Nelle provincie di CUNEO, ASTI e ALESSANDRIA Asti. Un vino prezioso di Bruno Giacosa: l’Arnèis, vino che non stanca. Giacosa continua a stappare bottiglie con faville di follia nello sguardo, come un artista consapevole dello scopo ultimo dell’arte: una sublime inutilità. Una curiosità acuta, quando finalmente lasciai la Genova-Milano per la Tortona-Torino, dominava ogni mio altro pensiero. Un nome, Arnèis, mi aveva colpito. Arnèis: un bianco asciutto ancora famoso verso la fine del secolo scorso ma oggi introvabile: e che, in ogni modo, non avevo mai incontrato. Quella curiosità non lasciava spazio se non allo studio dei più rapidi mezzi per soddisfarla: e doveva essere quasi frenetica se, poi, non lasciò spazio neanche alla memoria di come riuscii a soddisfarla. Avevamo stabilito il nostro quartier generale al vecchio Albergo Reale di Asti per un doppio motivo: Asti era il centro logistico dell’intera regione che dovevamo perlustrare, ed era anche il luogo dove, al della Caserma Colli di Felizzano, nostro figlio Michele, appena rientrato dalla California dopo tre anni di studi, faceva il suo servizio militare. CAR Non ricordo più come, di buon mattino, appena arrivammo all’Albergo Reale, scoprii che a Neive, un paese tra Asti e Alba, la casa vinicola di Bruno Giacosa, “produttore e invecchiatore di vini”, si era messa, proprio recentemente, a fare l’Arnèis. Dopo mezz’ora, insieme a mio figlio che ha ottenuto una licenza straordinaria, siamo a Neive. Una bottiglia di Arnèis è davanti a me, in questo momento, mentre scrivo, molti mesi dopo: e riflette, in qualche modo, l’incantevole sorpresa del primo momento in cui, salendo al primo piano del villino dove Bruno Giacosa vive, vinifica, invecchia, la vidi isolata su un lungo tavolo di marmo. Per telefono avevo detto a Giacosa “Arnèis” e lui aveva preparato la bottiglia. Non credo di aver mai visto un’etichetta di altrettanto buon gusto. Color crema chiaro, con fregi neri e oro, e antichi caratteri bodoniani, alternativamente corsivi e tondi, disposti secondo la più armoniosa grafica settecentesca. Chiaro che Giacosa deve essersi ispirato ai meravigliosi frontespizi del grande saluzzese. Ho già detto più volte che l’etichetta ha una funzione esclusivamente negativa. Il vino non è mai buono all’etichetta, bensì l’etichetta. Quei marchi, quei fregi, quei nomi, anche se reputatissimi, non contano mai niente. Qualunque più celebre vino, anche se identificabile attraverso le più meticolose precisazioni, località, vitigno, vigneto, produttore, ecc. ecc., può, per una ragione o per l’altra, e magari per cause contingenti, risultare pessimo. Quando poi, addirittura, come questa volta, l’etichetta è un piccolo capolavoro tipografico, bisogna diffidarne ancora di più. Basta: non mi sarei dilungato in questi preamboli se l’Arnèis non avesse superato la prova trionfalmente. grazie malgrado Le informazioni di Giacosa coincidono con quelle fenologiche dell’ampio saggio dedicato all’Arnèis da Giuseppe dell’Olio e Roberto Macaluso nel quarto volume del grande trattato del Cosmo: “Vitigno tipicamente cuneese, l’attuale coltivazione dell’Arnèis si estende sulla sinistra del fiume Tanaro, negli ex-circondari di Canale-Alba, e interessa soprattutto la cosiddetta zona dei : Santo Stefano Roero, Monteu Roero, Montaldo Roero, Baldissero, spingendosi fino a Corneliano, Monticelli e Piòbesi d’Alba.” oasistica Roeri I Roeri sono, anche, una zona elettiva del vitigno Nebbiolo quando, nella provincia di Cuneo, non produce vini che portino la denominazione di Barolo o Barbaresco, ma appunto un vino chiamato semplicemente Nebbiolo. Non stupisce perciò che “Nebbiolo Bianco” sia un sinonimo vero e lecito dell’Arnèis. Da una cinquantina di diversi piccoli proprietari, tutti nei Roeri, Bruno Giacosa ogni anno compera cinquanta quintali di uve e ne ricava 7500 bottiglie, su ciascuna delle quali stampiglia un numero progressivo. Dice che ormai si tende a coltivare l’Arnèis sempre meno, perché la resa è poca, i grappoli scarsi, gli acini piccoli. Lo lascia fermentare senza bucce, e opera molti travasi. Assaggiamo. Arnèis ’74, gradi 12. Profumatissimo ma con estremo garbo: non di frutta ma di fiore, una fragranza amarognola, come di geranio. E così il sapore, che subito mi entusiasma. Perché l’aroma di fiori mi ricorda naturalmente il Pinot Grigio di Gradnik nel Collio, e lo stesso Vermentino di Ghersi, ma col grande vantaggio di una minore gradazione alcoolica. Sì, è un grande vantaggio: se ne può bere di più, e anche normalmente, non soltanto sugli antipasti. Un vino che non stanca. Se potessi, ordinerei ogni anno 365 di quelle 7500 bottiglie. Mia moglie e mio figlio sono d’accordo. Ma Giacosa fa altri vini. Non abbiamo ancora finito l’Arnèis e lui già sparisce in cantina poi ritorna con un cestello di bottiglie, le allinea sul marmo, le stappa. Dolcetto Basarin, di Treiso, un paese su un alto colle, a cinque chilometri da qui. Anno 1974. Gradi 12. Si sa com’è il Dolcetto: un profumo nascosto, quasi malinconico. Ma anche, questo come l’Arnèis, un vino perfetto per berne a pasto. cru Poi, Nebbiolo dei Roeri: 1971, gradazione 13,5. Delicatissimo. Osservo Giacosa mentre, adagio, stappa: nella diligenza della operazione, il suo volto gentile e giovanile, roseo sotto la lucida chioma corvina, ha qualcosa di morbido e delicato, come il gusto dei suoi vini: senonché, quando ci porge i bicchieri, mi pare di indovinare, nel suo sorriso e, più, nel suo sguardo, una espressione lievemente eccitata, una favilla di follia. Vi ravviso un segno. Di che cosa? Ma lo stesso di ogni autentica vocazione, artistica o artigianale! Probabilmente, per fare con tanta ostinata cura il vino buono, bisogna essere un po’ folli. Qualcuno, di questa follia, non se ne lascia accorgere, e qualcuno invece sì. Barbera di Serralunga d’Alba, verso Monforte. Anno 1971, gradazione 14. Secondo me sa leggermente di feccia, forse è rimasto troppo La stessa Barbera, del ’74, è invece netta, dura, un po’ aspra. sul fondo. Barbaresco di Santo Stefano di Neive, Asili di Barbaresco. 1970. Gradazione 14,5. cru Barolo della Vigna Rionda di Serralunga... Ma ho perso il conto. E intanto Giacosa passa all’antiquariato: strane bottiglie polverose e coperte di ragnatele: le stappa non perché le beviamo. Un Barbaresco del 1895. Una Barbera Fassetto del 1892! Fassetto è la piccola stazione della ferrovia, proprio sopra Barbaresco. L’uno e l’altro sono diventati bianchi. Acidificati. Ma un profumo etereo, inebriante. Si capisce che erano deliziosi. E, continuando a stappare, Bruno Giacosa sorride stranamente felice. Tocca, a suo modo, lo scopo ultimo dell’arte: una sublime inutilità. Qualcosa di me vive sempre in Piemonte con battiti affettuosi di cui scopro e riscopro l’origine. Asti, 40 Natali fa. Due bottiglie di Barolo, dono di Gianni Brera. In questo settennale viaggio, soltanto il Veneto e il Piemonte tornano due volte. Anche gli Abruzzi, è vero: ma per un breve capitoletto. A parte la diversità delle provincie, nel ’68 Torino e Vercelli, adesso Alessandria Asti Cuneo, non penso di avere commesso un’ingiustizia. In fondo, sono piemontese. E la mattina, aprendo la finestra sulla piazza di Asti, rossa e triangolare, mi sembra di essere tornato a casa solo adesso: non quando, una mattina di quindici giorni fa, avevo aperto la finestra sugli ulivi i lecci le rocce il mare. Casa provvisoria là, a Tellaro, anche se non penso di andarmene. Casa di sempre qui, in Asti, anche se non mi fermerò mai. Mentre qualcosa di me qui continua a vivere sempre, praticamente io vivo qui solo rare e rapide volte. Perciò, quando mi trovo in Piemonte, ogni istante della mia esistenza si spezza nella dialettica di un confronto tra quanto in me è immobile e quanto in me è mutato e può mutare: si colora della consapevolezza di trovarmi in Piemonte. Finché ci sono, non mi dimentico mai di esserci. Il mio cuore risponde con battiti affettuosi (ma certo, certo; lo so, lo so; è così, è così) a tutto ciò che mi appare o mi risuona intorno. Non c’è nulla che non abbia un altro, un secondo, un riposto significato oltre quello più ovvio e palese: ogni nota vibra profonda, racchiude la certezza di un passato, infiniti piccoli o grandi fatti, personaggi, impressioni, sentimenti, che non ricordo più e tuttavia sento esistere in me come tesori sepolti: solo per caso, di volta in volta riuscirò a scoprirne qualcuno! Ecco, per esempio. Asti. La via principale di Asti, il lungo, stretto, lievemente sinuoso corso Alfieri che attraversa tutta la città da un capo all’altro, mi ha accolto tenerissimamente al mio arrivo da Genova e mi ha risucchiato come un solco sensuale fino alla piazza rossa: credevo che la dolcezza particolare di questo arrivo dipendesse molto semplicemente dal fatto che mi rendevo conto che stavo entrando in Asti, antica, simpaticissima, ribelle città piemontese e patria del grande poeta da me venerato. Solo oggi, col tempo, via via che questo arrivo a Asti comincia anch’esso a diventare un ricordo e inabissandosi nell’angosciosa oscurità del passato raggiunge rapidamente tutti gli altri ricordi, urto all’improvviso in uno di questi: già sono arrivato a Asti in macchina venendo dal Sud! È capitato quarant’anni fa! La mattina di una vigilia di Natale eravamo partiti da Roma con un’Augusta, Ninetto Borghesio e io, torinesi esuli a Roma che tornavamo a casa per Natale. Se si pensa alla lunghezza del viaggio allora. Asti voleva dire Torino. Ma Asti, per noi, in qualche modo, fu più e meglio di Torino. Non so dire la bellezza del corso Alfieri in quella sera santa e festosa. La gioia dell’arrivo, poiché la fitta folla civile e la musica del dialetto in mezzo a cui procedevamo adagio, le botteghe illuminate di una calda luce gialla e le insegne con i noti nomi, Pasticceria Giordanino, ci dicevano chiaramente – e la gioia suppletiva di desiderare ancora l’arrivo, poiché ci attendeva, prima di Torino, un altro pezzo di viaggio. Non si poteva, ahimè, tornare più in là di Torino. E quando saremmo arrivati a Torino vi avremmo trovato la tristezza di non potere più arrivare visto che già c’eravamo. Asti, dunque, anzi il corso Alfieri che attraversa Asti per chi va a Torino, era la vetta della felicità. un’altra volta che eravamo arrivati Devo anche dire che sapermi qui a casa mi dava una strana sicurezza? È probabile. Non so, infatti, se altrove mi sarei rivolto con altrettanta fiducia a una persona che non conoscevo. Gianni Brera, l’anno prima, mi aveva regalato due bottiglie di un meraviglioso Barolo 1969. Le avevo bevute a distanza di tempo l’una dall’altra e in diverse condizioni: una a pasto con mio figlio Michele, l’altra fuori pasto e con amici. Ecco un caso in cui l’etichetta ha servito a qualcosa: mi sono segnato il nome e il luogo. Il luogo, notissimo: La Morra, zona del Barolo. Il nome, ignoto a me e ignoto fortunatamente anche ai sapientoni del commercio, ma di rassicurante rintocco piemontese: “Poderi e Cantine Fratelli Oddero”. Dall’Albergo Reale telefonai: “Potrei parlare con qualcuno dell’azienda?” Chi mi risponde è Luigi Oddero, uno dei fratelli: e precisamente quello che si occupa del vino. Gli dico del suo Barolo, che ho trovato perfetto. Senza arrivare a confessare la mia diffidenza per le grandi aziende, e tuttavia con una certa brutalità, gli chiedo quanto vinifichi. “Circa ottocento quintali,” dice. E io taccio. Nonostante una certa esperienza che ormai dovrei avere acquistato, trovo difficile calcolare quale rischio, per la genuinità di un vino, significhino ottocento quintali. Senonché, Oddero, prontissimo, indovina quale perplessità significhino gli attimi del mio silenzio: “Perché, dottor Soldati?” dice. “Ottocento quintali per lei è troppo?” Mi conquista che Luigi Oddero abbia capito tutto. Prendiamo appuntamento per l’indomani mattina. La sua azienda e la sua casa sono alla Morra, a Santa Maria della Morra, la frazione più settentrionale. Uno scrittore-gastronomo che vive all’americana, ma beve alla piemontese: Gino Maggiora. L’ellisse enologica divisa dal Tanaro: sinistra sabbiosa e destra argillosa. Ma esistono tante complicazioni per riconoscerne i vini. Oggi, domenica, colazione a Cantarana d’Asti, al Bricco Grosso, da Gino Maggiora. È il più recente, non l’ultimo dei miei amici. Cinquantenne, torinese, piccolo e solido industriale metallurgico, da qualche anno ha abbandonato la sua impresa e la sua professione, e si è messo a scrivere. Ha già pubblicato, in collaborazione con Franca Monari, due romanzi: e Alla ricchezza degli interessi umani, ideologici, sociali, e al naturale dono per la narrativa, Maggiora aggiunge lo straordinario e raro vantaggio, su tutti gli altri letterati, di una vera cultura scientifica e tecnologica, che gli permette di affrontare i più grandi problemi del nostro tempo con conoscenza di causa. La sua casa a Cantarana ha la struttura rigorosamente funzionale di una normale residenza campagnola di uno scrittore