonata che gli annunciava la mia visita. Sono due pagine dell’edizione della Harvard University Press, testo latino e traduzione inglese a fronte: Storia Naturale “Et hactenus publica sunt genera, cetera regionum locommque aut ex his inter se insitis mixta, si quidem in Tuscis peculiaris est Tudertibus atque...” è il nome latino di Todi, ed è strano che già allora, nel primo secolo dell’era volgare, la viticoltura di Todi fosse peculiare in tutta la Toscana (l’Umbria apparteneva alla Toscana) proprio per i suoi innesti e per le sue mescolanze: tipi di uve miste ( ) che provengono da questi innesti reciproci ( ). Tuder genera mixta ex his inter se insitis Il giorno dopo. Arriviamo verso le undici di mattina. Il castello di Almonte è in alto, su un poggio interamente coperto di vigneti, tutti a filare. Questo manto conico e uniforme ci sembra interrotto solo in un tratto, proprio verso la cima, da un viale diritto di cipressi. In ogni caso, non vediamo nessun’altra via per entrare. Ma quando arriviamo al castello, non sappiamo che fare; la grande porta è chiusa. Intorno non c’è anima viva. Tutto è silenzio. Chiamiamo, gridiamo. Nessuno risponde. Eppure il professore ci assicurò che avrebbe avvertito il Vagniluca. Dall’ombra fresca e folta di un boschetto in cui i cipressi del viale terminano davanti allo spiazzo del castello, usciamo nel sole caldo, scendiamo tra i vigneti verso un grande edificio nuovissimo, anzi in corso di costruzione: vediamo che manca il tetto. Scorgiamo un muratore che passa lontano con un secchio di calce. Lo chiamiamo, gli chiediamo dove sia Vagniluca. Si ferma contrariato e ci grida qualcosa che capiamo soltanto dal gesto: ci indica una casa in basso, in mezzo alle vigne. Torniamo indietro con la macchina e ci fermiamo a una stradina di terra che va verso la casa, e che prima non avevamo visto. Proseguiamo a piedi attraverso i vigneti e ci accorgiamo, di colpo, che c’è ancora tutta l’uva attaccata: grappoli neri, densi, anche troppo maturi. Siamo ai primi di novembre, e non sulle Langhe né in Valtellina! Ma in Umbria! Da un paio di settimane, infatti, non abbiamo più visto uva alle vigne. Come mai Ugo Vagniluca deve ancora vendemmiare? Giriamo attorno alla casa colonica, che è poi quella che il muratore ci aveva indicato dall’alto, e arriviamo a un vasto piazzale: una vecchia aia trasformata nel cortile di un rustico stabilimento vinicolo, come si capisce dalle botti e dalle cisterne allineate sotto il portico che una volta riparava il fieno. Due operai lavorano intorno a una pompa, all’attacco di una cisterna. Un grosso trattore arancione manovra a marcia indietro uscendo dal portico verso il centro del piazzale. Ci avviciniamo, rivolgendoci all’uomo, in alto sul seggiolino, che guida il trattore: “Scusi, ci potrebbe dire dov’è il signor Vagniluca?” L’operaio si volta. È un giovane biondo, esile, con gli occhiali. Dice: “Sono io.” Presentazioni. Scuse. Vagniluca sta per saltar giù dal trattore: “Resti lassù, per piacere” gli grido e intanto suggerisco a Lotti di fotografare il nostro incontro. Ma Lotti, fulmineo, è già in azione. “Lassù lei è stupendo!” spiego scherzosamente al giovane, osservando contro cielo il suo volto abbronzato ma delicato, il ciuffo biondo di traverso sulla fronte, gli occhi celeste chiari nei cerchi dei grandi occhiali gialli, il sorriso malizioso delle labbra esangui: “Stupendo! Finalmente un giovane intellettuale che fa il vino! Anche in California ce ne sono, primissimo fra tutti il mio amico Paul Draper, filosofo, di Stanford, che fa il vino di Montebello Ridge. Ma lui dirige le opere di vinificazione e basta. Lei, invece, vedo che lavora nella vigna e guida il trattore. Oppure è un caso?” “Lei forse vorrebbe insinuare che sono sul trattore perché