CONCLUSIONE. La prova dell’anello Bisogna andare dal vino, non che il vino venga da te. FILIBERTO LODI Né la poesia né la realtà né il vino possono essere misurati con l’anello dell’avaro. Un appunto a San Bernardino (e a Luigi Veronelli): “le buttiglie” si conoscono “a le insegne”, il vino no. Un giorno il mio vecchio maestro Gaetano De Sanctis, sommo storico e filologo dell’antichità greca e romana, volle esprimermi in poche parole tutti i suoi dubbi sull’estetica che trionfava in quegli anni. Non si riferiva a Croce, ma ai facili e troppo facili seguaci, i quali semplificavano fino al ridicolo il metodo crociano: “Mi ricordano” disse De Sanctis “l’avaro del Goldoni. Il contadino gli porta le uova dalla campagna. E l’avaro le misura con un apposito anello. Se l’uovo non passa nell’anello, lo accetta. Questo è poesia. Se invece passa, se è troppo piccolo, lo rifiuta. Questo non è poesia.” La semplificazione, ahimè! il primo, il più ovvio, e forse il più necessario di tutti gli strumenti della nuova civiltà consumistica, la semplificazione ormai ci sta travolgendo. Se, infatti, il numero è legge praticamente infrangibile: se il benessere dell’umanità dipende davvero, come sembra che dipenda, dalla produzione e dalla distribuzione di oggetti tra di loro identici e ripetuti ciascuno nel massimo possibile quantitativo: e se, perciò, l’insopprimibile istinto che ogni essere umano prova di distinguersi da ogni altro è senza pietà conculcato o almeno limitato a diversificazioni superficiali, al contentino di piccoli trucchi, alle confezioni, agli appellativi come, per esempio, i colori delle carrozzerie o i nomi dei carburanti: chiaro che fino alla futura epoca lontana in cui il benessere, dilagando, non avrà trasformato tutta l’umanità in un immenso agglomerato di élite circolanti e sfumanti l’una nell’altra, fino a quando ogni individuo non desidererà di assomigliare solo a se stesso, certo di godere il medesimo minimo di ricchezza, libertà e possibilità capricciosa concesso a tutti gli altri, fino a quel giorno la propaganda pubblicitaria indispensabile ai consumi dovrà basarsi sull’assurdità delle statistiche, sulla goffaggine delle analisi di mercato, sui rozzi miti dei mass media, dovrà insomma applicare melanconicamente questo schematismo. Inconsapevolmente, i critici letterari italiani degli anni venti e trenta adottarono cotesti nuovi metodi nel presentimento dell’attuale epoca divulgativa e numerolatra. Era numerolatra anche il fascismo, e non per nulla la riforma fascista della scuola imponeva le comicissime “analisi estetiche” ai fanciulli del ginnasio inferiore. Le mode successive al fascismo, la marxista e la strutturale e la esistenzialista, continuavano, cambiando schemi, lo schematismo. Era sempre la stessa operazione semplificatrice. Con la pigra scusa o anche col sincero ideale dell’uguaglianza, invece di innalzare gli scolari abbassavano la scuola: invece di arricchire gli uomini impoverivano la cultura. Non volevano capire o non capivano che le semplificazioni, anche a scopo didattico, sono sempre menzogne: e che dalle menzogne non poteva nascere vera uguaglianza né vera cultura. A questo punto, il susseguirsi delle rivoluzioni culturali ha ben poca importanza. Si sostituiva una formula all’altra, ma era sempre una formula. Come se il primo anello con cui si pretendeva di misurare l’uovo poetico fosse stato di legno, il secondo di ferro, il terzo di ceramica. Sempre un anello era. Mentre la poesia è immisurabile, ineffabile, avvicinabile soltanto caso per caso, autore per autore, e commentabile soltanto da persona a persona, da critico a lettore, da maestro ad allievo, con la grazia dell’amore e con la pazienza e le sorprese dello studio storico e filologico. Nulla di più diverso dai metodi pubblicitari, con cui si tende a raggruppare, a catalogare e imperiosamente definire: nulla di più contrario. Ed è la medesima sorte, che nell’attuale boom consumistico, prima in Francia e poi in Italia, è toccata al vino. Per quanto strano sembri, il raffronto con le forme più pedagogiche dell’attuale critica letteraria avvia naturalmente a una conclusione drammatica il racconto di questi miei tre viaggi d’assaggio enologico! Una maggioranza sempre crescente, in tutto il mondo, crede che il vino sia un oggetto di consumo come tanti altri, sottoposto alle normali, note, ferree leggi della produzione industriale e della distribuzione commerciale: mentre il vino, appena supera un certo livello, davvero minimo, di qualità, appena può comunemente giudicarsi buono, sano, genuino, bevibile, è ben altro: qualcosa di più, o forse anche qualcosa di meno: perché il vino sta in un rapporto diretto con ciascuno di noi, un rapporto momentaneo, individuale e quasi incomunicabile agli altri. L’amico mio Luigi Veronelli non può certo essere accusato di schematismo: la sua ricerca e la sua passione aderiscono minuziosamente alla sfuggente realtà del vino e dei vini: si articolano in uno spicinìo strenuo, esaltante, inebriante. Se dovessi, tuttavia, fargli un appunto, questo riguarderebbe il suo ottimismo, la sua ingenuità, e, non ostante le sue non rare riserve in senso contrario, non ostante le sue continue lodi dei vini innominati e artigianali, riguarderebbe la sua “fiducia nell’etichetta”. Veronelli prepone, a uno dei suoi splendidi cataloghi, uno slogan scovato negli scritti di San Bernardino da Siena. Eccolo: “A che si cognoscono le buttiglie, eh? A le insegne.” Rispondendo a San Bernardino e a Luigi Veronelli: “Le buttiglie, sì: ma non il vino.” Come ho già detto e dimostrato fino all’esasperazione, l’etichetta è, nel migliore dei casi, soltanto una parziale garanzia della bontà del vino in bottiglia. Lessico della critica enologica e sua inadeguatezza. Non esiste il vino in sé, ma il vino nella vite, nel ricordo, nella fantasia. Giustificazione di un metodo. Qual è, dunque, l’ con cui la critica enologica odierna giudica un vino, e come, mi si chiederà, come si dovrebbe, invece, giudicarlo? Aprite, a caso, qualunque libro che parli di vini. Ogni stagione, ormai, se ne pubblicano di nuovi. Veronelli, come ho detto, è il meno convenzionale dei nostri autori: si impegna, sempre, in una disperata, feroce lotta con il lessico: è la sua gloria. Ma gli altri! anello Gli altri, quasi tutti: osservate come ricorrano, esasperando il lettore, ai medesimi aggettivi, consunti come i vecchi tarocchi delle osterie di una volta! Per il colore. Dei bianchi: bianco carta, paglierino, verdolino, giallo ambra, dorato, rossastro, con riflessi mattone, pallido, con trasparenze ramate, ecc. Dei rossi: rubino, granato, porporino, violaceo, arancione (o, peggio, aranciato!), paonazzo, ecc. Per la limpidezza: brillante, cristallino, lucido, ecc. Per il profumo: vinoso, pronunciato, etereo, di viola, di lampone, di rosa appassita, di mandorla, di giaggiolo, di resina, di catrame; e delicato, continuo, tenue, personale, caratteristico, ecc. Oppure si parla di aroma; o di bouquet, come se la parola francese bastasse a risolvere il problema. Dice in proposito il Littré: “Bouquet: odore, profumo che esala il vino: così detto per assimilazione con il buon odore di un bouquet (ossia: mazzo di fiori).” Ecco tutto. Dicendo “bouquet” si fa bella figura, ma si dice semplicemente: profumo. Del sapore: secco, asciutto, rotondo, pieno, morbido, abboccato, amabile, sulla vena, pastoso, liquoroso, dolce, dolcigno, acidulo, ecc; e amaro, amarognolo; e sapido, erbaceo, fresco, passante, acidulo, ecc.; e frizzantino, frizzante, spumante, pungente, vellutato, neutro, oleoso, nervoso, austero, tannico, astringente, aspretto, allappante, metallico, piccante, bruciante, brusco, fugace, ecc.; e fruttato, leggero, tenue, delicato, di corpo, magro, generoso, armonico, equilibrato, netto, franco, duro, con retrogusto, ecc. ecc. Provate, adesso, ad accoppiare, triplicare, quadruplicare alcuni di questi aggettivi in tutte le combinazioni possibili: provate ad inventarne degli altri. Che cosa otterrete? Sempre qualcosa che sarà infinitamente lontano dalla sensazione complessa, inarticolabile, viva che dà un vino. Non ci si vuole mettere in testa che il colore di un vino dipende dalla luce in cui lo si guarda. Ora, non c’è dubbio che esistano infinite varietà di luci, luci di sole, luci d’ombra, luci di giornate limpide e di giornate piovose, e luci di lampade di ogni qualità e intensità. Non abbiamo mai una luce esattamente identica a un’altra. E, ogni volta, “in quella luce”, il colore di un vino sarà o poco o molto diverso. Così, e anche di più, per il profumo e per il sapore. Dipende dal luogo dove ci si trova, dipende dal cibo consumato prima, o anche dalla lunghezza e dalla qualità del nostro digiuno: e dipende dalla costituzione di ciascuno, da come ciascuno si sente in quel momento, dalla giornata/dalla compagnia. Dipende, soprattutto, dai ricordi che ciascuno chiude in se stesso: ricordi di altre luci, altri colori, altri profumi, altri sapori che ha provato in vita sua, ricordi che giacciono indelebili nel suo sistema nervoso e di cui molte volte non ha nemmeno coscienza. Dipende, infine, dalle volte precedenti in cui ha gustato lo stesso vino (ma c’è, mai, davvero, vino?) o un vino simile. Un vino bevuto, anche parecchi anni prima, in un momento in cui si era particolarmente felici, per esempio innamorati e vicini alla persona amata, parrà sublime anche se è tutto il contrario: per distinguere, bisognerebbe non avere vissuto. uno stesso Ecco perché il mio modo di giudicare un vino è così semplice e sincero: un vino (appena, ripeto, supera un minimo di qualità) bisogna considerarlo come il volto di una fanciulla, come un cielo, un tramonto, un paesaggio, un’opera d’arte, come qualcosa, insomma, che vive e che fa parte della nostra vita, non come qualcosa che sia staccato da noi, e definibile rigorosamente in se stesso. Sono sensazioni, queste, che devono essere comunicate agli altri non isolandole, come su un tavolo anatomico e a forza di termini fissati in precedenza, ma integrandole più diffusamente possibile nel racconto della giornata, dell’ora, del momento: nella descrizione del luogo, della stanza, del pranzo, della compagnia: e nella memoria del nostro individuale e particolare stato d’animo. Se qualcosa ha un’importanza assoluta, caso mai, se qualcosa rivela e tradisce, per tutti, la qualità intima di un vino, è piuttosto la personalità di chi lo ha prodotto: sempre che si tratti di un produttore vero, e cioè serio, onesto, esperto, tecnico, tradizionale, soprattutto appassionato della vinificazione: non qualcuno che faccia il vino perché ne ricava un vantaggio economico, ma qualcuno che non potrebbe non farlo perché sa che tale è il suo destino: così come un pittore vero non potrebbe non dipingere e un vero scrittore non potrebbe non scrivere: un artigiano, in una parola: quasi un artista. soltanto Mio contraddittorio amore per Croce e per Sainte-Beuve. Un ritratto mi conquista più di una critica. E mi viene in mente, adesso, il seguito e la