Prefazione

Curioso, ingenuo, impulsivo, entusiasta, molesto perfino: questo è stato Mario Soldati, scrittore sensazionale, intellettuale in grado di destreggiarsi con qualsiasi strumento di comunicazione del suo tempo. Allora l’avremmo definito “poliedrico”. Oggi, nella civiltà 2.0, lo chiameremmo multitasking. Ogni tanto, come in questo felice caso, succede che qualche editore si ricordi di lui, della sua straordinaria produzione che ha attraversato tutti i generi e affrontato tutti i temi, dal racconto di viaggio al romanzo, dalla saggistica al giornalismo, dal cinema alla televisione, dal memoriale all’elzeviro, dal cibo al vino, dallo sport (fu inviato per il Corriere al Mundial spagnolo del 1982) alle carte da gioco. Immancabili, queste, accanto a una buona bottiglia di vino, binomio inscindibile per Soldati nelle sue serate con il maresciallo Arnaudi, protagonista di due serie di racconti diventati sceneggiati televisivi di successo. Alle carte ha dedicato, ormai introvabile se non in qualche bancarella di libri usati, Lo scopone (Mondadori), trattato sul “gioco degli dei”, scritto a quattro mani con Maurizio Corgnati, autore, regista televisivo, anche lui torinese, uomo dagli svariati interessi e capacità che, oltre a essere ricordato da una ristretta cerchia di amici che lo conosceva bene, è rimasto famoso al grande pubblico come il primo marito/pigmalione della cantante Milva.

Questo per illuminare la gamma degli interessi di Soldati, che intersecavano tutto il reale. All’interno della narrativa, poi, Soldati è stato capace di affrontare il grande romanzo di impronta balzachiana (Le due città), il tema del doppio (La giacca verde), il giallo (I racconti del maresciallo), perfino la fantascienza (Lo smeraldo). Un autore straordinario, spesso ingiustamente sottovalutato, quando non dimenticato, nel panorama delle lettere e delle letture italiane, entrambe, come sappiamo, molto basse. In uno dei Nuovi racconti del Maresciallo (Mondadori), intitolato In loving memory, riferendosi all’autore siciliano Ercole Patti, Soldati scrive: “Scrittore squisito, affascinante e mai abbastanza ammirato.” Forse, ora, questo giudizio si adatterebbe anche a lui.

Eppure, basta accostarsi a un libro come questo per capire la grandezza di Soldati. Vino al Vino raccoglie tre reportage che lo scrittore ha pubblicato sulle riviste Grazia (i primi due: 1968/69, 1970-71) ed Epoca (il terzo: 1975).

Non è la sua prima avventura nel racconto-divulgazione delle grandi eccellenze enogastronomiche italiane. In precedenza Soldati ha usato un altro mezzo. Nel 1957, con l’amico poeta Tino Richelmy, realizza un programma televisivo che fa storia: Viaggio lungo la valle del Po. Alla ricerca dei cibi genuini. Grazie a YouTube, digitando “Soldati-Cantarelli” è possibile assistere a sette minuti esemplari del metodo soldatiano nell’approccio all’arte di raccontare il nostro Paese attraverso l’enogastronomia. Guardando quel filmato (che parla di uno dei grandi templi della ristorazione italiana, “Cantarelli” di Samboseto, purtroppo chiuso da decenni) subito prima o subito dopo aver letto le pagine di questo libro si può vivere uno strano e irripetibile fenomeno: il Soldati orale si sovrappone perfettamente al Soldati scritto. Lo stile narrativo è identico: curioso, pedante, brusco, entusiasta, ansioso. Pochi narratori al mondo riuscirebbero a mantenere intatta, davanti alla macchina da presa e alla macchina da scrivere (parliamo di allora) la stessa cifra stilistica ed emozionale.

Mario Soldati aveva gusto per le cose che danno sapore all’esistenza. Non importava se fossero di gran lusso o semplici, purché provocassero un immediato godimento.

In tutte le sue raccolte di racconti – forse è il più grande scrittore italiano in questo genere narrativo – ce n’è almeno uno dedicato al vino. Ne Il vino di Carema (da La Messa dei villeggianti, Mondadori), Soldati espone la sua ideologia enologica: “Il vino, specialmente in Italia, è la poesia della terra. E la poesia non si porta all’ammasso. E i nostri vini sono schietti e squisiti soltanto quando sono un prodotto artigianale: sono preziosi soltanto quando non sono pregiati.”

Da qui discende la categoria del “vino genuino”. Genuino è un aggettivo fondamentale per Soldati: infatti è il sottotitolo sia di Vino al vino che del precedente programma televisivo.