mi ci sono fatto trovare apposta? Che è una messinscena per lei e per le fotografie?” “Non ho detto questo, mi pare.” “Ma forse l’ha pensato. In ogni caso, non è che mi diverta. Io, qui, faccio tutto da me... sì, ho l’aiuto di due operai: li vede, sono quelli là” e mi indica i due uomini che stanno lavorando nel portico. “Ma il trattore lo so portare solo io...” Gli guardo le mani posate sul volante: sono magre di forma, nervose, con le dita lunghe e sottili, mani da intellettuale: ma anche ben sudice di terra e di lubrificante, mani da contadino o da meccanico. “Anche nelle vigne, materialmente, lavora lei?” “Certo, materialmente. Questo lavoro è anche materiale.” “Ma lei ha studiato, no? Ha studiato agraria?” “La studio adesso. Mi laureo tra un anno, a Roma. Ma ho fatto la pratica prima della teoria. In casa mia si è sempre fatto il vino. Mio nonno e mio padre lo facevano. Ma loro facevano soprattutto grano, frutta, e allevavano bestiame. Al vino, non gli davano molta importanza. Lo vendevano a botti. E non imbottigliavano neanche quello che tenevano per berlo loro stessi, in famiglia e con gli amici. Quello, lo tenevano in damigiane. Finito il liceo, io ero deciso a occuparmi della campagna. Era la sola cosa che mi piaceva, coi cavalli e coi cani. Ma mio padre si opponeva e mi fece iscrivere a legge. Mio padre morì nel ’68, io avevo diciotto anni. Dopo un anno, d’accordo con mia madre, non andai più all’università e mi dedicai al vino, sempre d’accordo con mia madre e anzi col suo aiuto. Poi l’anno scorso è mancata anche mia madre, e da allora faccio tutto da solo.” “Non ha mai preso un enologo?” “No. Un po’ già sapevo e sapeva mia madre. Poi parlavo coi contadini di qui e leggevo libri di vitivinicoltura. Era il momento che in Italia cominciava il boom del vino. Bisognava imbottigliare e non ne avevamo il coraggio, non avevamo nessuna fiducia. Sa che cosa ci fece decidere? Una combinazione, un caso fortunato. Un giorno, lavorando a uno scasso... proprio lì, guardi, dove vede quella vigna... trovammo una bottiglia sepolta. Era un terreno che non si coltivava da qualche tempo. Una bottiglia sepolta e ben tappata. Quando i contadini lavorano alle vigne, si portano dietro la colazione, pane formaggio vino. Si vede che avevano dimenticato quella bottiglia. Mi fu facile fare il calcolo. Quel terreno era stato dissodato l’ultima volta quattro anni prima. Quella bottiglia, dunque, conteneva un vino vecchio di almeno cinque anni. Lo provammo. Era buonissimo. E fu così che incominciammo a imbottigliare e a vendere imbottigliato.” “Quando accadde?” “Nel ’69/’70.” “Quanto terreno ha?” “Venti ettari. Ma solo sei sono a vigna.” “E quanto vino fa?” Saltò giù dal trattore e disse con orgoglio: “Faccio un solo tipo di vino. Quello che ho chiamato Almonte. Ne faccio 250 ettolitri. Ma spero di arrivare a 400 e forse più.” Questa risposta mi sbalordì e mi entusiasmò. 250 ettolitri sono una quantità ridicola e spregevole per la grandissima maggioranza dei produttori italiani, compresi purtroppo molti dei migliori. Dieci volte di più, cioè 2500 ettolitri rappresentano per loro sempre una bazzecola. Cento volte, ossia 25.000, il minimo traguardo desiderabile. Cominciai dunque a guardare con profonda ammirazione Ugo Vagniluca, fiero dei suoi 250 e del suo unico tipo di vino. Ecco chi ha i piedi per terra! Ecco chi crede ! L’avvenire non può non essere suo. più nella realtà del vino che non nella realtà del denaro “Ginevra Bompiani mi aveva parlato del suo vino.” “Non la conosco.” “Ma io ho provato l’Almonte per la prima volta solo ieri pomeriggio. Una bottiglia che ho comprato in piazza, a Todi, e che ho assaggiato insieme al professor Orsini. Naturalmente l’ho trovato buono, se no non sarei qui. Ma anche