statunitense agli Stati Uniti: ne ha anche il voluto aspetto: modernità anonimità malinconia, fino nei più piccoli particolari. La colazione stessa che lui ci offre, nella scelta dei cibi e dei vini, ciascuno autenticamente piemontese e locale, sembra attenersi alla scrupolosa e orgogliosa disciplina degli intellettuali americani i quali, oggi, nella loro quasi totalità, sono appassionati gastronomi: come loro Maggiora cucina da sé e vive in solitudine. Brogliaccio d’amore L’ingenuo ingegnere. Partono, è vero, lui e gli americani, da situazioni profondamente diverse: lui trova in loco materie prime e ricette, loro invece le ricercano diligentemente, queste nei manuali e quelle nei negozi specializzati ed esotici (ossia anche europei) di San Francisco Los Angeles Chicago o New York. Ma l’approccio psicologico è identico. Il menu e la cucina di Maggiora dimostrano distacco intellettuale, freddezza scientifica, e l’esattezza squisita della specializzazione. Scommetterei che Maggiora, quando non ha ospiti, o quando ha fretta, ricorre alle scatolette. Forse sbaglio, lo so: ma il senso è quello. Durante il pasto, l’ingenuo ingegnere mi dà, nell’ordine, i seguenti, perfetti vini: 1) Freisa giovane di un anno, produzione Giuseppe Molino, un agricoltore che ha le vigne anche lui al Bricco Grosso; 2) Dolcetto Einaudi del ’73; 3) Nebbiolo 1972 di Vezza d’Alba, La Colla; 4) Grignolino di Refrancore; 5) Tocai Nero, chiaro, profumato, abboccato, leggermente mussante, con una strana e intensa fragranza che poi continua nel gusto e che mi ricorda l’uso toscano di mettere in infusione nell’Aleatico dell’isola d’Elba Ma Gino Maggiora mi garantisce che si tratta di un profumo naturale. cru rizomi di giaggiolo. Parlerò particolarmente di alcuni di questi vini, tutti naturalissimi quando, con Maggiora, tornerò ad assaggiarli all’origine. Nel loro insieme, adesso, mi danno l’impressione di trovarmi, per la prima volta durante questo viaggio, in un’atmosfera alta, rarefatta, eccezionalmente raffinata. Capisco frattanto che per giudicare un vino qualsiasi della grande, immaginaria enologica che occupa obliquamente il centro delle provincie di Cuneo (Langhe) e di Asti (Monferrato) con un a sud-ovest in Dogliani e l’altro a nord-est in Moncalvo, e che sfiora, con la massima espansione delle sue curve, la provincia di Torino a Poirino e la provincia di Alessandria a Acqui, bisogna, prima, informarsi se il luogo della produzione, la vigna dalle cui uve fu pigiato, si trova sulla sinistra o sulla destra del Tanaro. ellisse fuoco Si tratta di due terreni geologicamente molto diversi: sulla sinistra, in prevalenza sabbiosi; sulla destra, in prevalenza argillosi. A questa diversità dell’elemento minerale di cui si nutrono le radici, corrispondono profonde modifiche nelle uve anche quando le radici appartengono allo stesso tipo di vitigno. Non sì può sbagliare: i caratteri tipici della Barbera e del Grignolino si formano alla sinistra del Tanaro. Le teorie luministiche e termiche dell’enologo Domenico Franceschetti. In Piemonte tutto ruota intorno al vino: tra oscure alleanze e concorrenze spietate, cerco un umile, ignoto artigiano. Ma la questione è terribilmente complicata da tre fatti diversi che si sovrappongono e si intrecciano. Primo: il confine tra la provincia di Asti e di Cuneo, cui appartiene Alba, coincide col Tanaro solo per un brevissimo tratto, da Neive a Govone, altrimenti va da nord a sud perpendicolarmente al corso del fiume. Accade così che l’Arnèis e il Nebbiolo dei Roeri, sebbene si trovino sulla sinistra del Tanaro, appartengono alla provincia di Cuneo. Secondo: è vero che il Nebbiolo, vinificato come Barolo o Barbaresco, e il Dolcetto provengono quasi esclusivamente dalla destra, così come quasi esclusivamente dalla sinistra provengono la Freisa e, tra tutti i Nebbioli vinificati come Nebbiolo, certamente quello dei Roeri. È anche vero che Alba si trova sulla destra, cioè dalla per il Dolcetto, il Barolo, il Barbaresco, e Asti invece sulla sinistra, cioè dalla per la Freisa, il Nebbiolo dei Roeri, la Barbera e il Grignolino. Ma il Tanaro praticamente lambisce e Asti e Alba sia pure lungo due rive opposte. Terzo: la Barbera e il Grignolino, in origine coltivati solo sulla sinistra, oggi si coltivano quasi indifferentemente anche sulla destra. E c’è chi, addirittura, in buona o in mala fede, per entusiasmo di proprietario o per interesse di commerciante, sostiene che la Barbera e il Grignolino della destra sono migliori della Barbera e del Grignolino della sinistra! Naturalmente può succedere, in parecchi casi, che ciò risponda a verità. Certi Grignolini della sinistra possono essere fatti con minore cura di certi Grignolini della destra. Ma non si può dubitare di un assioma: i caratteri precipui della Barbera, fragranza vivezza allegria, appartengono solo alle Barbere della sinistra: e i caratteri precipui del Grignolino, profumo chiarezza leggerezza, appartengono solo ai Grignolini della sinistra. Tra l’una e l’altra provenienza, a occhi chiusi, un esperto non può sbagliare. parte giusta parte giusta Ho poi parlato con un enologo di Pedemonte, presso Verona. Si chiama Domenico Franceschetti e ha in proposito un’altra teoria. Secondo lui, la grande differenza tra i vini della sinistra e i vini della destra del Tanaro dipende dalla natura del terreno, ma dall’orientamento geografico. Le colline della sinistra, ossia il Monferrato, prendono soprattutto il sole del mattino. E il sole del mattino significa Le colline della destra, ossia le Langhe, prendono soprattutto il sole del pomeriggio. E il sole del pomeriggio significa Tutto si spiega, allora. Il sole del mattino, la luce, produce generalmente vini più vivaci, da bere più giovani: il Grignolino, la Barbera, il Nebbiolo, l’Arnèis, la Freisa: freschezza e leggerezza della luce, vini della sinistra del Tanaro. Il sole del pomeriggio, il calore, produce generalmente vini più calmi, più posati, da bere più vecchi: il Barolo, il Barbaresco, il Dolcetto, il Moscato: corpo e potenza del calore, vini della destra del Tanaro. forse certamente luce. calore. È impossibile non muovere qualche obiezione, per esempio: il Dolcetto, di solito, non invecchia molto; e, per converso, come vedremo, il Grignolino può anche invecchiare. Ma, nel complesso, è una teoria che mi affascina. Basta uno sguardo alla carta geografica per convincersi del suo fondamento. Basta un po’ di famigliarità coi grandi vini di qua e di là del Tanaro per convincersi che l’assaggio vi contraddice forse soltanto per quanto riguarda l’eventuale invecchiamento del Grignolino e la necessaria giovinezza del Dolcetto. E si potrebbe anche sostenere, a conferma definitiva della teoria di Franceschetti basata sulla contrapposizione di luce e calore, che un vecchio Grignolino ha sempre, nella sua leggerezza, qualcosa di giovane, e un giovane Dolcetto ha sempre, nella sua posatezza, qualcosa di vecchio. Chiedo infine a Maggiora Sto per affrontare la sommità del Barolo e del Barbaresco, andrò domani a Santa Maria della Morra da Oddero; andrò poi all’Annunziata della Morra, da Renato Ratti, filologo del Barolo e conservatore del Museo del Barolo; andrò, nel centro stesso della Morra, da Cordero di Montezemolo, il quale produce soltanto Barolo di primissima classe. E conosco già, per il Barolo, Conterno e Pio Cesare, Prunotto e Borgogno, e Bersano, e Fracassi. Per il Barbaresco, conosco Gaja e Deforville e quel Don Giuseppe Cogno, Parroco di Neive, il cui nome è famoso, più che in Alba e a Bra, a Los Angeles e a New York! Conosco, conosco. Da anni il mio elenco dei vini piemontesi non fa che crescere, mostruosamente proliferare, e da quando sono qui mi dà le vertigini. Innumerevoli piccoli paesi collegati, attraverso l’indecifrabile moltiplicazione delle loro colline e delle loro valli, con strane e continue giravolte, così che anche i più vicini sembrano lontani e anche i più lontani sembrano vicini. Innumerevoli piccoli o anche grandi paesi, e magari dissimulate cittadine, i cui nomi noti e notissimi ricorrono sulle etichette. Perché qui tutto ruota attorno al vino. Non sono gli abitanti della zona che monopolizzano un loro prodotto. È il prodotto della zona che monopolizza i suoi abitanti. Vertigine. Angoscia. Mi angoscia questo modernissimo empio ipertrofico cuore vinoso del vecchio Piemonte: questo enorme groviglio viscerale di inestricabili interessi, commerci, marketing e pubblicità, inni assordanti e sorde condanne, epinici palesi e segrete invettive, complicità e rivalità, oscure alleanze e concorrenze spietate. un nome. L’ingenuo ingegnere, il mio caro amico Gino Maggiora, fiuta da sempre quest’aria: ma, per sua fortuna, ne è “ ” E questa fortuna, adesso, è anche mia. out . Voglio davvero gustare il vino, e girare nella cantina, e vedere la faccia di un produttore di Barolo, ma piccolo, umile, artigianale, ignoto? Ebbene, Maggiora mi dice di avere quello che fa al caso mio: Luigi Alessandria detto Martinat, la Morra, frazione Santa Maria, borgata i Tetti. Frazione Santa Maria? Come Oddero, dunque? Mi decido di andarci stasera. Telefono. Ci vado. Come un’apparizione fiabesca si apre in uno spiazzo il cascinale di Luigi Alessandria detto Martinat. Siamo in zona del Barolo. Il fascino della semplicità e la gioia di una famiglia concorde. Sebbene da queste parti significhi “fabbro”, i Martinat della Morra, frazione Santa Maria, borgata i Tetti, si occupano da sempre soltanto del loro vino: e sono una famiglia numerosissima, vecchi e giovani, figli, figlie e nipotini. martinàt Quando arrivammo era notte, passata l’ora di cena. Buio, umido, freddo. Sui sentieri della piccola frazione, fangosi e solcati da profonde carreggiate, cerchiamo di seguire le minute istruzioni che Giacomo Martinat ci ha dato per telefono. Costeggiamo a lungo, a fatica, su e giù, il retro dei vecchi cascinali. Non c’è illuminazione stradale. Rompe l’oscurità solo il tenue chiarore di una finestrella terrena munita di inferriata. Battiamo ai vetri. A una voce rauca di donna, chiediamo di Martinat. Dobbiamo continuare, continuare in discesa, girare intorno alle case, sempre a destra. Ecco finalmente uno spiazzo: di là le stalle, di qua la facciata della cascina, quattro finestre e una porta, illuminate. Al rumore della nostra macchina, una, due ombre escono, ci vengono incontro nell’aia. Ci aspettavano. Ci fanno entrare subito, premurosi e gentili. Tuttavia, forse per il contrasto con l’oscurità profonda che ci avvolgeva da un buon quarto d’ora, ci pare di entrare in quella casa per magia, e di sorprendere la loro vita, la vita dei Martinat una domenica sera, attraverso uno spaccato, con la guida del Diavolo Zoppo. C’è la televisione, anzi due televisori, uno in una stanza, l’altro in un’altra: e bambini e bambine un po’ dappertutto, sui divani, sulle sedie, qualcuno addormentato, qualche altro sveglissimo, ridente, chiassoso, che ci corre incontro. Una ragazzina sui dieci anni, coi capelli biondi paglia, lunghi e lisci sulle spalle, è di una bellezza fantastica: luminosa nel suo tenero incarnato, principesca nella suprema raffinatezza dei tratti e nello sfavillio degli occhi celesti. Tra le stanze terrene, nessuna soluzione di continuità: da una profonda cucina, sul cui lungo tavolo centrale ricoperto di lucida incerata sono i piatti e i resti della cena, si passa in un andito, poi in un tinello pieno di accatastate casse di bottiglie, poi in una prima cantina con le botti, le damigiane, i bottiglioni e altre casse di bottiglie, infine in una seconda cantina più vasta, con le botti più grandi e con i tini di fermentazione. Salvo che in quest’ultimo ambiente, c’è luce dovunque, e dovunque c’è gente, ci sono loro, i Martinat, che – nel disordine, nella confusione, tra risate, domande, risposte – mia moglie, mio figlio e io cominciamo a distinguere e a conoscere uno per uno. Ah, il Diavolo Zoppo non poteva farci sorpresa più gradita: è la vita, il lavoro, la gioia del lavoro e della vita in una grande famiglia riunita e concorde. Già stappano bottiglie e bottiglioni. Già assaggiamo. Noi tre siamo mescolati a loro: ciascuno di noi parla con loro liberamente del vino, di altro, di tutto. Siamo nella zona del Barolo. Ho cominciato subito col Barolo. Barolo ’67, gradi 14,3. Glicerina densa. Profumo intensissimo e persistente, tra di lamponi e di viole. Tutte le vigne, o grandissima parte delle vigne da cui proviene questo vino, sono di loro proprietà. Solo negli anni in cui grandina, ne acquistano dagli altri, da vicini, per completare. Dolcetto di Serralunga. Nebbiolo dei Roeri: “Terreno sabbioso” si affretta a spiegarmi Giacomo Martinat; e il sapore, alla fine, è lievemente amabile. Nebbiolo di Monteu d’Alba: “Terreno sassoso!” e il sapore è meno dolce. “Il Nebbiolo, lo imbottigliamo a primavera. Il Barolo, dopo due o tre anni, anche più, secondo.” Il Barolo, ne fanno anche di Serralunga. Ma la Barbera è di lì, dei Tetti di Santa Maria. In totale, vinificano