Per affrontare questo libro bellissimo e intenso bisogna prima inquadrare il contesto in cui Soldati compie la sua passeggiata tra le vigne italiane. Si tratta di un’età preistorica. Il suo primo viaggio è del 1968 e in cinquant’anni il mondo del vino italiano ha percorso una distanza siderale, come dall’era dei dinosauri alla rivoluzione industriale. Alcuni esempi. Sassicaia e Tignanello, i due Super Tuscan più famosi e longevi, tra i vini italiani più amati e ricercati nel mondo (un Sassicaia della prima annata può valere come un van Gogh, o quasi), entrano rispettivamente in commercio nel 1968 e 1970. Il fenomeno Franciacorta è di là da venire, solo nel 1990 nascerà il consorzio. Il Sud per la maggior parte esportava vino da taglio. Ora invece, dalla Puglia alla Sardegna si moltiplicano le cantine di qualità, sia quelle “industriali” che a Soldati non piacerebbero, sia quelle più piccole ma anch’esse rivolte al mercato. Allora molti vignaioli facevano il vino per loro stessi (e Soldati va spesso in cerca di loro e dei loro prodotti), adesso molte aziende vitivinicole il loro vino neanche lo vendono in Italia, lo mandano direttamente all’estero. Soldati scrive preoccupato di “decadenza del vino italiano” e va a cercare quei valori che la possano contrastare. Come ultima testimonianza dell’epoca, all’inizio di Vino al Vino compare la lettera di due amici irlandesi a cui Soldati ha inviato una cassa di vino. Essi lo ringraziano, ma si lagnano perché non li conoscono e il loro gusto è altrettanto sconosciuto. Chiedono, gentilmente ma anche sfacciatamente, quelli che per loro e per quasi tutti i consumatori stranieri dell’epoca erano i vini italiani per eccellenza: il Chianti nel classico fiasco e il Verdicchio dei Castelli di Jesi nella celebre bottiglia ad anfora creata dall’ingegner Antonio Maiocchi per l’azienda Fazi Battaglia.

Adesso qualche vignaiolo utilizza ancora il fiasco per parte della sua produzione (un vezzo) mentre la bottiglia di Verdicchio ad anfora è ancora in commercio, ma gli stranieri hanno capito che il vino italiano non è tutto lì. Adesso i fiaschi di Chianti sono appesi come cimeli o come decorazioni ai muri delle trattorie o sotto i pergolati delle osterie.

Il secondo aspetto è che Soldati più volte dichiara di non essere un esperto, di non essere un sommelier, ma solo un viaggiatore, curioso e appassionato. Ama il vino “buono”, il “vino d’uva” come si diceva una volta. Crede che le etichette non siano una cosa buona, definisce la DOC (denominazione d’origine controllata) “il marchio dell’infamia”. Precorre i tempi, in questo senso, perché proprio negli ultimi anni cresce l’insofferenza nei confronti delle sigle, dei marchi, dei disciplinari. Si definisce un “amatore inesperto”, ma quando va a Montalcino intuisce le potenzialità del Brunello e soprattutto esalta il lavoro della famiglia Biondi-Santi che ancora oggi è sinonimo di eccellenza per questo vino toscano, uno dei più ricercati dagli stranieri.

Soldati bracca vini impossibili o periferici, come l’Almonte umbro, già allora introvabile, il Gragnano, oggetto di un’indagine quasi hitchcockiana tra i vicoli di Napoli e il Savuto, vino calabrese dalle origini antichissime, tra i meno noti al grande pubblico. È “tutto teso alla ricerca di un buon Clinto: vino, come già ho detto, così umile che non si trova in commercio ma si vende e si compra solo con trattative dirette e private tra produttori e consumatori; vino, in ogni caso, così a buon mercato, che non vale certo la pena di sofisticarlo, ed è, perciò, l’unico vino sicuramente e sempre genuino”. Però non fa bene: di queste uve sono proibite sia la produzione che la vendita per la presenza eccessiva di alcol metilico. Quello della “strage del metanolo” che nel 1989, a causa di un vino adulterato, provocò ventinove vittime.

Mario Soldati in questo viaggio, a chi si intenda un po’ di vino, può apparire talvolta ingenuo. Però, scorrendo le pagine, anticipa anche situazioni e movimenti che cinquant’anni dopo saranno d’attualità, come la lotta allo spreco alimentare. Soldati si siede in una trattoria da due soldi, all’aspetto, e deve attendere un tempo infinito per pranzare. Mangia bene, alla fine. E poi scopre il motivo del ritardo: i proprietari sono così poveri che non tengono nulla in dispensa e comprano al volo solo quello che serve per i piatti ordinati. Cinquant’anni dopo, con le dovute differenze, grandi ristoranti e grandi cuochi propugnano la spesa consapevole: si utilizza tutto quello che si acquista.

Ingenuo, qualche volta, mai fuori dal mondo. Però Mario Soldati non solo è un grande divulgatore, soprattutto è un formidabile narratore. Era intrigato dagli esseri umani e dai loro misteri. Questo libro, dunque, va preso per quello che è in realtà, uno straordinario racconto dell’Italia, un viaggio alla scoperta di genti e luoghi. Artigiani del vino, tutti con una storia, tutti poeti.