conclusione di quel mio antico colloquio con Gaetano De Sanctis. Ero, già allora, fervente ammiratore di Sainte-Beuve: i sessanta volumi della sua vivissima opera figurano oggi nella mia biblioteca al posto d’onore: alzando gli occhi mentre scrivo, li vedo anche in questo momento. Sainte-Beuve mi affascinò quando lo cominciai a leggere e mi affascina sempre. L’estetica e la filosofia in cui credo sono quelle di Benedetto Croce. Ma, contraddittoriamente (Benedetto Croce era il primo a riconoscere la validità e la vitalità delle contraddizioni), penso che se si deve distinguere tra il giudizio che si dà di un’opera d’arte e il giudizio che si dà del suo autore, il ritratto della persona dell’autore, sullo sfondo del suo tempo e del suo ambiente, presenta un interesse molto maggiore di un esame oggettivo dell’opera: tirate tutte le somme, serve a interpretarla meglio di qualunque analisi estetica. Forse sbaglio, forse la mia contraddizione è una vera e propria antilogia, forse il ritratto dell’artista non è in nessun caso una critica dell’opera d’arte. Dirò, tuttavia, in extremis, che un buon ritratto mi conquista più di una buona critica, e che il ritratto aggiunge sempre qualcosa alla comprensione dell’opera d’arte: se non altro all’ammirazione di quel miracolo che l’opera d’arte sempre è. Ma non viceversa. L’analisi estetica dell’opera non aiuta a capire l’autore nella stessa misura che la conoscenza dell’autore e della sua vita aiuta a capire l’opera. Perché non si può, in fondo in fondo, dare completamente torto al metodo dell’anello. Quell’errore contiene una parte di verità. Il succo ultimo di ogni analisi estetica di un’opera d’arte, come d’ogni analisi organolettica di un vino, non è forse: bello o brutto, buono o cattivo? Ma quante osservazioni si possono fare, invece, sulla vita e sul carattere di un uomo! Passerella finale! Catabasi e anabasi dei Mialich, dalle montagne dell’Erzegovina alle alture lucane dove cresce l’Aglianico. Per esempio: Martino Miali di Martina Franca e suo fratello Francesco mi hanno concesso di gustare il loro “Aglianico dei colli lucani” e il loro “Bianco Martina” come nessun altro produttore meno ingenuo mi avrebbe concesso. Nel sole e nel vento della mattina invernale, contro il cielo cobalto sparso di nuvole candide, la facciata ancora vagamente spagnolesca dello stabilimento Miali, rosea a riquadri bianchi, e la grande scritta liberty della cimasa, erano lo sfondo vero e appropriato alla figura alta, massiccia, rossiccia di Martino. I suoi modi gentili e pacati, il suo sguardo ingenuamente furbesco, la sua conversazione lenta e precisa dicevano abbastanza della lontana, ma evidentissima, origine slava. Chi altri, se non un Mialich, avventuroso immigrato da Oriente a Occidente, dai monti dell’Erzegovina alle sponde dalmate, e da queste alle pugliesi, e da queste ancora all’altipiano delle Murge, avrebbe avuto l’idea di spingersi ancora più a occidente, e di tornare in alto, sui colli al confine della provincia di Bari e della Lucania, e si sarebbe, come lui, lasciato incantare da quei grappoli cilindrici, compatti, solidi, fitti di grossi acini sferici e ricoperti di abbondante pruina, da quelle vigne, tutte di Aglianico, che gli apparivano rigonfie e cariche contro i raggi del sole occiduo e contro il cupo, svettante profilo del Vùlture? “Mi faceva pena,” dice Miali, “vedere quelle belle uve finire all’ammasso!” Certo, come scrive il Bordignon nel primo articolo del quarto volume dei l’Aglianico era da tempo introdotto in territorio pugliese “per migliorare i vini da taglio” ma, allo stesso tempo, aveva dimostrato “di non adattarsi ai terreni di pianura e di bassa collina, perché poco adatto a resistere in questo clima caldo-arido. Sulle colline alte, come a Spinazzola, Gravina, Altamura, fornisce invece un buon prodotto”. Guidato, dunque, da un istinto sicuro e ancestrale, Martino Miali si è ben guardato dal trapiantare quelle vigne o dal mescolare con altre quelle uve. Acquista le uve dai possidenti delle alte colline, le carica sui camion, le trasporta a Martina Franca, nel suo stabilimento, dove vinifica. Principali vitigni d’Italia, Il nome “Aglianico” pare sia una corruzione da “Ellenico”, cioè Greco. Ma il Carlucci, nell’ del Viala e Vermorel (Paris, 1909, tomo V, p. 83), sostiene che non si tratta d’altro se non del famoso Falerno dei Romani. Chi può dire che cos’abbia persuaso il Miali alla rischiosa scelta, che oggi è sua gloria? Ampélographie Nella schiettezza e nello strano vigore di questo Aglianico ritrovo in qualche modo il destino, la fantasia e il carattere fedele dell’ autore del vino. Passerella finale: il connubio di Solazzi-la-genuinità e di Anzilotti-la-tecnica fa sì che il Bianchello superi indenne il viaggio sino alla cerchia dei Navigli. Così a Fano. Il meraviglioso Bianchello, che ci si ostina goffamente a chiamare “del Metauro” mentre basterebbe chiamarlo “di Fano”, è prodotto da Giovanni Solazzi e Guglielmo Anzilotti, suocero e genero. Tutti e due sono laureati in agraria. Ma il primo è un fanese, appassionato del Bianchello soprattutto perché è il vino della sua terra e delle sue terre. Il secondo è un fiorentino, razionale, preciso, e tecnico modernissimo: così moderno, però, che conosce al millimetro i limiti invalicabili della modernità stessa. Difficilmente sarebbe possibile trovare due tipi e due caratteri così opposti, accomunati in un solo destino operativo. Alti ambedue. Ma, il Solazzi, grosso, bianco e roseo, bonario, tradizionalista, marinaro, uomo