circa settecento quintali ogni anno; e di questi quintali, almeno quattrocento sono tutti vitigno Nebbiolo: ma lo chiamano Barolo, come di regola, solo quando raggiunge una certa gradazione, altrimenti lo vendono semplicemente col nome di Nebbiolo. Il padre, il vecchio, si chiama Luigi. I tre figli Giacomo, Giovanni e Francesco. Questi due sono gemelli, e Giovanni lo distinguo senz’altro perché assomiglia come due gocce d’acqua a Bourvil. Decadenza del tartufo : “La gente, qui, ormai taglia regolarmente le querce e non le sostituiscono.” perché non c’è più boschi Si vendemmia prima il Dolcetto, poi il Nebbiolo, poi quel Nebbiolo che può anche diventare Barolo. Una Barbera ’74: gradi 13,5. La trovo formidabile: gradevolmente amarognola, densa, asciutta, secondo me ha un po’ del Barolo, assomiglia a un rozzo Barolo: forse perché non è della vera zona del Barbera, non è della sinistra del Tanaro, ma della destra. Anche il Grignolino, che adesso assaggio, non è, come dovrebbe essere, della sinistra, ma della destra del Tanaro, Anno ’74, gradi 12,5. Piuttosto amabile, gentile, forse un po’ troppo chiaro. Vedo dappertutto un’invasione di bottiglioni. “C’è sempre un bottiglione aperto, in questa casa,” dice Giacomo. E mi spiega che i bottiglioni sono di due diverse misure: da due litri esatti, e allora lo chiamano ; da milleottocento grammi, e allora lo chiamano dupiliter sampagnùn. Domando se fanno mescolanze di vini. Mai, se non in casi estremi: quando bisogna un vino meno importante e riuscito un po’ debole: di solito un Dolcetto. Mai, in ogni caso, per migliorare un Barolo. aiutare Non si rischia mai. Una piccola galleria di personaggi: innestatoti, potatori, tartufai... E poi un’offerta irresistibile: fette d’arrosto, peperoni sott’olio, tume e tumin. E infine una sfida a scopone, in un clima degno dei romanzi di Fenoglio. Giacomo, la sua specialità, è : ma, naturalmente, fa anche tutto il resto, tutti gli altri mestieri del vitivinicoltore. E c’è un amico, lì, questa sera: è uno che lavora sempre per loro e con loro: Vittorio Brandino, di Castiglione Falletto, specialità sono quattro mesi di potatura ogni anno, da dicembre a marzo! E c’è un altro amico, il quale lavora, o almeno ci tiene a dire che non lavora. Il solo mestiere che ammette a stento di conoscere e di praticare è quello, saltuario e stagionale, del tartufaio: Gino Viberti detto Balarìn. Il soprannome, come spesso accade, dice tutto: lo dipinge. È alto, magro, robusto, roseo, non più giovane: il volto segnato e arguto, gli occhi verdescuri. Lo sguardo, lunghi momenti profondo e misterioso, sembra allora assalito dalla memoria di chissà quali esperienze. Ma poi, subito, cambia: sprigiona gioia, un’irrefrenabile allegria. Mio figlio, per caso, dice di essere appena tornato dalla California, per fare il soldato. E Balarìn, che non perde un colpo, dice di avere a Oakland stretti parenti, gli Schiavenza. Finché accadde l’imprevedibile. innestatore potatore: non In principio, sull’uscio di casa, a una casuale e rituale domanda dei Martinat, la nostra risposta immediata e spontanea: “Sì, grazie, abbiamo cenato”, voleva semplicemente nascondere che ci eravamo levati da tavola alle quattro del pomeriggio. Ma, adesso, cos’è? Dopo due ore di scompigliati assaggi, ci lasciamo forse sfuggire qualche segno di appetito? Non saprei dire come accadde. Giuro, non ricordo. So soltanto che tra le bottiglie e i bicchieri pieni o vuoti, sull’incerata gialla e verde del lunghissimo tavolo, non resistiamo a un’improvvisa apparizione: fette d’arrosto, peperoni sott’olio, salada, tume e tumin. capra. : pecora. Questa, di pecora, è Non c’è niente dentro: non grappa, nessun liquore: per nostra, o almeno per mia fortuna, non è un Tuma del bec: Tuma del beru fermentà. bruss. Va bene, e che cosa capita adesso? Mi spiace per mia moglie: ma mio figlio e io, in coppia, sfidiamo... o siamo sfidati? chi lo sa com’è andata!... insomma, si fa largo sulla gaia incerata, e attacchiamo lo scopone. Sono nostri avversari Giacomo Martinat e, neanche a dirlo, Balarìn! Balarìn, e chi ne dubitava? si dimostra di una bravura portentosa. Memoria matematica, ma accuratamente dissimulata, di tutte le carte, e finte distrazioni, e leciti inganni, l’intero repertorio alla mano, come se calasse a caso, mentre invece ricamava. Un , ossia un “autentico alleggerito”. Un uomo libero, fantasioso, meravigliosamente anarchico e sicuramente esperto di tutti i giochi, d’azzardo e no. Un personaggio di Fenoglio: e, tra questi, dei più riusciti. Penso a un capolavoro, alla novella intitolata lingerì Ma il mio amore è Paco. Abbiamo lottato da leoni e siamo stati battuti. Non era possibile vincere, avendo contro un Balarìn! Tuttavia, perdendo, come ci siamo divertiti! Da quella sera, non mi sono più divertito così. Che cosa darei per la capacità di creare, come avrebbe saputo Fenoglio, i motti, gli scherzi, le risate, le occhiate, l’allegra, continua, eccitata contesa di parole tra noi quattro giocatori e tutti intorno: assistevano più lieti di me e mio figlio, perché noi due, anche, soffrivamo. Ma l’ultimo sguardo, quando venne l’ora di congedarsi, fu per la piccola principessa bionda, che in mezzo a quel trambusto dormiva serena, sul divano a fiori di cretonne. Rivoluzione e conservazione non sono necessariamente antitetiche, importa la forza dello spirito, che non è mai egoistica né gretta. Luigi Oddero, un viticoltore vitale legato alla tradizione. Il rapporto misterioso tra le Alpi e le vigne. Se è vero che qualche volta la rivoluzione non si oppone alla conservazione ma soltanto alla putredine, qualche volta è anche vero che la conservazione non si oppone alla rivoluzione ma soltanto a una ribellione anarchica e vendicativa. E ciò significa che non sempre rivoluzione e conservazione sono in se stesse un bene o un male, ma che esistono almeno due tipi dell’una e dell’altra: il primo vitale e il secondo mortale. Importa, dunque, non il sistema che i cittadini di una classe accettano o combattono, ma soltanto la vitalità con cui lo combattono o lo accettano, qualunque sia la sua facciata ideologica. Importa la forza dello spirito, che non è mai egoistica né gretta. Importa la volontà di ingrandirsi e migliorare. Difficile capire se i Martinat appartengono a una rivoluzione: non si sbaglia, però, affermando che sono vitali. già Duecento passi più su, all’estremità superiore della frazione di Santa Maria, mentre i Martinat erano all’inferiore, sono gli Oddero. E la casa stessa che, a una svolta della salita verso La Morra, appare tra due abeti su uno sperone collinoso bianca, bassa, nitida, tranquilla, col suo lungo ballatoio di ferro al primo piano e le sue persiane verdi alle porte-finestre, si rivela subito, nella modestia, un perfetto esempio architettonico della grande civiltà dell’Ottocento: una struggente immagine del tempo, perduto e insuperabile, della borghesia piemontese. Facile, sì, facilissimo, dal momento che mi appare questa casa così conforme alle mie memorie e ai miei sogni, supporre che gli Oddero appartengano alla conservazione: sbaglierò tuttavia affermandone la vitalità a sua volta, un’altrettanta vitalità sebbene diversa? ancora Prima cosa: anche gli Oddero sono tanti fratelli, ma dell’azienda vinicola si occupa Luigi, il quale è anche scapolo e vive qui, solo insieme alla madre anziana. L’ufficio di amministrazione della piccola azienda è a terreno, una delle stanze della vecchia casa, arredate impeccabilmente stile inizio del secolo. L’azienda medesima, cantine di vinificazione e di invecchiamento, sono sotto, seminterrate dalla parte della collina, e aperte dalla parte opposta, verso la valle, alla fresca ventilazione di nord-est. Ordine, pulizia, spazio. Una razionalità onnipresente e integrale, che non esclude mai il buon gusto e che lo adotta senza cercarlo. A pensarci, il vero buon gusto è sempre così: inconsapevole e involontario. Il padre, i nonni, i bisnonni di Luigi Oddero furono tutti vitivinicoltori. I tipi prodotti sono prima di tutto quelli più particolarmente locali: Barolo, Barbaresco, Nebbiolo. Poi Barbera, e un po’ di Freisa. Anche Oddero come Martinat segue naturalmente la regola: chiama Barolo soltanto i Nebbiolo di migliore qualità e maggiore gradazione. E anche lui coltiva le vigne di sua proprietà. Il Nebbiolo dei Roeri, cioè della sinistra del Tanaro, è destinato esclusivamente a vini leggeri, un po’ amabili, chiamati Nebbiolo e imbottigliati a marzo. Il Nebbiolo di lì, della Morra, si tenta sempre di farne del Barolo o del Barbaresco. La prima fermentazione avviene in tini piccoli: piccoli, perché così adempiono meglio allo scopo. Ho già spiegato: quando la massa è minore, la sua superficie a contatto con l’aria, o in osmosi con l’aria attraverso il legno, risulta, in rapporto, maggiore. L’invecchiamento, invece, avviene prima in botti più grandi e poi in bottiglie. Per il Barbaresco, avviene direttamente nei “Dovrebbe sempre restare nei dupiliter,” dice Oddero, “perché così non subisce il trauma di passare poi in bottiglia. È un invecchiamento più lento, ma più sicuro. Quanto ai travasi – aggiunge – devono avvenire, quando il vino è giovane, a contatto dell’aria: per liberarlo dell’anidride carbonica. Quando il vino è vecchio, devono invece avvenire il meno possibile a contatto con l’aria: perché non si ossidi, perché non invecchi troppo rapidamente.” dupiliter. Andiamo alle vigne più importanti, che sono anche le più vicine all’azienda: le vigne del Bricco Plaustra. Nel secolo scorso erano di un personaggio localmente famoso: il vecchio Parà. Oddero mi indica, in mezzo ai filari, sul punto più alto, una torretta svelta e strana. Di lassù il Parà sorvegliava la vendemmia, seguiva attentamente il lavoro dei braccianti, e se vedeva qualcuno che batteva la fiacca, lo redarguiva. “Una volta anch’io, per scherzo, sono andato lassù con un megafono, durante la vendemmia. Ma uno mi ha gridato: Del resto, lo sa come ho vendemmiato quest’anno?” Ca cala püra giù, che i temp a sun cambià! “Con le macchine?” “Per carità. Con gli studenti! Vengono apposta nella zona da Trieste, da Padova, da Bologna. Sono pagati mille lire l’ora. E lavorano benissimo!” Mi guardo intorno, cerco di immaginarmi le vigne durante la vendemmia. Ma la bellezza stessa del paesaggio mi distrae. Il Bricco Plaustra è un vero altipiano che declina più bruscamente a settentrione e più dolcemente verso mezzodì. Stamattina il sole splende. E, oltre le colline di là dal Tanaro, oltre l’ampio arco della pianura del Po, le Alpi, dalle Marittime al Monviso al Rocciamelone al Gran Paradiso al Rosa, si levano con la loro grande massa appena segnata dalle ombre delle valli e dai contorni dei dossi, ma nell’insieme omogenea, sfumata, violetta, cenerognola, blu: più in alto la grande fascia bianca delle nevi, lo scintillio di ghiacciai e, contro l’azzurro diafano del cielo, il disegno articolato e nitidissimo delle creste. Riconosco qualcuna delle vette principali. Oddero, a proposito di una, mi corregge. È alpinista: l’unico impiego del suo tempo libero. Dice: “Come si fa non amare la montagna quando si vive qui!” Sento che c’è un rapporto misterioso tra le Alpi e le vigne. La freschezza di quell’incorrotta atmosfera che i venti di marzo e aprile trasferiscono sulle Langhe e sul Monferrato deve per forza influire sulla crescita della vite, poi sulla maturazione dell’uva, infine sull’aroma del vino. Dico a Oddero che non ho mai visto vigne in una posizione così meravigliosa. “È stata una scelta precisa, ma anche la fortuna. Erano vigne che sarebbero andate in malora. Anni fa io e i miei fratelli le abbiamo comperate, tutto il Bricco Plaustra, dalla signora Eugenia Vergiati, una nipote del famoso Parà.” “E il Parà, da chi le aveva comprate? Lei lo sa?” “Certo. Il Parà le aveva comprate, poco dopo il 1850, dal vescovo d’Alba, approfittando di un’altra combinazione fortunata: la legge Siccardi sull’esproprio obbligatorio dei beni ecclesiastici. Senonché, questi compratori furono scomunicati, e si arrivò a un compromesso: affinché fosse loro tolta la scomunica, ciascuno doveva andare a Alba, a al vescovo. Il Parà si rifiutò: ‘ ’.” chiedere perdono Mi, la tera, i l’ai pagàla, e i ciamu gnün pardùn Vedo che parte dei filari sono, se non proprio antichi, all’antica, coi paletti di legno; una parte, invece, coi paletti di cemento: sono molto meno belli: contrastano con le vigne. “Meno belli? Sono anche meno robusti. Proprio qui, tempo fa, abbiamo avuto un tornado. I paletti di legno, più elastici, hanno resistito. I paletti di cemento si sono spezzati tutti!” Ecco dunque un altro caso, tra tanti, in cui la modernità si dimostra, alla prova, meno razionale ed economica della tradizione. Torniamo a Santa Maria e assaggiamo. Provo, direttamente spillato dalla botte, un Barolo ’69, gradi 13,7. Sembra ancora giovane. E provo, dal bottiglione, un Barbaresco ’70, gradi 13,5. Perfetto: secondo a nessun