Alla ricerca del Gragnano perduto. Mio lungo errare nei vicoli di Napoli. Forse il Gragnano è là, sulla tavola di qualche “basso”, ma non oso informarmi. Un malinconico epicedio di Gino Doria sui vini “d’antan”.
Eppure, il vero Gragnano, ricordavo esattamente dove lo avevo trovato, la prima volta, e nei primi tempi.
Era da Don Luigi, vicolo secondo del Teatro Nuovo, traversa di Toledo, a sinistra per chi viene da piazza San Ferdinando. Una cantina, un cantinone: si scendeva sottoterra una dozzina di scalini, forse più. Damigiane, botti e bottiglie: pura bottiglieria. Il vino, lo si veniva a prendere col fiasco. Don Luigi lo spillava direttamente dalla botte. Oppure, si compravano le bottiglie tappate: Gragnano di due o tre anni. E quando lo si voleva bere lì, in mezzo alle botti, e perciò si voleva anche mettere qualche cosa sotto i denti (il Gragnano è soprattutto un vino da pasto), bisognava portarsi, o mandare a comprare, la pizza, il panino, la cartata di fave col pecorino: secondo i gusti e la stagione.
Questo accadeva durante la guerra, quando Napoli ospitava tutto un grande esercito, e a breve distanza dal fronte: dai primi d’ottobre del ’43 ai primi di giugno del ’44, nove mesi di cataclisma. Perché, sì, ho vissuto a Napoli senza interruzione proprio quei nove mesi, e proprio allora ho imparato a conoscerla e ad amarla: la più sorprendente, la più stupefacente, la più umana città del mondo. Così che, dopo di allora, non seppi più staccarmene: cominciai a tornare a Napoli negli anni immediatamente successivi, quasi illudendomi, ogni volta, di ritrovarvi quella libertà, quell’allegria, quella confusione vitale con cui la città aveva reagito alla confusione disperata della guerra. Anche il Gragnano, mi illusi di ritrovarlo, di ritrovarlo senza neppure andare da Don Luigi, senza l’inconveniente, per berlo, di rinunziare a un pasto regolare: lo stesso vino, forse, le stesse bottiglie, forse, le avevo scoperte in una piccola trattoria non lontana. Le avevo scoperte da un oste che era, o che si diceva, parente stretto di Don Luigi, e che, per il vino, appunto da Don Luigi si riforniva, o diceva di rifornirsi.
Reliability è una parola inglese, a cui manca l’esatta corrispondente italiana. “Attendibilità” è il vocabolo meno lontano, non volendo ricorrere a perifrasi. Se, poi, si allude all’attendibilità dei napoletani, bisogna dire che, contrariamente a quanto se ne pensa, essa esiste, ma non riguarda mai, o quasi mai, le circostanze, i fatti, le cose: riguarda soltanto, o quasi soltanto, i sentimenti e le idee. L’oste voleva farmi cosa grata: ecco il suo sentimento, e in questo non mentiva. A Don Luigi l’oste era amico, era come uno stretto parente: ecco la sua idea, e non mentiva neanche in questa. Infine, la circostanza materiale che quel Gragnano fosse vero Gragnano, non parve, neanche a me, in nessun momento, che si dovesse negare. Ma che fosse lo stesso Gragnano di Don Luigi, dubitai fin dal primo momento: ci passai sopra perché la cucina dell’oste era squisita: oggi il dubbio rimane, e non è più in mio potere risolverlo. In ogni caso, è probabile che si sia trattato di una lenta degradazione: di quella stessa fatale decadenza che, dopo avere raggiunto la vetta del rendimento e dopo esserci rimaste per un periodo abbastanza lungo, pochissime aziende, ristoratrici o vinicole, sanno evitare. Probabile che in principio, subito dopo la guerra, quel Gragnano sia stato ottimo, anche se non veniva “da Don Luigi”; e che poi, a poco a poco, di anno in anno, le bottiglie siano state rimpiazzate da altre sempre meno buone: finché, un brutto giorno, diventarono addirittura imbevibili, e allora anche la cucina della piccola trattoria appartenne definitivamente al passato.
Ma io volevo ritrovare il Gragnano. Che cosa potevo fare? Sono tornato, l’altro giorno, al vicolo secondo del Teatro Nuovo. Follemente, ho scrutato, palpato, accarezzato le mura delle vecchie case, per vedere se riuscivo a scoprire, sotto gli intonaci di ogni età e colore, tra le connessure delle pietre o dei mattoni, l’ingresso della cantina, l’invito degli scalini che scendevano sottoterra così profondamente. Don Luigi e il suo Gragnano non c’erano più, va bene: ma dove, dove esattamente, erano stati? Talvolta accade che un negoziante o un artigiano si trasferisca in un locale vicinissimo a quello che abbandona. Con questa speranza, percorsi tutto il vicolo del Teatro Nuovo e cominciai ad aggirarmi nei vicoli vicini: si levavano alle loro strette fessure di cielo pavesati di panni, e troppo simili gli uni agli altri perché un ospite saltuario come me potesse distinguere le tracce precise del tempo, i segni delle modificazioni e dei precedenti insediamenti. I bassi a cui mi affacciavo, e dove, passando, intravedevo nell’oscurità, confusamente e indifferentemente, letti disfatti, tavole apparecchiate, cucine, macchine da cucire, deschi di ciabattini, laboratori di piccoli artigiani, gente all’opera o gente in riposo, giocatori di carte, famiglie a mensa, donne che si pettinavano, e talvolta, sulle soglie, trespoli con su vassoi colmi di frittelle, sfogliatelle, pastiere, o catini di ceramica verde con fichi d’India e limoni immersi nell’acqua, suggerivano, tutti insieme, l’immagine mostruosa di una vitalità brulicante e inconsapevole, come potrebbe essere quella di foraminiferi, rizopodi, eliozoi nei loro abitacoli minerali, nei loro guscetti calcarei. Era, insomma, la vitalità di Napoli, la stessa che avevo imparato a conoscere durante la guerra, e che si perpetuava oggi: qualche volta, ancora, come conseguenza della miseria, ma più sovente anche se la miseria era stata superata, come si poteva dedurre dal gran numero di televisori, frigoriferi, lavatrici, e dalla straordinaria abbondanza di cibarie che intanto cuocevano sui fornelli quasi dovunque, poiché l’ora del mezzogiorno si avvicinava.
Mi pareva impossibile che non dovessi ritrovare, se non Don Luigi, un negozio qualsiasi di vinaio che smerciasse ancora il tradizionale vino dei veri napoletani; a più riprese mi trattenevo dall’affacciarmi a uno di quei bassi dove già si stava a pranzo, e dal domandare, indicando la bottiglia sul tavolo, se quello fosse Gragnano.
Oppure, aveva ragione Gino Doria, che pochi mesi prima, a colazione “da Giovanni”, in via Domenico Morelli, mi aveva solennemente e tristemente comunicato come il Gragnano non esistesse più: “Il migliore era quello di Lèttere, un piccolo comune, quattro case sparse sopra Gragnano. I vigneti, forse, ‘ce stanno ancora’. Ma chi si dà la pena di fare il vino? E chi, ammettendo che qualcuno lo faccia ancora, chi si dà la pena di trasportarlo a Napoli e di venderlo? Chi lo cerca, chi lo vuole ancora? Chi si ricorda che esisteva?”