attivissimo e pratico d’affari, vero marchigiano della costa e del Nord. L’Anzilotti, al contrario, snello, bruno, pungente, teorico, di interessi e di conoscenze cosmopolite, uomo non solo del secolo presente ma del futuro, piccante e confortante esemplare di una superstite fiorentinità: di quando Firenze era la punta di diamante del progresso civile. Nasce dalla franca associazione di questi due opposti un prodotto perfetto. Me ne sono portate a Milano alcune bottiglie. Ebbene, dirò che, fra i tanti vini che dal luogo d’origine hanno fatto il viaggio alla cerchia dei Navigli, fino agli antichi e brumosi orti di Sant’Ambrogio dove abitavo, nessuno si conservò così bene come il sorprendente Bianchello. in società Generalmente, il grande handicap dei vini genuini, leggeri, secchi, simili al Bianchello Solazzi-Anzilotti, è proprio questo: “viaggiano” male. Il Bianchello Solazzi-Anzilotti resiste, invece, integro e immacolato. Che cosa potrei dire, ora, se mi limitassi al , ossia all’analisi organolettica? Dovrei ripetere una delle solite filastrocche: “Di colore giallo paglierino, profumo delicato, sapore asciutto, sapido, lievemente acidulo, di medio corpo, armonioso. Vino da pasto comune e anche fine o da pesce se invecchiato almeno di un anno.” E con questo? Quanti altri vini potrebbero fregiarsi della medesima serie di aggettivi! giudizio dell’anello Ma è proprio il metodo sainte-beuviano che qui soccorre. Come negare che l’impresa rarissima e, in questa misura, addirittura unica e trasecolante, del viaggio superato senza alcun danno, come negare che sia una conseguenza dell’inconsueto connubio di due esseri umani tra di loro così diversi? da una parte, dell’attaccamento del suocero alla propria terra, ? dall’altra parte, della matematica esattezza con cui il genero ha saputo provvedere agli accorgimenti tecnici, ma una stabilità che in nessun grado ne alterasse la natura, come troppo spesso accade? genuinità del vino stabilità del vino Passerella finale: ricordi dell’Ottocento nell’Albana e nel Sangiovese di Luciano Bufferli. Il nobiluomo Luciano Bufferli, presso Imola, a Dozza, estremo confine delle Romagne, cura personalmente la sua Albana e il suo Sangiovese. Lo aiuta il giovane cantiniere Anselmo Foresti. E anche qui, indagando e osservando più a lungo, avrei forse potuto scoprire, all’origine della squisitezza del vino, una benefica collaborazione tra indoli diverse. Bufferli è piccolo, nervoso, attempato, scuro di carnagione ma celtico di cranio, quasi bretone o gallese, e signorile di quella signorilità tutta naturale, spontanea, spirituale, che tuttavia si trova di rado ne’ signori anche di nome, e che consiste in una gentilezza di modi che non pare ostentato ornamento, ma piuttosto insopprimibile specchio di una gentilezza d’animo. Foresti è di media statura, trentenne, magro, forte, tranquillo, adusto di pelle, biondo, occhicerulo, insomma longobardo: guardandolo, ricordo un’altra volta che fino ai tempi di Stendhal tutta l’Emilia era comunemente considerata e chiamata Lombardia. Notte stellata e già fredda. Bufferli ci aveva ricevuto nella sua villetta ottocentesca, alta sui colli, e attigua all’azienda vinicola. Dopo averci fatto visitare le cantine, che sono sotto la villa, ci aveva accolto in salotto, attorno al caminetto, dove tosto divampava un gran fuoco di vecchi pali di vigna. Sui divani e sulle poltrone ricoperti dalle bianche fodere, sedevano con noi, misti a noi in cordialissima conversazione, il Bufferli, il Foresti e tre ragazze del contado venute in visita con due bambini. Bevevamo, tutti insieme. Albana e Sangiovese del ’69. Il Sangiovese alzava 13 gradi, l’Albana più di 14! E tra tante Albane e tanti Sangiovesi che avevo assaggiato, alcuni anche deliziosi, nessuno aveva questo profumo tagliente, questo sapore schietto e deciso. Era davvero un taglio, uno strappo al secolo presente, era un improvviso spaccato del secolo scorso: o, forse, lo era per me e per i miei compagni di viaggio: per Bufferli, per Foresti e per le ragazze era, al contrario, una continuazione inconsapevole e pia, la mia interrotta degustazione del vino dei loro avi. Infatti Bufferli, alzando ad ora ad ora il bicchiere verso la fiamma, diceva come fosse vicino, a pensarci bene, per lui il passato: come, nei terribili inverni dal ’43 al ’45 (allorché i tedeschi tenevano da questa parte, sulla linea Gotica, l’Appennino tosco-emiliano), come credesse di avere già vissuto quei momenti, mentre in realtà ricordava i racconti risorgimentali di suo nonno, antico ufficiale della Guardia Pontificia, passato nel ’59, con tutti i patrioti, sotto gli ordini del Generale Fanti, a combattere gli austriaci... E io dicevo a mia volta di mio nonno che parlava addirittura di Napoleone Primo e della campagna di Russia come se le avesse vissute lui, mentre, ovviamente, erano i ricordi e i racconti di un suo zio... Si riflettevano le fiamme del caminetto nei bicchieri, e il rosso del Sangiovese pareva mescolarsi, nella sua stessa liquida sostanza, di quei bagliori gialli e guizzanti. A che scopo, mi chiedo ora, distinguere? A che pro separare sensazioni che erano meravigliose appunto perché così fuse e unite? Il Sangiovese di Bufferli sarà sempre, per me, un vino di guerra, di gloria e di umanissima fratellanza. Passerella finale: Gradimiro Gradnik e i meravigliosi vini del Collio alle frontiere tra scienza e poesia (con una guida all’assaggio frazionato). E a Plessiva di Medana, sul confine