altro. “Commercialmente, purtroppo, c’è un po’ il mito del Barolo,” dice Oddero. “Ma lo sa che se avessi da vendere un pessimo Barolo e un’ottima Barbera, troverei sempre più facilmente da vendere il Barolo che non la Barbera?!” Continuo, frattanto, col bottiglione di Barbaresco. Ha questa particolarità: sembra quasi di poterne continuare a bere senza fine, tanto è equilibrato, completo, suadente. Intanto parlo con Luigi Oddero e lo guardo: il suo volto abbronzato, forte e fine, tranquillo e arguto, dal naso diritto e deciso, dallo sguardo intelligente, e la sua stessa persona robustamente nervosa, nel classico pied-de-poule del gentiluomo di campagna, hanno un rapporto con questo Barbaresco. Come tra le sublimi Alpi e l’umiltà delle vigne, così tra l’armonioso vigore del vino e l’ottocentesca vitalità borghese dell’individuo: un rapporto di perfezione. Il Museo del vino nel convento attiguo all’Abbazia dell’Annunziata, a La Morra, col suo stupendo armamentario di antichi arnesi. L’idea fantascientifica di una macchina con i piedi per pigiare l’uva. Il “busillis” della fermentazione malolattica. “L’uva bisogna pigiarla coi piedi.” Ecco la prima cosa che mi dice Renato Ratti. Nessun’altra affermazione, da lui, poteva stupirmi di più. Ero già stato a trovarlo, altre volte: con Ignazio Bòccoli, veronese di Verona, e con Arturo Formichelli, americano di San Francisco. All’Annunziata, la frazione più alta della Morra sotto La Morra, Ratti ha il Museo del vino, fa il vino e studia il vino. Enologo, enofilologo, enostorico, ha scritto sul vino volumi. Ecco gli ultimi tre: , 1971; , 1973; , 1974. Delle vigne e dei vini dell’Albese. Loro origine evoluzione e affermazione Civiltà del vino Manuale del bevitore saggio Ci eravamo trovati un po’ a contrasto. Ratti non pareva completamente d’accordo con me sulla mia idea fissa del primato della produzione artigianale o semiartigianale, e sul mio slogan favorito che una bottiglia è buona o malgrado l’etichetta o addirittura perché non ce l’ha. “Mi spieghi, Ratti, come mai questa sbalorditiva novità? L’uva bisogna pigiarla coi piedi?” “È quello che ha urlato l’altro giorno in Alba, a un convegno di viticoltori e di enologi, un piccolo contadino di queste parti. E io, davanti a tutti, sorprendendo tutti, gli ho dato ragione.” “Mi spieghi.” “Al convegno, si discuteva delle macchine vendemmiatrici. È ormai provato che sono valide soltanto in presenza di condizioni che almeno a noi, piemontesi di Cuneo e di Asti, non riguardano: grandissime coltivazioni di pianura, produzioni di infima qualità. Le macchine vendemmiatrici, anche se permettono formidabili risparmi sul costo della mano d’opera, finiscono sempre per guastare le uve pregiate e delicate perché le sottopongono a contatto violento con parti meccaniche. Quel piccolo contadino, che non si è mai sognato di fare qualcosa di diverso da ciò che ha visto fare da suo padre e da suo nonno, sopportava molto male tutta la pubblicità che gli toccava di udire alla più drastica di tutte le meccanizzazioni. Sentendo parlare delle macchine vendemmiatrici, si agitava sulla sedia. Sbuffava, soffriva. Finché è scoppiato: Fulminante elogio di una pratica ormai normalmente abbandonata da tutti noi. Ma gli ho dato ragione. Solo i piedi, infatti, garantirebbero una pigiatura morbida, schiaccerebbero dolcemente gli acini senza frantumare troppo i graspi, che altrimenti conferiscono al mosto una certa asprezza. Sa come ho concluso? Ho detto che ci vorrebbe una macchina perfetta che sostituisca i piedi. Allo stato attuale della tecnica temo che si tratti di un’invenzione impossibile: materie molli inorganiche come la gomma o la plastica non devono assolutamente, mai, venire a contatto col vino. Non è detto, però, che col progresso scientifico non si trovi qualcosa che va.” L’üva, venta pistéla cui pé! Così dice Ratti, e io mi ricordo di Emidio Pepe, a Torano Nuovo (Teramo) che pigia le uve su un setaccio sovrapposto a una bigoncia! con le mani Il Museo fondato e diretto da Ratti trova una splendida collocazione nelle massicce mura medievali del convento attiguo all’Abbazia dell’Annunziata. Esemplari di vecchi torchi, tini, botti, brente, misure. Esemplari di tutte le forme di bottiglie in uso nel Piemonte, la bordolese, la borgognona, la renana, e più particolarmente l’albeisa e la poirinetta. Documenti incorniciati. E una quantità di grafici che illustrano vari sistemi di innesto e di potatura, le malattie della vite, la costituzione geologica dei terreni: sabbie gialle nei Roeri, marne calcaree nel Barolo e nel Barbaresco (grige beige marroni), marne bianche nell’alta Langa. C’è anche un quadro che illustra la fermentazione malolattica. Ne approfitto per chiedere a Ratti, perché mai, in California, visitando l’azienda di Montebello Ridge, mi era sembrato che il mio amico Paul Draper attendesse la malolattica come qualcosa di estremamente benefico per il suo vino – e perché in Calabria, tutto all’opposto, Ippolito e gli altri esperti inorridissero alla sola parola. “Malolattica! Per carità, la fermentazione malolattica è quella che sarebbe meglio non avvenisse mai!” Ratti mi illumina: “Semplicissimo. Dipende dal clima. Non c’è contraddizione. La fermentazione malolattica non è che la trasformazione dall’acido malico, pungente, all’acido lattico, soffice. Bisogna che avvenga adagio e entro certi limiti ben precisi, ma che variano da località a località e da vino a vino. Si vede che le condizioni climatiche di quelle vigne che dice lei, in California, assomigliano alle nostre. In Calabria, invece, può accadere che l’inverno dopo la vendemmia le cantine non siano abbastanza fredde: allora la malolattica oltrepassa il limite in cui è utile e benefica, gli altri acidi, rovina il vino. Da noi, in ogni caso, la malolattica deve avvenire prima, nelle botti, e mai dopo, mai nelle bottiglie”. mangia Ratti vive con la sua famiglia poco più in basso del Museo, in una villetta nuova, che ha, sotto, l’azienda e la cantina e, davanti, la grande conca orientata a mezzodì dove sono disposte a ventaglio, in splendido ordine, le sue vigne. Assaggiamo un Nebbiolo dei Roeri, anzi: Nebbiolo secco dei vigneti degli Ochetti di Monteu Roero. Quasi amabile al primo sorso, poi ci si accorge che non lo è affatto. Gustoso, morbidissimo, magnifico da pasto e leggermente frizzantino. “Pela un po’ la lingua,” dice Ratti, “ma non è il frizzantino, è solo l’acido tannico, un pregio.” Passiamo a bottiglie più vecchie e anche molto più vecchie di Barbaresco e di Barolo. Ma Ratti accompagna l’assaggio con parole così calme e precise che si ha l’impressione di stare a scuola. Forse la sua vocazione didattica ci impedisce così di apprezzare questi vini come meritano? Torniamo a vini giovani. Un Colombè del ’74, 12 gradi. È un Dolcetto di Mango. Così equilibrato che non si direbbe di un solo anno. “La è il segno dei migliori Dolcetti,” esclama Ratti tornando ad accalorarsi stranamente. “Non è un gran vino, questo, nella sua modestia, nella sua leggerezza, nella sua giovinezza? Confesso di avere un debole per i vini giovani. Se lei ci fa un po’ d’attenzione, capirà che i vini vecchi, quando resistono, tendono tutti, immancabilmente, ad assomigliarsi tra di loro: l’aroma e il gusto dell’età prevalgono allora su tutti gli altri aromi e gusti, si uniformano in una composita, ammuffita supermaturazione, nobile quanto si vuole, raffinata quanto si vuole, fascinosa quanto si vuole, ma in cui ciascun vino perde frattanto la propria individualità. I vini giovani, al contrario, sono caratteristici. Ciascuno ci balza incontro, nettamente diverso dall’altro. Può anche darsi che qualcosa di simile avvenga per gli esseri umani: a condizione, naturalmente, di aumentare il parametro temporale.” prontezza “E cioè?” “Ma sì, si tratta di stabilire un certo limite all’infrollimento. Mettiamo, per esempio, che un vino di quindici anni sia come un uomo di novantacinque. Ebbene, quei pochi tra di noi esseri umani che superano il limite e si avvicinano al secolo, perdono di carattere e finiscono per assomigliarsi tutti un po’. Inutile entrare in dettagli, troppo triste. E naturalmente quel limite, poi, non è mai un dato fisico, come l’acqua che bolle a cento gradi. Ci possono essere delle sorprese, delle eccezioni.” Ieri Oddero, oggi Ratti, ambedue produttori di Barolo nelle zone del Barolo, insorgono contro il mito del Barolo. La cosa mi pare ancora più straordinaria da parte di Renato Ratti, che in materia rappresenta un’autorità. Ho qui sott’occhio, pubblicata recentemente nel Notiziario Economico della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cuneo, una sua dotta relazione: “Osservazioni sull’andamento meteorologico annuale e sua influenza sul vino Barolo. Anni 1955-73”. Minutissime tabelle statistiche, e comparate, delle temperature medie e delle precipitazioni in quei diciotto anni. Non è, dunque, che Ratti non apprezzi il Barolo: tutt’altro. Ma confesso che il suo entusiasmo per i vini giovani concorda pienamente col mio. E non so dire quanto mi piaccia in lui, professore della Barolesca Sorbona, questa schiettezza, questo realismo, questo non-conformismo, questa ribellione al consumismo di lusso. Il mito del Barolo, Proust e un ipotetico film di Visconti nel palazzo del Conte Paolo Cordero di Montezemolo, proprietario di favolosi vigneti. Ora, tuttavia, sarei stato a mia volta un conformista del non-conformismo se avessi persistito a escludere dal mio viaggio una visita ad dei produttori del grande Barolo da invecchiamento. Ho scelto il Conte Paolo Cordero di Montezemolo, del quale ho sempre sentito parlare, e che vive e lavora per il suo Barolo nell’antico palazzo della sua famiglia, proprio nel centro della Morra, in alto sul colle, in pieno paese. almeno uno Il semplice spettacolo delle due grandi e attigue sale terrene dove ci riceve, uno studio-tinello e una cucina, valeva la pena di una visita anche indipendentemente dal Barolo. Immaginate due pagine di Proust o trecento metri di film girati da Luchino Visconti con l’arredamento di Piero Gherardi, l’uno e l’altro ispirati a questo unicum, a questo formidabile e fantastico coacervo di un tempo che fu. La prima delle due stanze, mi dice subito, accogliendomi, lo stesso Montezemolo, è il Ho consultato il grosso dizionario del cav. Vittorio di Sant’Albino, Utet, 1859. Dice: “Peilu. Stufa. Stanza, per lo più piccola, riscaldata internamente o esternamente da stufa.” peilu. Questa, invece, è addirittura grandissima e di pianta rettangolare. Il mio amico Enzo Giachino, anche lui della Morra, mi assicura che la caratteristica inderogabile del era il : “Specie di caminetto, molto sporgente nella stanza, costruito con tre o quattro larghi tambelloni, e fatto in modo che il fumo ridiscende e scalda prima di andarsene per un condotto nella gola di un camino. Viene così detto dal nome del suo inventore americano” (Sant’Albino). peilu franklin Purtroppo non sapevo del franklin quando sono andato alla Morra. Sospetto che ci fosse e che fosse collocato, appunto, tra la cucina e il peilu, in modo da riscaldare l’uno e l’altro ambiente. Il tavolo rotondo e centrale, coperto da un vecchio tappeto; la scrivania inverosimilmente ingombra di carte; il lucido e cigolante parquet; il soffitto basso, a cassettoni; le finestre che sono praticate nelle spesse mura sui due lati più brevi del rettangolo, e che prendono una smorta luce da due opposti giardini interni; e gli infiniti e più vari soprammobili, oggetti, utensili, libri, registri, lumi, quadri, stampe: ciascuno di questi , come in un’immensa e disordinata e spregiudicata rubrica, comunica la certezza di possedere la sua particolare storia e giustificazione, di essere soltanto il risultato ultimo e apparente di tutta una serie di piccoli o grandi eventi che, per una naturale incapacità del padrone di casa a sostituzioni o rinnovamenti, si sono a poco a poco depositati, incastrati, incrostati nel peilu, fusi però tutti insieme e come ammorbiditi da una generale colorazione brunorossastra, con sparsi lucori di mogani o di ottoni. Penso al finale del : “... gli uomini... esseri mostruosi, i quali sembrano occupare nel tempo un posto assai più considerevole di quello così angusto che è loro riservato nello spazio: un posto, al contrario, prolungato senza misura, poiché toccano simultaneamente, come dei giganti tuffati negli anni, epoche da loro vissute e così lontane – tra cui tanti giorni sono venuti a collocarsi – nel Tempo.” E che cos’è il peilu di Montezemolo alla Morra se non una materializzazione minuta e massiccia della suprema immagine di Proust? E che cos’è, a sua volta, il Barolo di Montezemolo, se non un aroma degli anni perduti e ritrovati, una quintessenza del Tempo? In ogni caso, è qualcosa di più di un vino. item Temps retrouvé Da 12,42 ettari di vigne coltivate esclusivamente a Barolo, Paolo Montezemolo ricava ogni anno circa 700 quintali di Barolo. Ne vinifica 450, che alla fine dei travasi si