Nelle provincie di LA SPEZIA, GENOVA, SAVONA, IMPERIA

Grande è il piacere di chi, in un lungo viaggio, a un certo momento può includere un luogo che lui conosce o addirittura quello in cui vive.

Per i vini della Liguria di Ponente sapevo quel poco che Pino Sola, a Genova, mi aveva insegnato col dono di un campionario exclusive e miracoloso. Ma dei vini della Liguria di Levante, sapevo tutto o quasi tutto: per viaggiare nella provincia della Spezia posso anche restare nel mio studio e scegliere tra i miei ricordi, quando ci venivo solo d’estate.

Guidato da Mario Spagnol, a Castelnuovo Magra scopro il mitico “vino del Generale”. Medaglia d’oro del Sabotino, l’ufficiale vide per l’ultima volta il proprio viso in uno specchietto del Fernet Branca, poi uno shrapnel...

Da anni, nella zona del golfo, da Bocca di Magra alla Palmaria, sentivo parlare del “vino del Generale”. Me ne parlavano non compagni di villeggiatura, ma amici qui residenti tutto l’anno. Qualcuno l’aveva provato, il vino del Generale, lo aveva personalmente assaggiato. Qualcun altro, a sua volta, ne aveva soltanto udito parlare. Ma il giudizio, diretto o indiretto, pareva concordemente entusiasta: bianco secchissimo, genuino, non debole, un unicum che presentava i pregi e non i difetti, le garanzie e non i pericoli, dei migliori “nostralini”, ossia dei migliori vini artigianali pigiati sul posto. In più, il Generale, si diceva che producesse del Barbera: e anche su questo piccolo miracolo geoponico le lodi concordavano senza riserva. Potete dunque pensare se, fin dal principio, non abbia cercato di risalire alla fonte: di rintracciare anch’io lo straordinario produttore. Ma, stranamente, nessuno di codesti celebranti era in grado di ragguagliarmi fino in fondo. Il nome del Generale era loro ignoto: ignota, perfino, la dimora sua e delle vigne. Chi diceva Sarzana e Sarzanello, chi Ponzano o Bolano, chi Santo Stefano. “Stranamente” ho detto, e ho sbagliato. Avrei dovuto dire “normalmente”, perché la ricerca di ciò che vale (un vino vero, un esempio di bellezza, una testimonianza di bontà) è sempre difficile, faticosa, fortunosa: assomiglia alla ricerca di una pianticella di quadrifoglio in un breve prato dove siamo tuttavia sicuri di averla scorta, l’istante prima che qualcosa ci distraesse. E passavano, così, i mesi e gli anni. Ogni tanto, col tintinnio dei cristalli o con l’acciacchio dei parigini, mi risuonava intorno la lode del vino del Generale: ma io avevo preso l’abitudine di non crederci più, se non come a una leggenda.

Quand’ecco, un giorno di giugno, nell’euforia di un mezzogiorno-di-venerdì-in-un-ufficio-milanese, l’amico Mario Spagnol, autentico lericino, improvvisamente mi invitava a Castelnuovo Magra, nell’antico palazzo Cecchinelli, dove avremmo gustato gli eccezionali vini prodotti dall’attuale erede dei Cecchinelli, il Generale Giorgio Tognoni. Poche domande e poche risposte erano sufficienti a persuadermi che non si trattava d’altri se non, appunto, del mitico Generale. “Fa un Barbera meraviglioso” disse infine Spagnol, e fu il suggello.

Castelnuovo, su un poggio e circondato da uliveti, frutteti, vigneti, guarda, con amplissimo panorama, verso sud, sulla pianura di Luni e sulla lontana marina e verso nord ai monti della Val di Magra e alle Alpi Apuane. Vi si giunge deviando dall’Aurelia poco dopo Sarzana: quattro chilometri di una bella strada che sale solitaria a tornanti in mezzo agli ulivi.

È curioso come questa strada, e la posizione stessa di Castelnuovo ricordino Portovecchio nella Corsica meridionale. Anche l’origine delle loro mura e torri, tra genovesi e pisane, secolo XII, è la stessa. Ma quanto più nobile, quanto più civile e grandioso il nostro borgo! Il visitatore si addentra sorpreso nei vicoli e nelle piazzette deserte: sosta davanti ai palazzi secenteschi, chiusi ma vivi dentro, come dimostrano e i massicci portoni e le potenti inferriate dipinti di fresco; ammira la nudità incorrotta delle antiche pietre; ascolta l’alto, riposante silenzio della campagna intorno. Gli si allarga il cuore. E, forse, gli viene fatto di considerare che, con tutto il boom del turismo e del consumismo, luoghi come questo, mondi da qualsiasi volgarità piccolo-borghese, non sono affatto rari nell’Italia d’oggi. Basta un po’ d’amore per la storia, ai frequenti bivii con strade minori. Basta un po’ di fede letteraria, piccole frecce e piccoli cartelli, nei vecchi famosi nomi.