“E il vino? Cosa c’entra il vino? Oh, se c’entra! Il vino è come la poesia, che si gusta meglio, e che si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita, le altre opere, il carattere del poeta, quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato, con la sua educazione, con il suo mondo. La nobiltà del vino è proprio questa: che non è mai un oggetto staccato e astratto, che possa essere giudicato bevendo un bicchiere, o due o tre, di una bottiglia che viene da un luogo dove non siamo mai stati” (p. 94).

Soldati assaggia i vini e le vite altrui. Segue una bambina che porta un bottiglione di vino, ascolta due clienti di una sordida trattoria che discutono attorno a un’eredità. Non c’è stato, nella letteratura italiana del Novecento, un meraviglioso osservatore di vite altrui come lui. Quasi un voyeur, in senso buono. Da “amatore inesperto” Soldati non si avventura nei suoi racconti sulla civiltà del vino su “sentori di fragole del sottobosco, carciofi al vapore e vaniglia mantecata”, non si cimenta con astruse degustazioni da sommelier (nel 2016 gli iscritti ai corsi dell’AIS sono aumentati del 50 per cento, ormai tutti si intendono di vino), ma mette in relazione la terra con il vino, la storia con le persone. Soldati fa qualcosa che è sempre più raro nel mondo del giornalismo digitale. Va in strada. “Fare sul serio la conoscenza di un vino (…) significa andare sul posto e riuscire a farsi condurre esattamente in mezzo a quei vigneti da cui si ricava quel vino.” Soldati pone il vino nel suo contesto, nella sua geografia fisica e umana. Ogni pietra, ogni scorcio gli ricordano qualcosa, un altro scrittore (Vitaliano Brancati, Giacomo Noventa, amico poeta tanto amato), un’altra terra. Descrive esseri umani, vestiti e arredamenti con pennellate agili che restano nella memoria perché hanno il tocco del grande autore. Il nobile siciliano: “Ecco: nell’ombra del grande viale di castagni, nella pura aria già alpestre, in questa perfetta e struggente illusione di Piemonte, ci viene incontro adagio, sorridente, tranquillo, di un’eleganza antica e moderna insieme, il Barone Carmelo Nicolosi di Villagrande. È alto, magrissimo, scavate le guance brune: capelli grigio neri, lenti sfumate dall’alto in basso, digradanti dal bruno grigio all’incolore. Ha giacca e pantaloni di grisaglia leggera, grigio perla: maglietta rollcollar candida, all’ultima moda. Un uccello della specie dei trampolieri.” Il produttore calabrese: “Appartiene a un’antica famiglia del luogo. Francesco Piro, impiegato di banca. Per l’aspetto delicato e signorile, lo sguardo vivo nel volto pallido, il tratto gentilissimo, il profondo e religioso rispetto per la cultura, lo associo ai più cari amici meridionali, come Ercole Patti e come Sandro De Feo. Piro va all’ufficio ogni giorno a Cosenza, ma abita gran parte dell’anno a Rogliano, insieme alle cecoviane sorelle, nella vecchia casa rinnovata con raffinatissimo gusto: mobili ottocenteschi spaziati e lustri: l’arredamento che preferisco e che ho scelto, fino al punto che potevo, anche per me.” “Le cecoviane sorelle”: straordinario.

E così, alla fine del viaggio, oltre il vino, anzi con il vino, si può dire di aver degustato grande letteratura. Questo libro ne fa parte, senza timore di smentite.

E davanti a una bottiglia di un grande vino italiano, di quelli che forse Soldati non conosceva ma che avrebbe apprezzato, brindiamo a tutti quelli che, come lui, hanno saputo raccontare l’Italia e gli italiani con affetto e ironia, con simpatia e puntigliosità. Senza sconti, tra miseria e nobiltà, per citare il film del grande Totò, anch’egli ricordato nel libro. Perché il vino aiuta a capire, apre la mente e anche i cuori. Invita al dialogo, avvicina le persone. Non è un luogo comune, e se vi fosse qualche dubbio in merito, ecco come lo spiega Mario Soldati alla conclusione del racconto Una bottiglia di Chambave Rouge, contenuto in 44 novelle per l’estate (Mondadori): “Il vino tradisce. E ‘tradire’ significa prima di tutto ‘ingannare’. Ma quando si dice che il vino tradisce, s’intende che il vino inganna la volontà di nascondere, agli altri e forse anche a se stessi, il proprio animo. In questo caso, dunque, ‘tradire’ significa ‘rivelare’.” Consiglio la lettura con un rosso vivace, Barbera o Bonarda. Vini apparentemente semplici, ma dal grande spessore. Come Mario Soldati.


ROBERTO PERRONE