riducono a 350. Ne vende 100. E i restanti 250, li imbottiglia: sono trentamila bottiglie l’anno. Il 1970, per il Barolo non esiste. Ottimo invece il 1974. Conduzione diretta. Fa tutto lui, sta quasi sempre qui. Ogni mattina, regolarmente, si consulta coi suoi cinque lavoranti. Tiene un registro quotidiano, precisissimo. Gli anni, come lavoro, si assomigliano tutti: salvo gli scarti derivanti dalle annate cattive. Concima con letame animale una volta ogni quattro anni. La terra è interamente lavorata a macchina. Ma a mano, naturalmente, gli innesti, la potatura, la legatura, la vendemmia. I paletti di legno che servono di sostegno alle vigne si chiamano “brope”. Trovo puntualmente il termine nel Sant’Albino. Gustiamo il Barolo ’71. Fa 14 gradi. Acidità fissa molto alta: 7,5. Acidità volatile estremamente bassa: 0,40. E quest’analisi, dice Montezemolo, “è come una cartina di tornasole per verificare se il Barolo ha fatto la malolattica. Di solito, ci vuole due anni. Per la necessaria chiarificazione, uso bentonite e colla di pesce. Andrebbe anche meglio il sangue di bue: ma deve essere freschissimo!” Risponde ora a mie domande. Da ragazzo, quando mi occupavo di Storia dell’Arte, ho conosciuto personalmente Guido Montezemolo, e ho studiato la sua pittura. Un paesaggista finissimo. “Era mio prozio.” E l’eroe partigiano? “Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Era ingegnere. Colonnello di Stato Maggiore nel Genio. Cugino primo di mio padre.” E le vigne? “Le ho ereditate da mia nonna, una Falletti di Rodello. La collina a est-nord-est della Morra si chiama Si distingue benissimo perché ha, proprio in cima, un cedro del Libano che fu piantato nel 1858. Le vigne migliori, esclusivamente Barolo, sono tra i 200 e i 250 metri di altitudine, e orientate a sud-ovest.” Guardo attentamente l’etichetta di una bottiglia di Barolo Montezemolo che ho davanti. Una maiuscola precede il numero di codice: 780 . significa Cuneo, ma che cosa significa la ? Le Mont Falet. V V CN CN V “Significa che non acquisto uve da altri.” Perché ho detto che è qualcosa di più che un vino? Questa, però, è una domanda che rivolgo ora a me stesso. Risposta: perché è così denso, così carico di gusti e di aromi, così profondo e misterioso, che si può bere solo a piccolissimi sorsi sebbene non presenti nessuna viscosità. Qualcosa di più di un vino, ma nulla di un liquore. Torniamo dai “poveri”. Con Gino Maggiora, vado finalmente sulla sinistra del Tanaro, nei luoghi originari del Grignolino. Oggi è la spedizione del Grignolino. Qualcuno, forse molti sostengono che il Grignolino autentico non esiste più. Questa voce, lo dico subito, non corrisponde a verità: e tuttavia circola per un buon motivo: perché il Grignolino, tra tutti i vini piemontesi, è certamente il più delicato, sopporta male i viaggi, richiede troppi accorgimenti nella scelta del locale dove lo si conserva: insomma, non si adatta, assolutamente non si adatta, alla brutalità del consumismo. Io stesso, da molti anni, non avevo più bevuto del Grignolino che assomigliasse sia pure di lontano al Grignolino normale della mia giovinezza. E la prima volta che ho ritrovato quel gusto, dopo mezzo secolo, è stato l’altro giorno in casa di Maggiora: era il Grignolino di Refrancore, pigiato dai Miravalle padre e figlio. Il Grignolino di Refrancore pigiato dai Miravalle padre e figlio. Veronelli per televisione dice qualche “gavada”. Un telegramma perché ritratti. Ricordo di una bevuta deliziosa nel castello di Costigliole d’Asti. Il metodo rustico ma efficace di Mario Bigliani. Che cos’è lo “zelb”. I Miravalle abitano una casetta quasi fuori dal paese. Passiamo subito nella cucina: piccole finestre danno sul cortile soleggiato e alberato, dove, dall’altra parte, si indovinano, in fondo, le cantine. Stefano Miravalle, il padre, è alto, nerboruto, pieno di humour: lo dice l’esplosione di allegria, “ ,” guardalo qui, con cui accoglie Maggiora, e frattanto l’indice puntato su di lui, come se lo incontrasse per caso, sull’ora del mezzogiorno, a Piccadilly Circus. Il figlio Paolo è tondo, massiccio, con gli occhi prominenti: ma presto si rivela humourous anche lui, con toni più pacati. Sono subito sul tavolo le bottiglie. Grignolino ’74 e Grignolino ’73. Gradi poco più di 12, l’uno e l’altro. Il sapore è quello, inconfondibile: leggerissimo, profumato, amarognolo delizioso. Noto che il ’74 è più scuro e che il ’73 è più chiaro, verso il Mi viene subito un dubbio: “Come mai questa differenza? Forse il ’73 ha fermentato minor tempo sulle bucce?” Vardlu sì rosé. “Niente affatto. Il tempo di fermentazione varia, secondo le annate, da 24 a 36 ore. Ma non c’entra col colore. Lo lasciamo sulle bucce più o meno tempo secondo come va la fermentazione, non per ottenere un dato colore. Il colore viene come viene.” La cosa mi riempie di gioia. Non è sciocco, per andare incontro al cliente – che scioccamente pretende dal vino, come se il vino fosse una bibita artificiale, sempre lo stesso colore –, non è sciocco lasciar fermentare un mosto più o meno di quanto deve fermentare per il miglior risultato? E non è ancora più sciocco, solo per ottenere una stabilità nel colore, modificarlo con additivi, che non sono mai inerti, anche se igienicamente innocui? Il vino viene ogni anno diverso: perché non accettare tranquillamente queste variazioni? Grignolino ’71, gradi 13,5. Più alta la gradazione, ma per fortuna l’equilibrio è ristabilito da un sapore più intenso. Il colore è rubino-rame chiarissimo. Mi pare un vino eccelso. Stupisco che abbia quattro anni: “Mi avevano detto che il Grignolino deve essere bevuto subito: dopo due, tre anni al massimo!” Padre e figlio insieme tuonano: “Chi gliel’ha detto? Veronelli? Conosce Veronelli? Ebbene, quando lo vede... lo vede?” “Sì, lo vedo.” “Glielo dica da parte nostra. Una volta gliel’ho fatto assaggiare... adesso glielo faccio assaggiare anche a lei... per fortuna ne ho ancora: è del ’60. E Veronelli, l’anno scorso, lo ha provato e ci ha dato ragione. Ma siccome lui, questa , l’ha stampata e l’ha detta per televisione, questa gavada che il Grignolino è buono non più di due anni, adesso deve ! Mi ha promesso che lo faceva, e non ha ancora mantenuto la promessa. Deve ritrattare. Deve ritrattare!” gavada ritrattare pubblicamente Bastava il ’71, sono quattro anni: ma ecco, il figlio Miravalle ha già stappato la bottiglia del ’60. Gradazione 14. Il primo sorso è acre, e lo dico. “Un momento di pazienza. Bisognava aprirlo prima! Un vino di quindici anni! Adesso lasciamolo lì, lo riproviamo tra un quarto d’ora. Certo, non si può mai dire, non si può mai sapere. Va non soltanto da annata ad annata, ma da partita a partita, e da bottiglia a bottiglia. Le differenze possono, sempre, essere enormi!” anche Continua l’assaggio. I due Miravalle stappano altre bottiglie. E, per esempio, il 1967, gradi 12,6, lo trovo meno buono: disarmonico. Ma il 1964, gradi 13,4, è ancora perfetto: undici anni! Vince la gara. E basta, da solo, a esigere da Veronelli la doverosa ritrattazione. Salta infine fuori un altro vino. Non è Grignolino. È un vitigno diverso, e solo di qui: il Sellarin, o Sellarina. Non trovo il nome né tra i duemila e passa del Di Corato, né tra le migliaia dei sinonimi del Cosmo. Fa 15 gradi, un vino da dessert, non assomiglia a niente. Come al solito per i vini da dessert, ma anche perché adesso sono a digiuno, preferisco non pronunciarmi. E invece scrivo, seduta stante, questo telegramma a Veronelli: “Caro Gino il vero Grignolino qualche volta arriva comodamente a dieci anni stop ti abbraccio Mario.” Purtroppo, quando usciamo dai Miravalle è l’una. Troviamo la Posta chiusa; e Maggiora mi porta diritto a Castagnole Monferrato. Perdo il foglio e dimentico di spedire il telegramma. In compenso, trovo oggi nel trattato del Cosmo, e la giro a Veronelli, la seguente citazione di un grande specialista del Grignolino, il professore E. Garino Canina: “Quando provenga da viti vecchie, coltivate in terreni leggeri (sabbie dell’astigiano), acquista dati di particolare finezza che, con un conveniente invecchiamento, lo esalta sì da avvicinarlo ai migliori Borgogna.” E Giovanni Dalmasso aggiunge: “Purtroppo, però, v’è una tendenza a farne dei tipi amabili e leggermente frizzanti: la cosa non è da incoraggiare per più motivi, non ultimo la facilità con cui si può favorire lo smercio di prodotti di imitazione, ottenuti per lo più facendo rifermentare vini bianchi su vinacce di Nebbiolo o di Barbera.” Ecco, forse, la spiegazione di tanti Grignolini poco persuasivi! Finito il viaggio, il Grignolino continuava a sorprendermi e a incantarmi. Per caso, all’inizio di questa primavera, sono tornato in Piemonte, ospite qualche giorno nel castello di Costigliole d’Asti. Quivi il cuoco Mario Bigliani mi ha dato regolarmente da bere un Grignolino che mi sembrò, da pasto, semplicemente l’ideale. Non fa più di 11 gradi, forse meno. Era giovanissimo, meno di cinque mesi dalla vendemmia. Produzione Cascina Martini, a Quarto d’Asti: siamo, ovviamente, sulla sinistra del Tanaro non lontano da Refrancore, in piena zona del Grignolino. Intendiamoci, il Grignolino dei Miravalle aveva più gradazione e più classe, si avvicinava di più al modello illustrato dal Garino Canina. Ma questo di Bigliani, a pasto è preferibile. Credo di averne bevuto con mia moglie, in pochi giorni, e con nessun danno, una ventina di bottiglie. Bigliani ha tenuto a informarmi di una particolarità nella vinificazione. Finita la fermentazione tumultuosa, e dopo averlo follato tre volte, gli si lascia il suo galleggiante, e lo così: coprendo la botte con il suo , e tappando il tutto ermeticamente con un impasto di sabbia e Fa come un cemento. Non lascia passare un filo d’aria. A Natale si svina. Lo si comincia a bere in febbraio e lo si finisce di bere in giugno. Ho chiesto a Franceschetti, quello di Verona, che cosa pensava del metodo Bigliani. “Intelligente!” ha detto “perché, tappando, crea una carica di anidride carbonica che impedisce l’ossidazione.” cappello si stiva asseu büsa ’d vaca. Bigliani definisce il suo Grignolino così: dice che ha, e che deve avere, : un po’ di acerbo. E , particolare forma fonetica che addolcisce o , esprime perfettamente il garbo aspretto, profumato, giovanile di questo Grignolino di Quarto d’Asti, una qualità che vive molto al di sotto del limite cronologico concesso da Veronelli, ma che realizza un miracolo, quello di un vino d’altri tempi che però esiste ancora nell’anno di grazia 1976. ’n poc ’d zelb zelb zerb aserb Finale noterella enonomastica. Gli acini delle uve del Grignolino sono caratterizzati da una straordinaria abbondanza di vinaccioli. I vinaccioli in dialetto sono chiamati o Che nello zelb delle grìgnole sia tutto il segreto del Grignolino? gargnòle grìgnole. Il Ruké, vino che va scomparendo e la storia di una Barbera che “mussa”. Equivocando come la Callas quando sentiva parlare di un’altra cantante, i fratelli Meda si offendono appena nomino il Lambrusco. Castagnole Monferrato. A casa dei fratelli Carlo e Michele Meda. C’è anche Cesare, il loro ottantaduenne genitore. Barbera della zona della Barbera. Parlando della destra del Tanaro, i Meda dicono: (oltre-Tanaro) e mi pare che nell’intonazione, o forse nella brevità stessa della crasi, includano come un radicale disprezzo appunto per la qualità di Barbera, e allo stesso tempo indichino una preferenza esclusiva e irrefutabile per la Barbera che loro producono, della sinistra del Tanaro. Otatani quella Proprio perché giudicano importante solo la Barbera, i Meda cominciano con un altro vino: il Ruké. La coltivazione delle uve del Ruké sta per essere abbandonata: rendono poco e i (le api) se le mangiano tutte. I Meda fanno ogni anno una sola botte di Ruké: ma più di 350 ettolitri di Barbera. Proviamo un Ruké ’74, gradi 15; e un Ruké ’72, gradi 14,5. Scurissimo, profumatissimo, denso, duro, potente, non dolce ma neanche secco: Maggiora dice: “Mandorlato.” Sbaglierò ma il Ruké mi è antipatico. Ripido: tutto uno scalino. affs Barbera ’74, gradi 14. Profonda, amara, seria, grave, corposa: ma anche con un sospetto di catramoso: oppure è colpa mia? Sono troppo fissato coi miei ricordi di Barbere giovani, frizzanti, brillanti, allegre? Eppure anche questa è giovane: come mai mi delude? Non c’è dubbio che al più sfumato indizio di meridionalità io sia ipersensibile. Taccio: non paleso ; ma pare che i Meda lo indovinino, perché al mio silenzio rispondono di punto in bianco: el me dübiètt “Nel ’44/’45 abbiamo avuto, qui a Castagnole, una Barbera di 16 gradi. Abbiamo dovuto mettere del ghiaccio nei tini di fermentazione perché il mosto non bollisse troppo. Ma lo sa che tra le annate buone e le annate grame c’è una differenza perfino di sei gradi? Ecco anche perché, secondo l’annata e secondo la vigna, la nostra Barbera si può bere dopo due anni, oppure a volte soltanto dopo sei.” Mi domando dove l’aneddoto del ghiaccio e il successivo commento