Arrivammo ai bastioni di Castelnuovo nell’estrema luce del crepuscolo estivo. Era un sabato. Chiedemmo del Generale Tognoni ad alcune ragazze leopardiane che scendevano attraverso gli ulivi, liete nell’imminenza della sera festosa, affrettandosi a uno dei borghi della pianura, Aglione, Palvotrisia o Caniparola. Ci dissero di continuare, entrare in paese e, lassù, chiedere: tutti avrebbero saputo indicarci la casa del Generale. Ma poi, al primo spalto, ci viene incontro un soldato: sale sulla macchina offrendosi per guida. E finalmente, sulla soglia del solenne palazzo, il più alto di Castelnuovo, l’ultimo prima della torre, ecco ad attenderci, con a fianco la moglie, eretto, canuto, magro, sorridente, il Generale in persona.

Aveva il bastone e gli occhiali neri. Medaglia d’oro del Sabotino (21 ottobre 1915), uno dei primi ciechi dell’altra guerra, Tognoni è stato, per oltre quarant’anni, presidente dell’Istituto dei Ciechi di Guerra; e prestava ancora, malgrado l’età, servizio attivo al Ministero.

L’antico palazzo dei Cecchinelli, da cui i Tognoni discendono in via femminile, si addossa agli spalti di Castelnuovo: di modo che i saloni terreni, a livello con la strada e, in fondo, all’interno, con il giardino, si aprono però, a oriente, con tutte le loro finestre, sulla profondità delle valli boscose e sui dossi ricoperti di vigneti e uliveti che scendono digradando fino all’Aurelia.

Lo stesso giardino è come una grande terrazza: pergole, vialetti, siepi, aiole fiorite si dipartono dai contrafforti della fortezza medievale e raggiungono, secondo geometrici spazi e graziosi disegni, il parapetto a picco sulla vallata. A prima vista, tutto ha un’aria apparentemente modesta, si direbbe “l’orto della Canonica”: ma presto, nell’estensione delle misure e nel pregio delle piante e dei fiori, si avverte una bellezza delicata e segreta, effetto di lunghi pensieri e di costanti cure. In un angolo che il muragliene fa col palazzo, e al riparo di un tettuccio di stuoia, è imbandita su un tavolo tondo di pietra la cena dei vini: ossia pietanze pensate, calcolate e graduate in ordine all’assaggio dei vari vini. Un enologo riferirebbe, di ciascuno di questi, l’esame organolettico, elogiandoli tutti. Per mio conto, senza dimenticare il barbera (che chiamo così al maschile, appunto perché non è piemontese, e che, certamente, se lo dice il Generale, è pigiato da uve barbera, e che è squisito, ma non assomiglia alla barbera), do la palma al Linero, che è appunto quel bianco secchissimo di cui avevo sentito parlare: bianco ma di corpo, profumato e sostanzioso, ricavato da uve Trebbiano e Vermentino, non so più in quali proporzioni. Ma, a che vale la tecnica? Devo ancora ripetere che il vino buono e vero è come una persona che non si giudica se non con l’amore, e che riflette in qualche modo tutto ciò che gli ha dato vita, e il luogo, e il giorno, e l’ora dell’incontro?

Ho bevuto, dopo quella notte, molte bottiglie di Linero. Anche oggi ne ho bevuta una. Ma non potrò mai separare quel gusto schietto e vivo, senza alcun sospetto di acido o di dolce, dalla serena conversazione del Generale. Avevano spento, una dopo l’altra, tutte le luci del palazzo. Brillavano quelle dei villaggi, sui neri dossi di là dalla valle, verso Casana, Lama, Ortonovo. Egli, nell’oscurità cresciuta, sul finire della lenta e asciutta cena (focacce rustiche, arrosti freddi, formaggette caprine, sublimi insalate amarognole), cominciò a dire della sua vita, e a raccontarne minutamente l’episodio principale. Come, da sottotenente, perdette la vista per lo scoppio di uno shrapnel, scattando dalla trincea all’attacco delle posizioni nemiche, alla testa del suo plotone. “Ci sono di quelli che si lamentano della vita anche quando non avrebbero, per lamentarsi, nessuna giustificazione seria: miseria, malattie, morte di persona cara. Ci sono di quelli che, come si dice oggi, contestano per principio che l’esistenza sia un bene. Io ho racchiuso in un piccolo disco tutto il ricordo di un me stesso perduto per sempre: la mia immagine come la vidi l’ultima volta, forse pochi minuti prima dell’attacco, in uno di quegli specchietti rotondi incorniciati di celluloide, che si tenevano nel taschino del gilè, e che avevano dall’altra parte la réclame del Fernet Branca. E tutto è ancora lì, lì mi vedo ancora: il mio volto a vent’anni. Mi sono abituato, di allora, a non ricordare altro. Ma sono felice lo stesso. Ma ogni giorno e ogni ora benedico Iddio, e ringrazio di essere vivo. Senta, adesso, per finire, questo Sciacchetrà.”