misterioso.” “Misterioso? Perché?” “Ma sì, diverso da tutti gli altri vini di qui. Mi dica i vitigni.” “Sangiovese 50%, Merlot 20%, Barbera 20%...” “Barbera!? Ecco spiegato il mistero. Sentivo qualcosa di diverso da tutti i vini umbri, toscani, marchigiani, abruzzesi... qualcosa di più acuto, più allegro e più rustico. Il profumo del Barbera. Ma è un’invenzione sua o di suo padre, questo Barbera?” “Vede, da noi, in tutta la zona, fino a Orvieto, è tradizione di mescolare al Sangiovese un Merlot, un Cabernet, un Gamay, un Barbera... Così faceva mio padre, aggiungendo al Sangiovese 20% di Merlot e 20% di Barbera. Poi abbiamo piccole percentuali, un 8% di Montepulciano e un 2% di Trebbiano Toscano. La proporzione delle uve è già fatta in vigna. Ogni vigneto ha la sua, fissa, a filari. Per esempio, per ogni quattordici filari di Sangiovese ce ne sono sei di Barbera.” “Posso vedere?” Ci incamminiamo, entriamo nelle vigne. Prima cosa, gli dico del mio stupore che non abbia ancora vendemmiato: “Vedo che ritarda, eh? Eppure le uve mi sembrano mature...” “Un vecchio adagio da noi dice: ‘Quando l’ape cerca l’uva, è tempo di fare il vino.’ Ma io vendemmio e pigio sempre tardi: mai prima della fine di ottobre e mai dopo la fine di novembre: secondo le annate. Certo, vendemmiando prima si fa vino in maggiore quantità. Vendemmiando dopo, si fa una qualità migliore: cioè un vino un po’ dolce, quasi passito, e quindi più alcoolico. Ecco perché io aspetto a vendemmiare. Naturalmente, è difficile aspettare. Bisogna ogni giorno ispezionare le vigne, tagliare i grappoli marci e, prima di pigiare, selezionare, eliminare ancora. Difficile, infine, decidere aspettare. Se viene a piovere forte, si perde il raccolto. È un gioco d’azzardo tutte le volte: angoscioso, ma anche divertente. Quest’anno mi trovo in una situazione paradossale: secondo me sarebbe già ora di vendemmiare, ho una paura blu che piova, ma non posso vendemmiare perché ormai ho adibito a magazzino il vecchio locale dove fino all’anno scorso si pigiava e avveniva la prima fermentazione, e ho fatto costruire una nuova cantina. Ho calcolato i tempi con un margine che mi garantiva da qualunque sorpresa. Ma è successo che la cantina nuova è finita da mesi... è quell’edificio che lei ha visto qui in alto, immediatamente sotto il castello: come lei avrà notato, manca ancora il tetto. Il contratto con l’impresa parla chiaro, ma ci sono stati gli scioperi. Se piove prima che mi coprano il tetto, sono fregato.” fino a quando E rideva aspramente come se provasse un certo piacere non a essere fregato, ma a correrne il rischio: “Ritardo, sì. Ma non è che voglio ritardare. ritardare. Appena vendemmiato, pigio, diraspo. Poi pompo nelle cisterne. Nella cantina nuova c’è posto per ventidue cisterne. Una quindicina, sono già pronte: non sono tini, ma cisterne chiuse. Quindi non è necessario follare. Le pompe il mosto per cinque o sei giorni, al massimo sette. Poi svuoto le cisterne, il vino esce senza bucce. Poi, a parte, torchio le bucce e il torchiato lo ricaccio dentro il vino: gli ridà corpo e colore. Pompo tutto quanto in botti. A febbraio o a marzo faccio il primo travaso. Durante il primo anno di botte, faccio quattro o cinque travasi. Il secondo anno, tre. Dopo due anni, imbottiglio. Il vino viene di solito sui 14 gradi, poco più poco meno. È di un rubino cupo. Invecchiando .” Mi fanno rimontano mattoneggia “E dove lo fa invecchiare?” “Le botti da invecchiamento sono nella casa rossa, un edificio dell’Ottocento, su in alto, attiguo al castello. Le bottiglie, invece, sono nel castello vero e proprio: in sotterranei del secolo XIII. Adesso le farò assaggiare il ’70. Una bottiglia di cinque anni.” “Mi pare che lei lavori con la passione di un hobby, ma non per hobby. Come fa a