vadano a parare: ad avvertirmi, senza dirmelo esplicitamente, che la Barbera del ’74 non deriva da una mescolanza con mosto pugliese, ma, semplicemente, ? non è ancora pronta Ad ogni modo, ora stappano una bottiglia senza data. Spuma nel bicchiere come un Lambrusco, e la spuma scompare in pochi istanti. “Vede? Noi sappiamo che questa bottiglia è di prima del 1960 proprio perché mussa. E mussa, sa perché mussa? Perché, allora, in quegli anni, non sempre, ma qualche volta, si imbottigliava presto: a marzo dell’anno dopo la vendemmia.” “Come si usa col Lambrusco?” Non l’avessi mai detto! Senza raccogliere il mio riferimento, che è solo tecnico, o piuttosto equivocando di proposito, come la Callas, davanti alla quale non si poteva, neanche per incidenza, nominare qualsiasi altra cantante: “Lambrusco?! Altro che Lambrusco! Ma lo sa che a noi, in confronto alla Barbera, alla vera Barbera, alla nostra Barbera, alla. Barbera d’Asti, una Barbera d’Alba, una Barbera Otatani fa ridere? E fa ridere anche il Barolo? Sì, il Barolo ci fa ridere, ridere!” Ed ecco, suggello estremo, una Barbera del ’55. La data, questa volta, è anche scritta su una strisciolina di carta appiccicata alla bottiglia. Non mussa. Gradazione 14. Colore rosso granato chiaro. Profumo amaro. Sapore secchissimo. Strepitosa. Davanti allo spettacolo dell’orgoglio dei Meda per l’età della loro Barbera, ammetto che l’amore per i vini giovani non deve accecare. Ci può essere spontaneità e simpatia anche nell’amore per i vini vecchi: purché se ne riconosca l’eccezionalità e se ne pratichi un consumo relativamente limitato o saltuario. Ora, a ogni modo, interrompiamo l’assaggio. Salutiamo i fratelli Meda, Maggiora mi trascina via. Un paesaggio alla Pavese per un assaggio di Bonarda. Incertezza e mestizia a chiusura della giornata. Andiamo lontano: a Cisterna, a quell’estremità occidentale dove la provincia d’Asti confina da una parte con la provincia di Cuneo, e dall’altra con la provincia di Torino. Terreno vulcanico. Cantine nel tufo, in grotte naturali, che mi ricordano quelle sotto Peperaio, oltre Orvieto: con qualcosa di più romantico e nordico, cupo e quasi tragico. Le grotte, verso l’esterno, sono per un breve tratto murate, poi continuano sotto terra con vere e proprie gallerie. Una boscaglia alta e selvaggia, che si direbbe inaccessibile come giungla, riveste la proda a picco sulla stretta cornice pianeggiante dove il terreno comincia a declinare, appena un po’ meno ripido, coi suoi vigneti. E a questa cornice, appunto, si affacciano le grotte. Non serve l’aratro qui, dice il contadino Nicola Vaudano: ci vuole la zappa. Disordine, miseria, tristezza. Penso a Pavese, sebbene i luoghi dei suoi racconti non siano affatto questi. Bonarda il vino: Bonarda ’61 e Bonarda ’71. La prima troppo vecchia. La seconda ancora dura. 13 gradi. Colore violaceo. Sapore a metà tra l’asciutto e l’amabile. E la giornata della spedizione artigiana si chiude così, una volta tanto, nell’incertezza e nella mestizia. Confesso di avere un debole un po’ infantile: il Moscato col salame crudo alle 11 del mattino, ottima colazione. Provare per credere. Il giorno dopo vado a Boglietto, dove tutto è ricco, ampio, aperto, ben curato, razionalmente sfruttato, consumisticamente gestito: vado allo stabilimento e alle tenute dei Morando. Siamo sulla destra del Tanaro, nel centro del centro della grande zona industriale del vino: circa a metà tra Asti e Canelli. Con Gino Morando siamo a San Martino, alle cascine e alla vecchia villa semiabbandonata, da cui lo sguardo spazia su un panorama immenso di vigneti perfetti. “La Barbera, quest’anno, l’abbiamo vendemmiata tardissimo: poco fa, dopo la prima neve.” Nel sole ormai invernale, e nella grandiosità del paesaggio collinare, la facciata della vecchia villa, casualmente o intenzionalmente non corretta o non corrotta da restauri, ha un incanto gozzaniano. Ma anche lo stabilimento, giù a Boglietto, nonostante la sua efficienza, non offende. Gli uffici sono liberty. Le botti coi loro fondi verniciati di verde inseriscono una nota abbastanza ottocentesca. Si fanno tutti i vini: la Barbera, la Freisa, il Grignolino, il Nebbiolo, ecc. Ma la specialità è quella della zona: il Moscato Naturale, che ha 4 gradi di alcool svolti, e 11 gradi complessivi, ossia compreso lo zucchero. È un prodotto regolato da una legislazione speciale. Lo si filtra appena pigiato, e lo si rifiltra man mano che va in fermentazione: fino, se necessario, a dodici volte prima dell’imbottigliamento. Confesso di avere sempre avuto un debole per il Moscato. Lo trovo adatto al dessert, e alle merende specialmente quando vi partecipano i bambini: ma, soprattutto, mi va col salame crudo e fresco, tagliato a fette smesse, per spuntini verso le undici di mattina. Come? Un vino dolce e leggero col salame? Provare per credere. E poi, che cos’è questa smania per l’alcool, questa esclusiva pretesa di una certa gradazione nel vino? Non era così, una volta. E non c’è dubbio che oggi si tratti di una moda incoraggiata dai mercanti, che hanno bisogno di un’alta gradazione perché il vino competa coi suoi derivati artificiali, vermut, aperitivi, amari e via dicendo: e circoli, e viaggi, e sopporti qualunque trasferimento, qualunque magazzinaggio, e le più lunghe attese possibili prima che sia consumato. Un’altra sfida ai pregiudizi: spezzatino di coniglio con carote accompagnato da buon Moscato. Purtroppo nell’Astigiano il mercato comanda la vita, senza rispetto per la tradizione e il buonsenso. Un altro Moscato ancora più , e per ciò stesso meno durevole ma più gentile, trovo non lontano di lì, sebbene già in provincia di Cuneo, a Castiglione Tinella frazione Brosia, strada Caudrina, da Redento Dogliotti. naturale Una piccolissima azienda a conduzione ipofamiliare. Da oggi, finalmente, ho di nuovo con me Giorgio Lotti: darà lui, fotografando, meglio di me scrivendo, un’idea precisa dell’ambiente. I Dogliotti producono soltanto Moscato Naturale. 4 gradi svolti, 7,5 complessivi. “Imbottigliato a luna nuova,” mi dice subito Redento, “fa saltare i tappi! Imbottigliato a luna calante, ” ossia, frizza appena. Redento è un gigante. Sessantun anni. Ma biondo, biondissimo, capelli tagliati a spazzola: un granatiere lituano. Il suo aspetto, fortissimo e ingenuo, si accorda bene al Moscato, proprio per questo contrappunto: diversità tra forza e debolezza, e, invece, somiglianza nell’ingenuità. a müssa mac! Ci invita a colazione e accettiamo. Uno squisito spezzatino di coniglio in umido, con carote gialle. E pasteggiamo a Moscato: sono io che vi insisto, in barba a tutte le stupide regole dei cosiddetti accostamenti. Con Lotti, prima, eravamo stati anche a Montegrosso d’Asti, sempre sulla destra del Tanaro. Bisogna fare attenzione: esiste, sulla sinistra, un altro Montegrosso che non si chiama “d’Asti”, ma che è altrettanto vicino ad Asti e sempre in provincia d’Asti. L’amico Terzo Meschia ci conduce da Dario e Bruno Siccardi, padre e figlio. Vinificano settecento quintali annui. Grignolino di Quarto d’Asti che avevo già provato e riprovato, buonissimo, in casa di Tino e Jole Richelmy, a Torino – e che riprovo adesso: quello dei Richelmy era lievemente frizzante e questo no. Qui siamo sulla destra del Tanaro e Quarto d’Asti è sulla sinistra, ma soltanto a una ventina di chilometri: distanza, tra vigne e luogo di vinificazione, non pregiudizievole. Chiaro, leggero, profumato, appena amarognolo. Non frizza, come quello dei Richelmy. E non frizza “per la semplice ragione che è stato imbottigliato ”. Se devo dire la verità, preferisco il frizzante. Mi sembra che quando il Grignolino è giovane, gli si addica di più: lo completa. più tardi Barbera ’74, gradi 13,8. Niente brusco, squisito, passant. Barbera ’70, 13 gradi. Arieggia a Barbaresco: e preferisco il ’74. Dice Meschia: “Da una decina d’anni, tra Alba e Asti, oggi non si parla che di vino. Va il vino? Giù a mettere vigne dappertutto! Siamo arrivati a questa assurdità: hanno abbattuto i boschi nelle colline a nord per piantare la vigna. E adesso si sono accorti che la vigna a nord non rende, e la lasciano andare in malora. Credevano di saperne di più dei loro vecchi.” “Questo è un po’ il simbolo di tutto, oggi,” dico, “il mercato comanda la vita, senza dare più nessuna importanza alla tradizione e al buonsenso.” Guardo Meschia: nelle lenti, i suoi occhi blu, vivi e profondi, scintillano di intelligenza. Gli chiedo di che classe è. Della mia. Impetuosamente, ci abbracciamo. Ci ritroveremo, Dio volendo! Giuseppe Molino, che produce vini formidabili da un terreno di origine boschiva, concepisce ancora le distanze secondo una misura umana. Il ricordo dei dissodatori, “viaggiant”, “lingere”, liberi e orgogliosi. Il vino dei due cugini e il Tocai che sa di giaggiolo. I giudizi dì due famosi enologi su Tocai Rosso e Tocai Nero. Con Lotti ritorno da Ratti, da Oddero, da Montezemolo, dai Martinat. E vado per la prima volta da Giuseppe Molino, il vicino di Maggiora, al Bricco Grosso di Cantarana. Molino vinifica tre qualità: Barbera, Freisa, Tocai Nero. La terra è argillosa, durissima. Il Bricco Grosso una volta era tutto bosco. I Molino sono venuti qui più di cent’anni fa. “Venivano da Valfenera,” dice Giuseppe Molino: e me lo appunto sul taccuino, prima di tutto perché parla della sua famiglia non alla prima, ma alla terza persona plurale, e poi perché il tono, e il suono stesso di quel nome, Valfenera, suggerisce una romantica lontananza. Chissà dov’era, Valfenera! Vado adesso a controllare: Valfenera dista dal Bricco Grosso meno di dodici chilometri. La cosa mi commuove: significa che Giuseppe Molino concepisce ancora le distanze, o almeno , secondo una misura umana, la stessa con cui lavora: abbiamo assaggiato il suo vino a colazione da Maggiora, e lo abbiamo trovato eccezionale. La terra dunque era durissima, e il Bricco Grosso cent’anni fa era tutto bosco. Venivano da Valfenera i Molino. Ma da soli non ce la facevano a dissodare. Per anni e anni, fino alla fine del secolo scorso, e nei primi decenni del Novecento, ebbero bisogno di aiuto. E il ricordo più vivo che, attraverso i discorsi di suo padre e di suo nonno, Giuseppe Molino conserva di quell’epoca, si riferisce appunto ai queste distanze dissodatori. Erano barboni: ma allora non li chiamavano barboni, espressione tutta moderna e di origine milanese. Li chiamavano, molto più romanticamente, , ed erano tutti delle Lingera, come abbiamo visto, deriva da lingerì, ligerì, alleggerito. I viaggiant venivano ciascuno per conto suo e ciascuno si fermava quanto gli garbava: un giorno, una settimana, un mese. Ma tutti i giorni, ce n’erano almeno due o tre. Venivano, mangiavano, bevevano, dormivano qui, non rubavano mai neanche una briciola di pane. Il solo pericolo era che portassero , i pidocchi. “Quando capitava, allora si faceva bollire tutta la biancheria.” E questo significa che i Molino, ai viaggiant, per dormire, davano anche le lenzuola. i viaggiant lingere. i pui “Non erano zingari. Si sapeva di ciascheduno la sua origine. Erano sempre piemontesi e di un paese vicino. Un paese che si sapeva il nome.” E questo significa che il loro genere di vita era il risultato di una libera scelta. Non amavano il sistema, non amavano l’ordine costituito, cui apparteneva chi, come il contadino, era fermamente ancorato a una dimora fissa. E vi si ribellavano; ma vi si ribellavano soltanto nel loro intimo, con perfetta lealtà entro i limiti del loro necessario e saltuario rapporto economico col contadino: senza nessuna manifestazione di follia se non quella di andarsene in qualunque momento frullava loro per il capo. Felici tempi, beata civiltà, armonioso sistema, che concedeva questi margini agli individui innamorati della libertà più di ogni possibile agio, e che rispettava, ammirava, forse invidiava la loro leggerezza, la loro , e li dissuadeva così dalla violenza! diversità Ce n’era uno, di quei viaggiant, detto Jena, perché era un po’ prepotente; ma il nomignolo stesso, nella sua comica iperbole, doveva assolverlo. E ce n’era un altro, uno degli ultimi, che Giuseppe Molino ricorda benissimo: Giuvan ’d Muncalè, di Moncalieri, detto Barbisìn. Durò a lungo, a lungo: almeno mezzo secolo. Alla fine era molto vecchio, non lavorava più, solo mendicava. Fu visto l’ultima volta una ventina d’anni fa. Con Giuseppe Molino andiamo a una cascina confinante, da suo cugino. Si chiama anche lui Giuseppe Molino, e per distinguerlo gli dicono Pino. Conosciamo a casa sua Magna Maìna, la nonna. “Ha ancora lei il mestolo della casa,” dice Maggiora. “Le vecchie, da noi, sono un terzo sesso. E da questo deriva la loro autorità suprema, che invece i vecchi a poco a poco perdono.” Arguta, lucida e salda, Magna Maìna assiste divertendosi al nostro assaggio. Proviamo e paragoniamo le Barbere dei due cugini. Sono tutte e due del ’74, della stessa qualità di vitigno, dello stesso Bricco Grosso, ma non degli stessi terreni. Quella