italo-sloveno, come distinguere il sapore dei giovani vini che Gradimiro Gradnik, al principio della lunga e numerosa degustazione, spillò per me dalle botti verniciate di verde, come distinguere quel sapore dalle fattezze erculee e dagli sguardi astuti e suadenti dello stesso Gradnik? Nel cortiletto che per tre lati chiude, sulla cresta del colle, l’antico monastero o fortezza, oggi dimora e azienda del mio amico Gradnik, un immenso leccio sferico trionfava verso la strada che di lì a cento metri appartiene alla Repubblica del Maresciallo. Gerani rossi e rosa erano sui davanzali di tutte le finestrelle quadrate delle mura grigio perla: cascate di gerani, di margherite e di zinnie ornano e fiancheggiano gli scalini di pietra. Gradnik non è soltanto il padrone, il viticoltore, il tecnico, l’enologo: ma, anche, l’unico operaio della sua piccola, inimitabile azienda. Suo zio Luigi era poeta: e lui stesso, come autore di vino, è, a suo modo, poeta: fa tutto da sé. Per celebrare la fondazione dell’Azienda Gradnik inventò, allora, “il vino del centenario” (1870-1970): mescolò Pinot Grigio, Pinot Bianco e Traminer: un vino rosato, colore di un Bacardi denso, che alzava, in quella prima annata della sua produzione, 15 gradi. Il Sauvignon, il Pinot Grigio, il Pinot Nero di Gradnik sono, in assoluto, tra i vini più eccelsi che io abbia mai provato. Ed è stato Gradnik a insegnarmi il metodo razionale e infallibile per percepire, se c’è, il profumo di un vino, specialmente bianco. Ma Gradnik mi insegnò anche (e fu per me una rivelazione, né lessi, di ciò, finora, in nessun testo di enologia) che il sapore di ogni vino è, per sé, complesso: e che, per giudicarne davvero, bisogna cercare di “frazionare” l’operazione nei cinque successivi momenti in cui naturalmente l’operazione avviene. Ciascuno di tali momenti è meglio atto a cogliere uno dei cinque gusti piuttosto che gli altri quattro: meglio atto, quindi, a stabilirne l’intensità relativa. 1. Primo momento e primo gusto, il dolce. Lo si avverte sulla punta della lingua, sporgendola appena, a fior delle labbra socchiuse. 2. Secondo momento e secondo gusto: il salato. Lo si sente scivolando appena con la lingua verso l’angolo interno della bocca, a destra o a sinistra, e premendo leggermente la lingua contro la guancia. 3. Terzo momento e terzo gusto: l’acidulo, e precisamente l’acidità fissa, quella che tanto è necessaria ai vini vocati all’invecchiamento, come il Raboso, il Brunello, il Barolo e, in genere, tutti i derivati dal vitigno Nebbiolo. In fondo al salato (momento precedente) c’è sempre un sospetto di acidità: e ogni vino, anche il più dolce, o il più asciutto, o il più amaro, ecc., contiene sempre un po’ di acido e di salato. Si percepisce questa acidità fissa, continuando a far scivolare la lingua verso l’interno, fin dove può arrivare. 4. Quarto momento e quarto gusto: l’amaro. Lo si gode pacchiando la lingua in alto, contro il palato. 5. Quinto momento e quinto gusto: l’acidità volatile. La si sente, com’è naturale, nell’attimo in cui il vino abbandonando la cavità orale più si volatilizza: la si sente quasi sulle tonsille, nell’attimo in cui si inghiotte il sorso. Viene il dubbio, e come potrebbe non venire? che Gradnik, enologo-poeta, inventore di vini, abbia fantasiosamente inventato anche quest’operazione Ma provate, per piacere: provate e me ne direte qualcosa. In ogni caso, il gusto e il ricordo del gusto dei vini di Gradnik, lo associo alla magia delle sue istruzioni e alla fiabesca bellezza del paesaggio del Collio, nell’aria libera ed esaltante della vicina frontiera, là dove maturano le sue uve, e dove lui è nato e vive e vinifica. Del resto, proprio oggi, si va scoprendo sempre più come, in profondità, magia e scienza coincidano. frazionata. Passerella finale: tre bottiglie di Raboso Cescon, ovvero un ritratto “sui documenti”. C’è, ora, un produttore che non conosco se non e per avere assaggiato tre bottiglie di un suo vino, che lui a suo tempo mi mandò in omaggio. Una volta tanto, farò appunto come Sainte-Beuve, che nella maggior parte dei casi dedicò i Lundis ad autori lontani nel tempo o nello spazio, scrittori e personaggi che non aveva conosciuto personalmente, molti vissuti in altri secoli, e di cui si occupava lavorando solo “sui documenti”. per lettera Ecco la lettera: Caro dottore, su quel prato, ove Ella ha consumato il picnic con i Conti Marcello di Fontanelle, mio padre ha condotto per mano fino al 1925 i buoi dissodandone il terreno. Successivamente, mio padre si è portato a Rai, frazione di San Polo di Piave, in provincia di Treviso, ove fin dalla mia nascita ha piantato il primo vigneto di Raboso, che ancora oggi dà un vino meraviglioso. Con i modesti frutti della terra io ho studiato e in ossequio alla stessa ho realizzato il primo invecchiamento artigianale di Raboso. Convinto dell’utilità di invecchiare il Raboso ho allestito una cantina d’invecchiamento a San Donà di Piave con l’intento di portare detto vino entro pochi anni a denominazione di origine controllata. Per il Raboso ho realizzato questa simpatica confezione che mi è caro inviarle in omaggio. Grazie, Soldati; per il vino del Piave Ella ha dato la sua penna, io ho dato e do il mio cuore. Cordialmente, Suo Ivan Cescon La lettera era datata da Milano, il 16 novembre 1970, e portava questa intestazione: “Prof. Dott. Ivan Cescon, libero docente di chimica biologica nell’Università di Milano”. Si potrebbe, credo, con la vita di Ivan Cescon, figlio di lavoratori della terra, e