venderlo?” “Una piccola parte, la vendo ad amici, a gente che mi conosce. La maggior parte, la vendo a Roma: al negoziante Trimani di via Goito o direttamente all’albergo Fenix. Non faccio il vino per guadagnare, ma, facendolo, guadagnare, perché per farlo ho una quantità di spese. Non è un hobby, no, è qualche cosa di più. Anche perché hobby ne ho di già, ne ho due: i cavalli, e i cani.” devo “E dove li tiene?” “Adesso glieli faccio vedere. Li tengo qui. Cavalli saltatori, da steeplechase. Li allevo e li istruisco io stesso. Li monto tutti i giorni alternandoli col vino. E mi piacciono i Dobermann. Per adesso ne ho soltanto uno, che si chiama Argo.” I (Denominazione di Origine Controllata) come un marchio d’infamia che però si può rovesciare: l’ho capito scoprendo l’Almonte di Vagniluca, vino meravigliosamente ignoto. DOC L’Almonte è un vino di grandissima classe. Vino da arrosto, serio, vibrato ma perfettamente equilibrato. Con un gusto inconfondibilmente suo ma classico. Possiede qualcosa che manca a molti dei rossi più celebrati, vedi certi Brunello di Montalcino, vedi certi Nobile di Montepulciano. Perché l’Almonte possiede quella punta di stranezza, di originalità e, diciamo pure di rischio, che sola può completare un vino in modo che lo si beva con piena soddisfazione. La dobbiamo alla componente del Barbera, quella punta? Certo, l’Almonte è ignoto: o quasi ignoto. Ma se un giorno diventasse noto, presto, subito dopo, sarebbe la sua fine. Come accade per tutti i vini. Chiaro che, in questo caso, dicendo “vini”, non mi riferisco a tipi di vino in generale, cioè non al Brunello, al Nobile, al Chianti, al Barolo, al Valpolicella ecc. Ma mi riferisco a vini ciascuno col nome e cognome: il luogo (in questo caso Frontignano frazione di Todi), il (in questo caso, Almonte), il produttore (in questo caso Ugo Vagniluca). Ecco perché i quattrocento, mettiamo pure cinquecento quintali che Vagniluca si propone, non dovrebbero mai essere superati. Ed ecco perché i vini veri devono restare quasi ignoti appunto per restare veri. cru Ho fatto la prova del nove. Ho cercato in tutti i cataloghi, in tutti gli elenchi, in tutti i libri. L’Almonte non c’è da nessuna parte. Nessuno lo conosce. Ma è proprio questa (che nessuno lo conosce) la sua garanzia. E quando vedo, in cotesti cataloghi ed elenchi, che gli unici rossi umbri a Denominazione di Origine Controllata sono quelli di una certa zona dei Colli del Trasimeno, riconosciuta ufficialmente nel 1972 – e quelli di una certa zona di Torgiano, riconosciuta ufficialmente nel 1968 –, allora mi metto a ridere. Ma poi, subito dopo, ripensandoci, non rido più: i bollini , di cui notoriamente, come abbiamo visto, si fa ignobile commercio in tutta Italia, servono pure a qualcosa. Sono un marchio utilissimo: un marchio d’infamia. DOC Il , dunque, indica i vini da evitare in ogni caso o quasi in ogni caso. , sì, perché se un vino va bene il marchio , allora è un segno infallibile della sua classe. DOC Quasi malgrado DOC Come è stato bravo il Ray a intuirlo: “In Umbria c’è qualcosa dell’ dell’Italia.” Sì, in Umbria, simbolo dell’Italia, troviamo gli esempi più orrendi della truffa : ma sempre in Umbria e proprio a Todi, centro vero dell’Umbria e ombelico dell’Italia, troviamo l’Almonte di Ugo Vagniluca, l’esempio più meraviglioso di un perfetto vino artigianale. essenza DOC Senonché, si tratta di una scoperta personale e fortunata, che riguarda me solo, anche se mi pare simbolica di tutta l’Italia: proprio perché l’Almonte è ignoto o quasi ignoto, io sono sicuro che nella stessa Umbria e in tutta l’Italia esistono tantissimi altri vini egualmente ignoti o quasi ignoti, ed egualmente meravigliosi. Auguro a ciascuno dei miei lettori la pazienza di cercare e la fortuna di trovare.