di Giuseppe ha più alcool: 13,5. Quella di Pino ha più acidità fissa ed è più amabile: ed ha, stranamente, un po’ di quel gusto di giaggiolo che avevo trovato nel Tocai Nero di Giuseppe. Qui il giaggiolo lo chiamano , o anche , per via delle foglie lunghissime, strette e puntute come coltelli. Fiori celesti, ma anche bianchi e gialli. E rizomi fortemente odoriferi. Adesso Pino Molino mi giura, e Giuseppe con lui torna a giurare, che loro non mettono assolutamente, neanche in minima quantità, codesti rizomi in infusione nel Tocai Nero. Ci sono, sì, qua e là nel terreno, in mezzo un po’ a tutte le vigne, degli ireos: ma certo non di più di quelle dove piantato il Tocai Nero. Tocai Nero, secondo i Molino, è il nome del vitigno. E Magna Maìna dice che c’è sempre stato, perché quando lei è venuta al Bricco da sposa, sessant’anni fa, le vigne del Tocai erano già piantate. ireos cutele ’d Marte Italo Cosmo ha incluso nell’opera più volte da me citata una sua monografia su un Tocai non bianco, che però lui non chiama nero, ma rosso: e dice, molto esplicitamente, che il “è oggi noto e coltivato soltanto in provincia di Vicenza, specialmente nella zona collinare dei Colli Berici che fa capo a Barbarano”. E aggiunge questo giudizio organolettico sul vino: “Dalle uve di Tocai Rosso che vengono vinificate di norma da sole, si ottiene un vino di color rosso rubino non molto intenso ma vivo, provvisto di leggero profumo speciale e di sapore gradevole, non molto di corpo, e tannico, un po’ amarognolo, armonico, non privo di finezza.” Tocai Rosso Il Di Corato, d’altra parte, parla di un Tocai Rosso piemontese prodotto con vitigno Tocai Rosso e coltivato nella zona di Dogliani: “Ha colore rosato con forti riflessi ambracei. Profumo che ricorda la vaniglia. Sapore asciutto: morbido, sui 13 gradi. Può invecchiare alcuni anni. Si accompagna alle carni e va servito lievemente fresco.” Riprovo adesso il Tocai Nero di Giuseppe Molino. È del ’74. Gradi 12. Ma decisamente amabile e, soprattutto, con quello straordinario profumo e sapore di ireos che ne fa un vino da dessert o, almeno, da fine pasto. Mentre l’Aleatico con il giaggiolo in infusione, come lo danno in alcune trattorie di Firenze, mi parve presto stucchevole, da non poterne bere più di mezzo bicchiere, il Tocai Nero di Molino è forse il solo vino da dessert che mi affascina completamente. Perché la dolcezza, l’intensità e la stranezza di quel profumo-sapore sono corrette dalla lievità del corpo, dalla trasparenza, da una freschezza naturale. Chiaro, però, che questa freschezza bisogna sottolinearla avendo cura di servirlo fresco. Alcune delle caratteristiche notate dal Cosmo e dal Di Corato coincidono con le caratteristiche che ho ricavato direttamente dal Tocai di Cantarana: altre no, addirittura vi contrastano. In ogni caso, la fotografia a colori di un grappolo di Tocai Rosso (dei Colli Berici!) che il Cosmo pubblica alla fine del saggio, coincide curiosamente con un grappolo del Tocai Nero di Cantarana, che Molino è andato a cogliere per me sulla vigna (rimane sempre qualche raro grappolo non vendemmiato), e che io ho copiato, con un disegno a penna, sul mio taccuino: compatto, piramidale, con ali pronunciate. Non credo, infine, che il Tocai Nero di Molino possa invecchiare oltre un paio d’anni. Nel ’74, Maggiora me ne aveva regalato due bottiglie del ’73. La prima, l’avevo bevuta subito e mi ero entusiasmato. La seconda, l’ho tenuta per berla con Filiberto Lodi, ma poi, ogni volta che Lodi veniva a trovarmi, regolarmente me ne dimenticavo. Finalmente l’abbiamo stappata qualche mese fa: il delizioso Tocai Nero non esisteva più, e perfino dell’ireos non c’era il ricordo. Ho la certezza di ritrovare un’atmosfera aspra, montana, povera, indenne dagli eccessi consumistici. Il dottor Giuseppe Ratto riposa lavorando con passione al suo vino, tra Ovada e Rocca Grimalda. Un confronto tra il Dolcetto di Giuseppe Ratto e quello di Carlo Pestarino. I tre “Dolcetto dei Bacchetti”. Appuntamento alle dieci di mattina sulla piazza di Ovada. Stura e Orba confluiscono subito a valle della città che sorge su uno sperone terrazzato tra le due acque. Il suo nome, infatti, deriva da , guado. vadum Alla prima occhiata di chi, come noi, giunge a Ovada dalla strada di Alessandria-Asti, sfugge il perimetro irregolare della vastissima piazza, che è quella delle corriere, del mercato, delle stazioni di benzina: ma oggi deserta, nella mattina gelida, sotto un cielo chiuso e grigio. Eppure, scendendo dalla macchina, affacciandomi al parapetto dell’antico , e guardando verso i ripidi bricchi coperti da boschi e da vigneti che s’indovinano al di là, nella nebbia bassa, provo uno straordinario senso di sollievo, una giuliva certezza di ritrovare un’atmosfera aspra, montana, povera, indenne dagli eccessi consumistici. Capisco però che mi è difficile comunicare al lettore questa impressione, e il motivo è semplice: riferendo del mio lungo gironzolare tra Asti e Alba, ho evitato quasi sempre di affrontare direttamente i luoghi, le aziende, i personaggi di quegli eccessi: ne ho parlato solo per incidenza e per astratto, e mi sono sforzato di scegliere i miei incontri e di concentrare il mio interesse appunto nelle eccezioni artigianali o addirittura artistiche. Infatti, i Molino, i Martinat, i Miravalle e perfino le élite borghesi come Oddero e Ratti erano fuori da quell’opprimente, soffocante clima mercantile. Ho taciuto del peggio, di tutto il peggio che mi aggrediva da ogni parte: e non posso dunque comunicare al lettore il mio sobbalzo di gioia quando sulla piazza di Ovada vidi saltare fuori da una rossa Dyane, agile come un gatto, e corrermi incontro vispo come un folletto, il dottore in farmacia Giuseppe Ratto. guado Lavora solo ventiquattr’ore la settimana, ma tutte di filato, senza interruzione, e tutte nel più allegro posto di lavoro del mondo: la farmacia Pescetto, aperta giorno e notte, in piazza Acquaverde, davanti alla Stazione di Principe. Dirò allora di lui che, capovolgendo i segni, copia l’algebra del Padre Eterno perché il settimo giorno lavora e si riposa gli altri sei? Riposa, però, occupandosi appassionatamente del suo vino. Partiamo subito. Ci dirigiamo, , proprio verso quei ripidi bricchi sottolineati da cirri nebbiosi di là dall’Orba, a San Lorenzo: dove Ratto, coi risparmi di tutta la vita non ancora lunga, ha comprato due vecchie cascine coi loro terreni, gli e le : “scarsi” perché sono insediamenti sparsi nell’impervio pendio, “olive” perché tra le vigne ci sono anche degli uliveti. Altre due vecchie cascine, la e la , sono abbandonate lassù e in vendita, per chi volesse imitare questo imitatore di Geova. Al Santo di Genova, San Lorenzo, è dedicata la chiesa dove ci fermiamo, poco prima delle vigne. È isolata, in un’angusta cornice pianeggiante ricavata di costa sul pendio: barocca, piccola, con la graziosa abside e lo snello campanile. neanche lo avessi sentito Scarsi Olive Chiavarina Bernarda Fascino della collina ormai spoglia e fasciata di nebbia. Silenzio profondo che rari, brevi, quasi intimoriti versi di uccelli fanno sentire ancora di più. Pace. Di là da una siepe, in un orto, c’è un signore rubizzo che sarchia: è un sardo, un maresciallo dei Carabinieri in pensione. Dice che questo posto per lui è il paradiso, e non andrebbe più via di qui per nessuna ragione. Attraversiamo le Olive, che è ancora comune di Ovada, e arriviamo finalmente agli Scarsi, che è già comune di Rocca Grimalda. Pioviggina. Le vigne sono piantate ancora , uno dei più antichi sistemi: alberelli sostenuti da palo morto, e in fila, ma non collegati, Ciascun alberello è potato in modo che butta un solo tralcio sullo sperone, e ciascun tralcio porta al massimo sette gemme: Vigne vecchie: ma Ratto le ripianta e rinnova man mano, con regolare selezione di innesti e porta-innesti. La piegatura non avviene, come di solito, nel senso del filare, ma ortogonalmente al filare. Udiamo adesso, nel silenzio, dei secchi tagli a intervalli regolari. E poco dopo scorgiamo, sotto la pioggerella, con un berrettaccio di lana e una giacca di incerato, un vecchio. È il potatore e sta potando. Lavora stagionalmente per Ratto. Si chiama Michele Ferro. Originario del Monferrato e, manco a dirlo, di Refrancore! Parliamo in dialetto. Gli dico subito che l’altro giorno ero là: conosce i Miravalle? Certo che li conosce. Ma lui passerà agli Scarsi tutto l’inverno: solitario, allegro, amante del suo lavoro e più ancora, sembra, di un illimitato godimento del prodotto di un lavoro che, limitatamente, è anche suo. alla Monferrina sistema Guyot semplice e corto. Entriamo nella cascina, che Ratto ha restaurato. A parte l’aggiunta di una cantina spaziosa e razionale, l’esterno però è intatto. E l’interno è trasformato in un’abitazione moderna, fornita di tutti i comfort, ma assolutamente non offensiva. Ho già accennato, a proposito del Pornassio, al Dolcetto di Ovada. Il vitigno è lo stesso del Dolcetto delle Langhe, e il vino lo si distingue da maggior profumo, maggiore gradazione, maggiore densità e una maggiore possibilità di invecchiamento. Ratto dice che il vitigno da lui impiegato è una varietà a peduncolo rosso detto “zampa di pernice” perché ricorda la zampa della pernice rossa. In cantina dalle botti, e poi da bottiglie e bottiglioni nella grande cucina al pianterreno della casa, assaggiamo due qualità: una del ’74, , a 13 gradi; l’altra del ’75, , a 11 gradi. Non ha veramente nulla del Dolcetto delle Langhe. Mi piace moltissimo, lo trovo un po’ duro, ma stranamente vivo e gustoso. E mentre assaggio, guardo Ratto, mi ricordo di quando l’ho conosciuto al Bibe, anni fa, e di quando poi l’ho rivisto col camice bianco alla farmacia: il volto pallido e magro, il ciuffo castano chiaro, i verdi occhi sfavillanti, il sorriso intelligente, i gesti nervosi e decisi, la rapidissima parlata dalla erre scrocchiante: e mi chiedo se a volte un vino, prima di gustarlo, non lo si possa immaginare dalla faccia e dai discorsi della persona che lo fa. Ma altre volte, dopo averlo gustato, accade addirittura che non lo si possa più ricordare se non pensando alla persona che lo fa. Una identificazione, una immedesimazione per sempre inscindibile tra la persona e il vino, come tra alcuni artisti molto spontanei e la loro opera. superiore comune Ratto fa anche un Brachetto secco non aromatico sui 14 gradi: lo lascia fermentare sulle bucce fino a tre mesi, macerare adagio, a freddo. Aromatico, non passito. Dice che dopo cena e, particolarmente, dopo un semifreddo al cioccolato, è quello che ci vuole. Mah. Mentre stiamo ancora assaggiando, entra un amico di Ratto: Carlo Pestarino di Silvano d’Orba. Ci porta il suo Dolcetto: valle Bacchetti, sulla riva destra dell’Orba, vigneti che risalgono le colline, da Silvano in direzione di Lerma. Viene chiamato “Dolcetto dei Bacchetti”. Assaggiamo un ’74, gradi 12,7. Lo trovo meraviglioso, più duro, ma anche più gustoso, più completo del Dolcetto degli Scarsi. Ratto, ridendo onestamente, riconosce che il confronto non gli è favorevole: e spiega che non poteva essere diversamente: i Pestarino, il padre Agostino e i figli Carlo e Tomaso, fanno il loro Dolcetto dei Bacchetti da sempre, lui fa il suo Scarsi soltanto da due anni. Il giovane Pestarino mi ricorda, non soltanto per l’assonanza del nome, ma anche nella statura e perfino nella rotondità del capo, il dottor Postorino di Reggio Calabria. E anche lui, nella freschezza vigorosa dell’espressione, resta in qualche modo, per me, inscindibile dal suo Bacchetti: come Postorino, nell’entusiasmo scientifico, inscindibile dalla perfezione del suo Pèllaro. La lealtà di Carlo Pestarino rifulge infine in un episodio immediatamente successivo alla rivelazione, per me, del suo Dolcetto. Tira fuori dalla sporta altre bottiglie. Sono sempre Dolcetto dei Bacchetti, ma non di produzione Pestarino. Dolcetto dei Bacchetti dell’Associazione Unitaria Produttori “Dolcetto Bacchetti”, Silvano d’Orba, 1974, gradi 12, produzione Giovanni Barisione, Cascina Valvaliano. Dolcetto dei Bacchetti di Pino Ferretti, 1974, gradi 12, frazione Pieve Superiore, Silvano d’Orba. Tutti e tre questi Dolcetti dei Bacchetti sono di primissimo ordine. Diversi l’uno dall’altro, sebbene appartengano sostanzialmente a un identico tipo di vino. Per registrare le differenze mi occorrerebbe un lungo assaggio meditato, che per il momento non mi è concesso. All’osteria del Cavallino Bianco di Rocca Grimalda, un momento di commozione per tutte le virtù del passato. Il vecchio Piemonte sopravvive solo ai confini della regione. Colazione a Rocca Grimalda, formidabile paese dall’aspetto alpestre, tutto Anche l’osteria del Cavallino Bianco è così: un’osteria come ormai non ce ne sono quasi più. Accogliente, affollatissima, allegrissima. di una volta. , zuppa di ceci: inarrivabile. con crauti: qualcosa che assomiglia, nella sua saporosa e fragrante magrezza, più all’ degli inglesi che alla coda alla vaccinara