Asti. Un vino prezioso di Bruno Giacosa: l’Arnèis, vino che non stanca. Giacosa continua a stappare bottiglie con faville di follia nello sguardo, come un artista consapevole dello scopo ultimo dell’arte: una sublime inutilità.
Una curiosità acuta, quando finalmente lasciai la Genova-Milano per la Tortona-Torino, dominava ogni mio altro pensiero. Un nome, Arnèis, mi aveva colpito. Arnèis: un bianco asciutto ancora famoso verso la fine del secolo scorso ma oggi introvabile: e che, in ogni modo, non avevo mai incontrato.
Quella curiosità non lasciava spazio se non allo studio dei più rapidi mezzi per soddisfarla: e doveva essere quasi frenetica se, poi, non lasciò spazio neanche alla memoria di come riuscii a soddisfarla. Avevamo stabilito il nostro quartier generale al vecchio Albergo Reale di Asti per un doppio motivo: Asti era il centro logistico dell’intera regione che dovevamo perlustrare, ed era anche il luogo dove, al CAR della Caserma Colli di Felizzano, nostro figlio Michele, appena rientrato dalla California dopo tre anni di studi, faceva il suo servizio militare.
Non ricordo più come, di buon mattino, appena arrivammo all’Albergo Reale, scoprii che a Neive, un paese tra Asti e Alba, la casa vinicola di Bruno Giacosa, “produttore e invecchiatore di vini”, si era messa, proprio recentemente, a fare l’Arnèis.
Dopo mezz’ora, insieme a mio figlio che ha ottenuto una licenza straordinaria, siamo a Neive.
Una bottiglia di Arnèis è davanti a me, in questo momento, mentre scrivo, molti mesi dopo: e riflette, in qualche modo, l’incantevole sorpresa del primo momento in cui, salendo al primo piano del villino dove Bruno Giacosa vive, vinifica, invecchia, la vidi isolata su un lungo tavolo di marmo.
Per telefono avevo detto a Giacosa “Arnèis” e lui aveva preparato la bottiglia.
Non credo di aver mai visto un’etichetta di altrettanto buon gusto. Color crema chiaro, con fregi neri e oro, e antichi caratteri bodoniani, alternativamente corsivi e tondi, disposti secondo la più armoniosa grafica settecentesca. Chiaro che Giacosa deve essersi ispirato ai meravigliosi frontespizi del grande saluzzese.
Ho già detto più volte che l’etichetta ha una funzione esclusivamente negativa. Il vino non è mai buono grazie all’etichetta, bensì malgrado l’etichetta. Quei marchi, quei fregi, quei nomi, anche se reputatissimi, non contano mai niente. Qualunque più celebre vino, anche se identificabile attraverso le più meticolose precisazioni, località, vitigno, vigneto, produttore, ecc. ecc., può, per una ragione o per l’altra, e magari per cause contingenti, risultare pessimo. Quando poi, addirittura, come questa volta, l’etichetta è un piccolo capolavoro tipografico, bisogna diffidarne ancora di più. Basta: non mi sarei dilungato in questi preamboli se l’Arnèis non avesse superato la prova trionfalmente.
Le informazioni di Giacosa coincidono con quelle fenologiche dell’ampio saggio dedicato all’Arnèis da Giuseppe dell’Olio e Roberto Macaluso nel quarto volume del grande trattato del Cosmo: “Vitigno tipicamente cuneese, l’attuale coltivazione dell’Arnèis si estende oasistica sulla sinistra del fiume Tanaro, negli ex-circondari di Canale-Alba, e interessa soprattutto la cosiddetta zona dei Roeri: Santo Stefano Roero, Monteu Roero, Montaldo Roero, Baldissero, spingendosi fino a Corneliano, Monticelli e Piòbesi d’Alba.”
I Roeri sono, anche, una zona elettiva del vitigno Nebbiolo quando, nella provincia di Cuneo, non produce vini che portino la denominazione di Barolo o Barbaresco, ma appunto un vino chiamato semplicemente Nebbiolo. Non stupisce perciò che “Nebbiolo Bianco” sia un sinonimo vero e lecito dell’Arnèis.
Da una cinquantina di diversi piccoli proprietari, tutti nei Roeri, Bruno Giacosa ogni anno compera cinquanta quintali di uve e ne ricava 7500 bottiglie, su ciascuna delle quali stampiglia un numero progressivo.
Dice che ormai si tende a coltivare l’Arnèis sempre meno, perché la resa è poca, i grappoli scarsi, gli acini piccoli. Lo lascia fermentare senza bucce, e opera molti travasi.
Assaggiamo. Arnèis ’74, gradi 12. Profumatissimo ma con estremo garbo: non di frutta ma di fiore, una fragranza amarognola, come di geranio. E così il sapore, che subito mi entusiasma. Perché l’aroma di fiori mi ricorda naturalmente il Pinot Grigio di Gradnik nel Collio, e lo stesso Vermentino di Ghersi, ma col grande vantaggio di una minore gradazione alcoolica. Sì, è un grande vantaggio: se ne può bere di più, e anche normalmente, non soltanto sugli antipasti.
Un vino che non stanca. Se potessi, ordinerei ogni anno 365 di quelle 7500 bottiglie. Mia moglie e mio figlio sono d’accordo. Ma Giacosa fa altri vini. Non abbiamo ancora finito l’Arnèis e lui già sparisce in cantina poi ritorna con un cestello di bottiglie, le allinea sul marmo, le stappa.
Dolcetto cru Basarin, di Treiso, un paese su un alto colle, a cinque chilometri da qui. Anno 1974. Gradi 12. Si sa com’è il Dolcetto: un profumo nascosto, quasi malinconico. Ma anche, questo come l’Arnèis, un vino perfetto per berne a pasto.
Poi, Nebbiolo dei Roeri: 1971, gradazione 13,5. Delicatissimo. Osservo Giacosa mentre, adagio, stappa: nella diligenza della operazione, il suo volto gentile e giovanile, roseo sotto la lucida chioma corvina, ha qualcosa di morbido e delicato, come il gusto dei suoi vini: senonché, quando ci porge i bicchieri, mi pare di indovinare, nel suo sorriso e, più, nel suo sguardo, una espressione lievemente eccitata, una favilla di follia. Vi ravviso un segno. Di che cosa? Ma lo stesso di ogni autentica vocazione, artistica o artigianale! Probabilmente, per fare con tanta ostinata cura il vino buono, bisogna essere un po’ folli. Qualcuno, di questa follia, non se ne lascia accorgere, e qualcuno invece sì. Barbera di Serralunga d’Alba, verso Monforte. Anno 1971, gradazione 14. Secondo me sa leggermente di feccia, forse è rimasto troppo sul fondo. La stessa Barbera, del ’74, è invece netta, dura, un po’ aspra.
Barbaresco di Santo Stefano di Neive, cru Asili di Barbaresco. 1970. Gradazione 14,5.
Barolo della Vigna Rionda di Serralunga... Ma ho perso il conto. E intanto Giacosa passa all’antiquariato: strane bottiglie polverose e coperte di ragnatele: le stappa non perché le beviamo. Un Barbaresco del 1895. Una Barbera Fassetto del 1892! Fassetto è la piccola stazione della ferrovia, proprio sopra Barbaresco. L’uno e l’altro sono diventati bianchi. Acidificati. Ma un profumo etereo, inebriante. Si capisce che erano deliziosi. E, continuando a stappare, Bruno Giacosa sorride stranamente felice. Tocca, a suo modo, lo scopo ultimo dell’arte: una sublime inutilità.