Bisogna andare dal vino,
non che il vino venga da te.
FILIBERTO LODI
Né la poesia né la realtà né il vino possono essere misurati con l’anello dell’avaro. Un appunto a San Bernardino (e a Luigi Veronelli): “le buttiglie” si conoscono “a le insegne”, il vino no.
Un giorno il mio vecchio maestro Gaetano De Sanctis, sommo storico e filologo dell’antichità greca e romana, volle esprimermi in poche parole tutti i suoi dubbi sull’estetica che trionfava in quegli anni. Non si riferiva a Croce, ma ai facili e troppo facili seguaci, i quali semplificavano fino al ridicolo il metodo crociano:
“Mi ricordano” disse De Sanctis “l’avaro del Goldoni. Il contadino gli porta le uova dalla campagna. E l’avaro le misura con un apposito anello. Se l’uovo non passa nell’anello, lo accetta. Questo è poesia. Se invece passa, se è troppo piccolo, lo rifiuta. Questo non è poesia.”
La semplificazione, ahimè! il primo, il più ovvio, e forse il più necessario di tutti gli strumenti della nuova civiltà consumistica, la semplificazione ormai ci sta travolgendo.
Se, infatti, il numero è legge praticamente infrangibile: se il benessere dell’umanità dipende davvero, come sembra che dipenda, dalla produzione e dalla distribuzione di oggetti tra di loro identici e ripetuti ciascuno nel massimo possibile quantitativo: e se, perciò, l’insopprimibile istinto che ogni essere umano prova di distinguersi da ogni altro è senza pietà conculcato o almeno limitato a diversificazioni superficiali, al contentino di piccoli trucchi, alle confezioni, agli appellativi come, per esempio, i colori delle carrozzerie o i nomi dei carburanti: chiaro che fino alla futura epoca lontana in cui il benessere, dilagando, non avrà trasformato tutta l’umanità in un immenso agglomerato di élite circolanti e sfumanti l’una nell’altra, fino a quando ogni individuo non desidererà di assomigliare solo a se stesso, certo di godere il medesimo minimo di ricchezza, libertà e possibilità capricciosa concesso a tutti gli altri, fino a quel giorno la propaganda pubblicitaria indispensabile ai consumi dovrà basarsi sull’assurdità delle statistiche, sulla goffaggine delle analisi di mercato, sui rozzi miti dei mass media, dovrà insomma applicare melanconicamente questo schematismo.
Inconsapevolmente, i critici letterari italiani degli anni venti e trenta adottarono cotesti nuovi metodi nel presentimento dell’attuale epoca divulgativa e numerolatra. Era numerolatra anche il fascismo, e non per nulla la riforma fascista della scuola imponeva le comicissime “analisi estetiche” ai fanciulli del ginnasio inferiore. Le mode successive al fascismo, la marxista e la strutturale e la esistenzialista, continuavano, cambiando schemi, lo schematismo. Era sempre la stessa operazione semplificatrice. Con la pigra scusa o anche col sincero ideale dell’uguaglianza, invece di innalzare gli scolari abbassavano la scuola: invece di arricchire gli uomini impoverivano la cultura. Non volevano capire o non capivano che le semplificazioni, anche a scopo didattico, sono sempre menzogne: e che dalle menzogne non poteva nascere vera uguaglianza né vera cultura.
A questo punto, il susseguirsi delle rivoluzioni culturali ha ben poca importanza. Si sostituiva una formula all’altra, ma era sempre una formula. Come se il primo anello con cui si pretendeva di misurare l’uovo poetico fosse stato di legno, il secondo di ferro, il terzo di ceramica. Sempre un anello era. Mentre la poesia è immisurabile, ineffabile, avvicinabile soltanto caso per caso, autore per autore, e commentabile soltanto da persona a persona, da critico a lettore, da maestro ad allievo, con la grazia dell’amore e con la pazienza e le sorprese dello studio storico e filologico.
Nulla di più diverso dai metodi pubblicitari, con cui si tende a raggruppare, a catalogare e imperiosamente definire: nulla di più contrario. Ed è la medesima sorte, che nell’attuale boom consumistico, prima in Francia e poi in Italia, è toccata al vino. Per quanto strano sembri, il raffronto con le forme più pedagogiche dell’attuale critica letteraria avvia naturalmente a una conclusione drammatica il racconto di questi miei tre viaggi d’assaggio enologico! Una maggioranza sempre crescente, in tutto il mondo, crede che il vino sia un oggetto di consumo come tanti altri, sottoposto alle normali, note, ferree leggi della produzione industriale e della distribuzione commerciale: mentre il vino, appena supera un certo livello, davvero minimo, di qualità, appena può comunemente giudicarsi buono, sano, genuino, bevibile, è ben altro: qualcosa di più, o forse anche qualcosa di meno: perché il vino sta in un rapporto diretto con ciascuno di noi, un rapporto momentaneo, individuale e quasi incomunicabile agli altri.
L’amico mio Luigi Veronelli non può certo essere accusato di schematismo: la sua ricerca e la sua passione aderiscono minuziosamente alla sfuggente realtà del vino e dei vini: si articolano in uno spicinìo strenuo, esaltante, inebriante. Se dovessi, tuttavia, fargli un appunto, questo riguarderebbe il suo ottimismo, la sua ingenuità, e, non ostante le sue non rare riserve in senso contrario, non ostante le sue continue lodi dei vini innominati e artigianali, riguarderebbe la sua “fiducia nell’etichetta”.
Veronelli prepone, a uno dei suoi splendidi cataloghi, uno slogan scovato negli scritti di San Bernardino da Siena. Eccolo: “A che si cognoscono le buttiglie, eh? A le insegne.” Rispondendo a San Bernardino e a Luigi Veronelli:
“Le buttiglie, sì: ma non il vino.”
Come ho già detto e dimostrato fino all’esasperazione, l’etichetta è, nel migliore dei casi, soltanto una parziale garanzia della bontà del vino in bottiglia.