oggi professore d’università, scrivere un romanzo alla Cassola, sebbene non mesto come quelli di Cassola. Ma io ho posseduto e, in parte, posseggo ancora, un documento più vivo di qualunque racconto, orale o scritto: il Raboso di Cescon, una bottiglia del ’64 e una del ’62, che ho bevuto, e una del ’61, che per ora tengo lì. Quale stupore! Il Raboso, intendiamoci, è un vino ottimo. Lo si produce, abbiamo visto, sul Piave, e in grandissima quantità. Ma, per una serie di ragioni che non sarebbe facile indagare, è un vino quasi nella sua totalità destinato al taglio o alla lavorazione di aperitivi e liquori. Non è buono da giovane, troppo tannico, troppo acidulo: questa è, forse, la prima delle ragioni. Si è scoperto, si sa che, data appunto la sua alta acidità fissa, sarebbe adatto all’invecchiamento. In pratica, però, non lo si invecchia. Ho dunque provato il Raboso di Cescon. La confezione è, vivaddio, a mano: etichetta manoscritta, con caratteri in cui mi pare di riconoscere la calligrafia dello stesso Cescon. Un nastrino rosso tiene annodato attorno al collo della bottiglia il segmento di un tralcio di Raboso. Oh, non era presuntuoso il professor Cescon: la confezione è davvero nuova, e davvero simpatica. Ma poi, il vino! Quale stupore, sì. Mi piacerebbe fare la prova con i più vecchi e più esperti nostri enologi, il Garoglio, oppure il Ratti, o con quel diavolo di Veronelli: chi di loro, al buio, saprebbe riconoscere, in questo capolavoro, l’umile Raboso? Chi non parlerebbe, che so, di uno ? Châteauneuf-du-Pape Ma ricordo che Giacomo Noventa, che era dei luoghi, aveva in altissima considerazione il Raboso: “È difficile,” diceva, “è quasi impossibile, ormai, trovare un Raboso del Piave buono, vero, vecchio: ma quando lo si trova, è pari ai più grandi vini di tutto il mondo!” Questi, non altri, sono i misteri dei vini d’Italia: una produzione ignota, artigianale, individuale, che supera tutte le prove. L’unica riserva, perciò, che farei al professor Cescon è la seguente: lui desiderava e auspicava la denominazione di origine controllata, che era stata richiesta e che ignoro se, frattanto, venne concessa. Ebbene, ho una paura matta che con la denominazione il Raboso, e perfino il Raboso di Cescon, non sia più così buono. L’epoca arcaica è sempre la vetta di ogni arte: o anche l’epoca decadente, quando il ciclo si chiude per riaprirsi e quando, nella dissoluzione, ricomincia un’inconsapevole nuova maniera. Può anche darsi, per il Raboso, che si tratti di questa seconda vita. Passerella finale: nei vini altoatesini la dirittura e la schiettezza dei Kettmeir. Padre e figlio Kettmeir, Guido e Franco, una sera dell’aprile 1970, alla Mostra-Assaggio di Bolzano, mi rivelarono tutti i segreti dei vini dell’Alto Adige: tutti meno uno, e non dirò quale sia. Confesserò, invece, che fino a quella sera avevo una conoscenza molto sommaria e superficiale dei vini altoatesini. Mi accadde così, l’ho già detto, di gustare, uno dopo l’altro, parecchi vini dei Kettmeir, tutti pregiati, tutti perfetti, e di potere, frattanto, ascoltare un dotto commento relativo a ciascuno, con notizie sul tipo dei vigneti, sui metodi di lavorazione, sulle abituali regole commerciali, ma soprattutto sulle particolari finezze olfattive e gustative... Era come se assistessi allo spettacolo di un film completamente esotico, girato in una lingua a me ignota, e come se il regista stesso del film, seduto accanto a me, non solo mi venisse traducendo via via il dialogo, ma mi spiegasse il senso di quelle costumanze o di quei sustrati storici, la cui conoscenza era necessaria alla comprensione della vicenda. Giuseppe Kettmeir, padre di Guido e nonno di Franco, era già lui ingegnere agronomo, e fu uno dei pionieri dell’esportazione agricola altoatesina in Isvizzera, esportazione oggi così prospera. Guido e Franco erano laureati in economia e commercio, ambedue con tesi relative alla produzione e al commercio dei vini dell’Alto Adige. La cantina Kettmeir lavorava dal 1903 nelle proprie cantine, col sistema “sull’onor” in uso da tempo in Alto Adige come nel Trentino, le uve dei vigneti che sono certamente tra i migliori della zona. Da circa un secolo, infatti, i viticoltori dell’Alto Adige, e anche del Trentino, preferiscono associarsi, e affidare la produzione a cantine sicure e organizzate come quella dei Kettmeir, con lo scopo di ottenere la migliore possibile qualità. Si è fino da allora riconosciuto che, in queste zone, dove la proprietà è molto divisa, il piccolo viticoltore sosteneva difficilmente la spesa di produrre il vino singolarmente, e male affrontava la concorrenza. Oltre duecento viticoltori, che da ricchi possidenti aristocratici, come il Conte Cervin di Castello Enn, vanno fino a piccoli vignaioli, avevano preso l’abitudine di “conferire” le proprie uve, ogni autunno, ai Kettmeir, e di conferirle “sull’onor”. Sull’onore dei conferenti, infatti, le uve sono accuratamente selezionate (la parola sacra è: ); e sull’onore della ditta che procede alla vinificazione e al commercio, i conferenti non chiedono nemmeno il prezzo. Sanno che riceveranno il massimo, ogni volta e in ogni caso. Esiste, per ciò, una apposita Commissione presso la Camera di Commercio di Bolzano. Un anno circa dopo la vendemmia, questa Commissione stabilisce i prezzi giusti per le uve che furono conferite sull’onore: viticoltori e cantine di comune accordo si intendono sul prezzo definitivo della vendemmia precedente basandosi sulla qualità ottenuta e sull’andamento