dei romani, troppo unta, troppo piccante, troppo immersa nell’intingolo di pomodori e peperoni. Süpa ’d cisi Arrosto negli ossetti ox-tail E Dolcetto di Rocca Grimalda, anno 1971, gradi 14: davvero sebbene con un fondo catramoso, molto vicino al Pornassio più maturo... Improvvisamente, pensando al Pornassio, e guardandomi intorno nella fumosa e chiassosa osteria ancora viva di tutte le virtù del passato, mi dico che il nostro viaggio finisce domani: addio Piemonte! Così , e così puro, non ti rivedrò forse mai più: addio! Senonché, subito dopo, trasalgo a una riflessione amara: non è strano che io riconosca finalmente il vecchio Piemonte in un paese ai confini con la Liguria e dopo essermi ricordato di un vino che è “piemontese di Liguria”? Non mi ritrovo così, ancora una volta, in presenza di quel commovente fenomeno strutturale, la cui legge mi fu svelata, sui banchi dell’università, alle lezioni di glottologia, dal mio grande maestro Matteo Bartoli? superiore an piota : la periferia, ossia i margini e le lontananze, le comunità delle isole o delle zone ai lembi estremi della madrepatria. Il centro innova, la periferia conserva Che , ancor oggi, la Corsica se non un’immagine vivissima della Francia dell’Ottocento e della Toscana del Settecento? Il francese più antico si parla ancor oggi nel Quebec, e a Bahia il più antico portoghese. Le ragioni sono evidenti: la periferia è conservatrice per fedeltà amorosa al centro da cui gli eventi l’hanno distaccata. cose E se la vecchia Provenza si ritrova soltanto nelle plaghe più alpestri della provincia di Cuneo, perché dovremmo meravigliarci che accada lo stesso anche al vecchio Piemonte, che ritroviamo soltanto nelle zone più isolate della Liguria di Ponente? Non è questo, il vino del vecchio Piemonte? questo che abbiamo assaggiato, di qua o di là, tra gli Appennini e le Alpi Marittime, a cavallo del Piemonte e della Liguria, Pornassio, Dolcetto di Ovada, Rossese di Arcagna, Vermentino di Diano Castello? Il vino Cortese del senatore Carlo Pastorino. Tra le vigne della Giustiniana devastate da un’estate terribile. Il pomeriggio andiamo alla Giustiniana, ad assaggiare il Cortese di... combinazione, Pastorino! Carlo Pastorino, sebbene addirittura senatore, e diversissimo in tutto il resto, ha anche lui l’alta statura e il capo rotondo di Pestarino e di Postorino. Il suo Cortese è di primissima classe. Lo beviamo gelato, nelle , mentre giochiamo a biliardo, in una sala della sua maestosa villa. Paglierino chiaro, tenui riflessi verdolini. Profumo lievemente pastoso, a cui corrisponde poi un sapore come di mandorle. Leggero, amabile, ma con un fondo decisamente secco. Alcool, sugli 11 gradi. Si tratta di vino dell’anno prima, perfettamente equilibrato. flûtes Quest’anno, invece, la vendemmia è andata malissimo. Solo settecento quintali di vino bevibile: la metà del solito. Il Piemonte, nell’estate di questo 1975, è la più colpita di tutte le regioni italiane. E nella zona della Giustiniana, dal 22 agosto alla fine di settembre, l’umidità dell’atmosfera non è mai andata al di sotto di 85 gradi dell’igrometro, mentre normalmente non dovrebbe mai superare i 70. Le uve, al momento di raccoglierle, erano in molta parte marce! Siamo stati, col senatore e col suo fattore. Luigi Tabanelli, romagnolo di Lugo, a vedere le vigne. I grappoli, neri e rattrappiti, erano ancora tutti attaccati. Capita anche questo, a chi fa il vino. Ma la tristezza dello spettacolo era mitigata dalla considerazione specifica che il senatore ha buone spalle, come il suo Cortese delle annate buone. Il Gavi della Scolca di mio cugino Vittorio Soldati, un bianchista nato. Che la sua mente industriale non soffochi mai il suo cuore artigianale! Chiudiamo la lunga giornata con una visita che da tempo avevo promesso a mio cugino Vittorio Soldati, figlio di Pinot, il quale era fratello di mio padre Umberto. Vittorio Soldati fa, nientemeno, il Gavi della Scolca, forse il migliore di tutti i Cortese. Tre sono i tipi in commercio. Normale, chiamato “Gran Gavi”, in bottiglia bordolese; medio, chiamato “Riserva la Scolca”, in bottiglia borgognotta; superiore, chiamato “Gavi dei Gavi”, con etichetta nera. Singolare è la camera di Vittorio Soldati. Sua moglie è una genovese, Federica Parodi, famiglia proprietaria di qualche terreno alla Scolca, sulle colline di Gavi. Direttore di zona in una delle più importanti industrie elettromeccaniche italiane, mio cugino aveva incominciato a occupare il tempo libero coi vigneti e col vino. In principio si divertiva, sperimentava, studiava: ma a poco a poco si appassionò, approfondì la ricerca, aumentò la produzione. Finché, una decina d’anni fa, incontrando un successo commerciale superiore a ogni aspettativa, decise di abbandonare l’impiego e di dedicarsi interamente alla Scolca. Sorprendente e unico, ormai, il suo vino: sebbene diffuso nei locali di lusso, non cede al confronto coi più collaudati bianchi di Francia. Renato Ratti, la nostra Sorbona enologica, dice che “bianchisti si nasce” e dice di Vittorio Soldati che è, appunto, “un bianchista nato”. Il commendator Bersano di Nizza Monferrato, altro luminare enologico, ha commentato il Gavi dei Gavi così: “Se questa punta di ce l’ha per caso, è fortuna. Se Soldati l’ha fatto apposta, è arte”. Naturalmente, ero già stato alla Scolca. Questa volta trovo la casa tutta in subbuglio, specialmente il rustico, che è in corso di ampliamento e di rinnovamento “enologico”. Già in parte funzionano, e presto funzioneranno al completo, i dispositivi più moderni e raffinati. Non entro in particolari: ne diffido; e mi si perdoni. L’importante è il vino, e finora non se ne può dire che bene. Ma più importante è l’uomo: da cugino fraterno gli rivolgo un augurio: che la sua intelligenza industriale sia così intelligente da non sopraffare mai il suo cuore artigianale. nocino Addio al Piemonte con i vini di Luigi Einaudi. Ma a chi, sull’uscio di casa, dovremo riservare l’ultimo degli addii, addii al Piemonte e ai vini di tutta l’Italia, se non al vino di Luigi Einaudi? Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, di stare qualche volta un po’ a lungo con lui. E ho avuto anche la fortuna di visitare la sua azienda a Dogliani, e di conoscere benissimo il suo vino mentre lui era ancora in vita. Certo, leggevo anche i suoi articoli, e conoscevo i suoi libri meno scientifici, come o Ma, refrattario agli studi giuridici, o piuttosto credendomi tale per pigrizia di fronte alla fatica di sottopormi a una semplice infarinatura degli stessi, non mi ero mai sognato di affrontare una qualunque delle sue opere più importanti. Lo scrittoio del Presidente Prediche inutili. Una notte, soltanto pochi mesi fa, mi accadde di svegliarmi e di non potere più prendere sonno. Mi trovavo in casa a Milano, dove, dopo che ho trasportato a Tellaro tutti i miei libri, sono rimasti solo quelli di economia e di legge, appartenenti a uno dei miei figli. Passeggiavo su e giù nel corridoio. Mi fermai davanti a uno scaffale. Per caso, a tiro di mano, vidi un volume di Luigi Einaudi: Cominciai a leggere dal principio. Via una riga, via un periodo, via una pagina, via l’altra, un continuo stupore! Dopo tre ore albeggiava, e io ero ancora lì, in piedi nel corridoio, affascinato dalla chiarezza di quella prosa, in cui si specchiava la realtà stessa dell’esistenza col suo ineluttabile peso economico. Princìpi di scienza della finanza. Quando ero stato a Dogliani la prima volta, l’azienda vinicola Einaudi la mandavano avanti le anziane signorine Natalia e Lucia, due delle quattro sorelle Bersia. Enologo era stato Giovanni Bersia, loro padre. Enologo, poi, anche Carlo Taricco, marito di una terza sorella, Teresa Bersia, e padre di Angelo Taricco, il quale adesso è succeduto al nonno materno e al padre come enologo, e alle due zie come direttore dell’azienda. La villetta degli uffici e delle cantine è rimasta identica, dentro e fuori. Le vigne sono ancora quelle: il Gerbido del Nido, San Giacomo, il Melo, Vallero, che tutte e quattro insieme appartengono alla tenuta di Santa Lucia; poi San Luigi, le cascine di Abbene e di Big; poi Tetto Rotto, alla Madonna delle Grazie; infine la cascina di Casa Grimaldi, quattro ettari di Barolo. Vi lavorano salariati e compartecipanti agli utili. Ai tempi del Presidente, vi si allevava ancora del bestiame: a poco a poco lo si è andato riducendo, adesso non ce n’è più. Vinificano 2500 quintali in tutto. Il 65% dell’intera produzione è Dolcetto. Il resto: un Superdolcetto nebbiolato (ossia con percentuali di Nebbiolo), che viene chiamato San Giacomo; Nebbiolo; Barbera; Barolo; e Tocai Rosso. Nello struggente nitore britanno-piemontese della sala da pranzo della villa dell’azienda, il geometra Taricco ha preparato, per Giorgio Lotti e per me, un assaggio esauriente. Proviamo un po’ di tutti i vini. Annoto: un Dolcetto ’74, gradi 12,4; un San Giacomo ’74, gradi 12,6; un Barolo ’68 e un Barolo ’67, ambedue gradi 13,5. E il Tocai Rosso, che beviamo per ultimo come si conviene: perché, secondo me, resta un vino da dessert anche quando, come questo di Dogliani, è un po’ meno amabile di quello di Cantarana. Tocai Rosso, 1974, gradi 13,5. Sebbene di un grado e mezzo più alcoolico, assomiglia però tremendamente a quello di Cantarana! Lo stesso stranissimo profumo di ireos! Non vaniglia, come suggerisce il Di Corato: no, ireos! E lo stesso colore rosso chiaro con riflessi tra il rame e l’ambra! Dice Taricco che “sarebbe ancora più chiaro se fosse messo esclusivamente in botti dove non va mai un altro vino. Purtroppo, invece, usiamo le stesse botti del Dolcetto”. Sorpresa finale. Taricco esclude qualsiasi riferimento col Tocai Rosso dei Colli Berici. Il vitigno di questo Tocai, rosso o nero, del Piemonte, non avrebbe nulla a che vedere, secondo Taricco, col Tocai: si tratta invece, sicuramente, di Pinot Noir, o piuttosto di Pinot Gris, che Viala e Vermorel fanno derivare direttamente dal Pinot Noir! Le prove? Eccole. Alle pagine 42, 144 e 180 del grande trattato di Giuseppe dei Conti di Rovasenda, (Torino, 1877), troviamo elencato un “Burot, sinonimo di Pinot Gris, e comunemente e impropriamente detto Tocai, o Tocai Rosso, in molte parti del Piemonte”. Saggio di Ampelografia Universale Una eccezionale disponibilità a sprigionare intensi e misti profumi di fiori caratterizzava il Pinot Grigio del Collio: quello di Gradimiro Gradnik più di tutti. Non sorprende dunque che l’aroma del rizoma dell’ , che qualcuno qui chiama anche “radica di violetta”, caratterizzi il Pinot Gris del Piemonte. iris fiorentina Pinot Gris o Pinot Grigio, o magari, con pronuncia dialettale, Pino Griss del Piemonte? Dobbiamo forse chiamarlo così, e non più Tocai Rosso, come lo chiamano a Dogliani, né Tocai Nero, come lo chiamano a Cantarana? Davanti a un ritratto incorniciato del Presidente, al centro della parete sul caminetto, studio la sua espressione insieme ingenua e profonda, e intanto indugio nell’ultimo assaggio, e replico i sorsi, insaziabilmente curioso di questo sapore dell’ireos, e mi chiedo quale nome il Presidente avrebbe preferito. “Lo facevate di già, il Tocai, quando c’era il Presidente?” “Sempre fatto” risponde Taricco. “Ma per uso famigliare. Non lo mettevamo in commercio.” “Non avete mai pensato di chiamarlo Pinot Grigio?” “Mai. La tradizione piemontese non lo chiamava neanche Tocai Rosso o Nero, ma semplicemente Tocai. Si sapeva che era quello.” Pensai che il Presidente, dovendo decidere del nome di un vino, sarebbe stato dalla parte della tradizione. Ricordai a Taricco ciò che le sue zie, Natalia e Lucia Bersia, mi avevano detto un giorno: “La Compagnia Internazionale dei Vagoni Letto ci ha proposto un contratto, vantaggiosissimo, per una regolare fornitura di vino... Ma il Presidente non ha voluto.” “Lo so. Mi ricordo” mormora Taricco. Istintivamente, guardo di nuovo il ritratto. E mi par di capire che un’intelligenza così lucidamente positiva e così solidamente piantata nella realtà si spiega soltanto con la scintilla di una corrente di segno contrario: il suo genio era una cosa sola con la semplicità della sua anima, col suo candore, con la curiosità che lui provava per tutti i fenomeni dell’esistenza. Mi viene anche in mente, chissà perché, quello che lui soleva dire a proposito del nostro “Diploma di Laurea”. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America non esiste, diceva, niente di simile: esiste e conta soltanto la parola del vecchio insegnante, il quale garantisce la società scientifica del giovane allievo: il Diploma di Laurea è la piaga del nostro sistema di istruzione superiore. Sono convinto di non prevaricare se suppongo che, venendo al nostro sistema di legislazione enologica, Luigi Einaudi avrebbe detto lo stesso dei bollini e (Denominazione di Origine Controllata, Denominazione di Origine Controllata e Garantita), che sappiamo inevitabile fonte di equivoco e di corruzione, e che non garantiscono un bel niente. DOC DOCG