del mercato. auslese Questa, insomma, è la maniera ormai tradizionale di lavorare le uve nell’Alto Adige: le uve di pregio, s’intende. E i proprietari di cantine devono, perciò, non solo fare il mestiere che i francesi chiamano dell’ (colui che mette in cantina) ma anche dell’ (allevatore: colui che segue il divenire e il maturare del vino, distingue il buono dal mediocre, dall’ottimo e dal superlativo: colui che, al momento giusto, interviene con gli accorgimenti giusti, filtraggi, travasi, imbottigliamenti, ecc.). encaveur éleveur I Kettmeir vendevano non solo bottiglie classiche (le cosiddette ) di vino dell’Alto Adige; ma anche bottiglie da un litro. Ambedue i tipi erano vini di sicura origine, buoni e genuini. Ma mentre i primi sono quelli pregiati, finissimi, e in certi casi destinati all’invecchiamento, che avevo gustato alla Mostra di Bolzano, i secondi sono vini normali, comuni, da pasto, buonissimi ma da bere giovani: e questi, confesserò che praticamente non li conoscevo. Una volta, erano vini che si vendevano in fusti o in damigiane: li si chiamava “sfusi”. Allora, precisamente da quindici anni, i Kettmeir, appunto per evitare tagli non autorizzati o mescolanze arbitrarie da parte dei rivenditori, avevano adottato il metodo di presentare questi vini da pasto in bottiglie da un litro, e col nome Il tappo stesso, che era metallico e a pressione, significava semplicemente che si trattava di un vino da consumare subito, diciamo entro un anno. Ma anche questo vino proveniva dai vitigni che gli danno il nome (Terlano, Caldàro, ecc.) e dalle uve che i privati (sono 213, per l’esattezza) hanno conferito sull’onore ai Kettmeir. Ho provato alcune di queste bottiglie. Prima, come ho già detto, non avevo fatto che un esperimento fuggevolissimo, ed ero prevenuto contro tutti i vini, senza distinzione, che si presentassero sotto questa confezione da birra o da acqua minerale. Ho dovuto ricredermi. Per cominciare, ultimamente i fratelli Triunfo, della Riviera di Chiaia a Napoli, mi hanno spedito una partita di bottiglie di Asprino di Aversa, e anzi di Lusciano, munendole di tappo a corona. Si sono risolti al passo dissacrante perché, alcuni mesi prima, mi ero lagnato con loro dei tappi di sughero con cui l’Asprino mi giungeva: un terzo almeno saltava via! I fratelli Triunfo hanno creduto di risolvere col tappo a corona. E l’Asprino era lui, perfetto: vino che, in ogni caso, non avrebbe atteso troppo in cantina prima di venir consumato. Così per il Ket. Ma sia ben inteso: questo fenomeno, della genuinità assoluta del vino giovane, da pasto, umile, e di basso prezzo, è un fenomeno, purtroppo, raro, e riservato, in primo luogo, e come abbiamo detto nel caso dell’Asprino, a certi vini artigianali e individuali: in secondo luogo a produttori onesti, seri, appassionati come i Kettmeir, i quali hanno, inoltre, la fortuna di operare in un ambiente vinicolo altrettanto appassionato, serio e onesto di loro. Non credo che tutta l’organizzazione cui ho accennato, “il conferimento delle uve sull’onor”, avrebbe, in altre regioni, lo stesso successo e le stesse possibilità che nell’Alto Adige e nel Trentino, dove questo tipo di economia è ormai consacrato non soltanto perché più civile e più morale, ma anche perché più pratico. È ciò che accade a Genova in altro campo: quello del nolo dei Rimorchiatori: basta una stretta di mano e un prezzo mormorato per concludere l’affare: non accade mai che qualcuno “ciurli nel manico”: ma, se accadesse, sarebbe un individuo escluso per sempre dal “giro”. sette decimi Ket. Omnia munda mundis. In altre parole, i Kettmeir, padre e figlio, rappresentarono, per me, il vero tipo del moderno P.D.G. ( ), così notoriamente efficiente in Francia, ma da noi ancora scarso ed esitante, se non altro perché il sustrato sociale della maggioranza delle regioni italiane è, certo, altrettanto civile di quello francese e forse anche di più, ma civile in diverso modo: meno moderno, meno cooperativo, meno tecnico: un modo antico ed empirico, che rivela più un immenso agglomerato di famiglie tutte tendenzialmente anarchiche e irresistibilmente affettuose, che non un organismo razionale. Abbiamo però eccezioni e anticipazioni anche vecchie: i Rimorchiatori a Genova, e i vini nell’Alto Adige. Non mi sarà più possibile gustare vini dell’Alto Adige senza rivedere immaginando i profili paralleli e precisi, come in una medaglia quattrocentesca, dei Kettmeir padre e figlio: né senza pensare che quelle chiarezze e quelle trasparenze, quei profumi freschi e campestri, quei sapori sottili e lisci, siano anche una traduzione, nel linguaggio così difficilmente articolabile, dell’olfatto, del gusto e del tatto (sissignori, l’assaggio di un vino si compone anche di sensazioni tattili, come la ruvidezza o la liscezza, il pizzicore o la spumosità, sulle papille linguali!), una traduzione della dirittura e della schiettezza dei Kettmeir. Président Directeur Général Nessun negromante riuscirà mai a contraffare il vino. Una questione di tappi e una di vitigni risolte per teleselezione. Dio ci salvi dal sorriso del conoscitore. Mi accorgo, ora, di essere stato simmetrico senza volerlo: come gli assaggi furono casuali, così è stata casuale l’evocazione di alcuni produttori di vino. Mi accorgo, ora, che sono sei: in numero doppio dei viaggi. Sei personaggi, dunque, e non in cerca d’autore, per il semplice motivo che sono essi stessi sei autori. Autori o personaggi o l’uno e l’altro, sono entrati in scena come chiavi indispensabili ad aprire le misteriose porte del vino: o piuttosto come indispensabili voci a pronunciare ciascuna il suo particolare poiché le intime porte delle cantine italiane non si sarebbero aperte altrimenti. Apriti Sesamo: Quale differenza con l’agevolezza fulminea dimostrata da un barman delle Tremiti, alcune estati or sono, nel compiacere due miei amici colà villeggianti. Appressatisi al bar dopo il bagno, chiesero un... e dissero il nome di un famosissimo e specialissimo vermut. “Sono desolato, signori, ho finito l’ultima bottiglia ieri sera, e stamane il battello non è ancora arrivato. Ma...” aggiunse dopo una breve esitazione il barman, vedendo la delusione sul volto dei miei amici e affrettandosi a superarla con il largo sorriso di chi è ben sicuro del fatto suo “... ma, se permettono, glielo faccio io.” Dié di piglio a bottiglie e bottigliette, che so, amari, angosture, tabaschi, altri vermut o chine: e, qual negromante ariostesco, in un batter d’occhio versò ai miei amici due perfetti ed autentici... non posso, ahimè, dire il nome di quel vermut specialissimo e famosissimo. Questo, con un vino, qualunque vino, anche col più umile, non sarebbe e non sarà mai possibile. Perché nulla nel vino è contraffattibile, riproducibile, meccanizzabile, truccabile. Tutto, del vino, è sincero, delicato e, per ciò stesso, estremamente vulnerabile. Il vino buono non si difende mai. È più fragile del più fragile fiore. È come un’acqua di fonte purissima, che un nulla turba e guasta. Alla prima offesa, al più superficiale maltrattamento cede e deperisce. Un’altra caratteristica del vino buono è che non lo si può assolutamente catalogare: assomiglia solo a se stesso: perfino il suo nome conta poco, perché le annate e le partite bastano, qualche volta, a creare profonde differenze tra vini prodotti dalla stessa persona, e negli stessi luoghi, e con le stesse uve! Mente, perciò, chiunque dice che “garantisce” un vino. Il vino buono è proprio quello che non può, mai, “essere garantito”, né come grado di eccellenza né come tipo e gusto, indipendentemente dall’eccellenza: sempre buono, in caso, ma sempre diverso! Dell’uno o dell’altro destino del vino, ebbi a fare esperienza, anni fa a Genova, a cena da Remo Borzini. Ero invitato con Lorenzo Scarsi, e c’erano le rispettive mogli. Un vino, un Chianti inviato a Borzini da un amico di Toscana, si rivelò imbevibile a causa del tappo: aprimmo cinque o sei bottiglie, facendole salire una dopo l’altra dalla cantina: e i tappi erano guasti: troppo secchi, o troppo permeabili, avevano intrecciato il loro sapore ligneo e soffocante alla fragranza del vino, rovinandolo senza rimedio. Un altro vino, invece, era squisitissimo: era il Casale Rosso del Roccolo, prodotto dal Duca Antonio Denari a Santa Maria della Versa, provincia di Pavia. Ora, conosco molto bene i vini dell’Oltrepò pavese. Assaporando e riassaporando questo delizioso vino del Duca Denari, mi chiedevo di quale vino mai si trattasse, di quali uve fosse composto. Avrei detto, in ogni caso, di uva Spanna, più che di qualunque altra uva: ma c’erano due fatti che contrastavano. Il primo, che il gusto non era proprio di Spanna, era più gentile, estremamente serio ma più gentile: tra tutti gli Spanna, semmai, assomigliava addirittura al capostipite, al Nebbiolo di Nebbiolo. L’altro fatto era che, nell’Oltrepò pavese, quasi tutti i vini rossi di quel tipo sono una classica mescolanza di Barbera e Croatina. Niente di più diverso, in questo caso: salvo un lontano, rastremato, quasi sublimato profumo appunto di Barbera... Incuriositi dal doppio interrogativo, circa il Chianti e circa il Duca Denari, non resistemmo, dunque, alla tentazione di scatenare, malgrado l’ora tarda e notturna, una sarabanda di chiamate telefoniche. La rete teleselettiva, di recente ampliata a tutto il Paese, invitava, irresistibile. E, in pochi minuti, parlammo con mezza Italia. Prima nel Chianti, poi nel Grossetano e poi a Roma, dove il colpevole dei tappi pareva essersi rifugiato: e il colpevole si scagionò dicendo di essersi accorto della qualità infame del sughero solo quando era troppo tardi, cioè quando le spedizioni erano già state fatte. Anche per il vino del Duca Denari fu necessaria una serie di chiamate: Santa Maria della Versa, Milano, Venezia, Cortina, di nuovo Santa Maria della Versa: la teleselezione faceva faville, non un intoppo, non una grattatina fuori posto: presto eravamo a conoscenza dello sbalorditivo verdetto: 60% Croatina e 40% Barbera. Oh come vorrei, una volta o l’altra, invitare amici e esperti a degustare questo vino del Duca Denari: allo stesso modo che mi sarebbe piaciuto per il Raboso! Con un fantastico appello vorrei invitare i vivi e i morti, chiamare o richiamare Menzio, Dalmasso, De Muro, Tancredi Biondi-Santi, Luigi Colacicchi e il caro abbé Bougeat; Veronelli, Zanchetta, Festa; Zvònimir Simčič e Gradimiro Gradnik; Bassu, Cannas, Muceli, Mameli; Cosmo, Cosentini, Ippolito, Postorino, Pastorino, Pestarino; Franceschetti, Fratini, Franco Marinotti, sir Cyril Ray; Maggiora, Lodi, Balcet; Ratti, Ratto, Oddero, Martinat; Antonio Ca’ Zorzi, Elio Bartolini, Amedeo Giacomini, Giovanni D’Incà; Pippo Campanini, Pietro Viola, il generale Tognoni, Nicolosi, Tasca; Piacentini, Hammargren, Venanzio Sella, Don Vicienzo Triunfo; Fausto Provera, Sernagiotto, Cassano, Bufferli, Bòccoli, Renzo Balbo; e Renato Castellani per il solo profumo. Alla Barbera, sì, ci penserebbero: ci pensai anch’io. Ma la Croatina! “ .” Misteri del vino. al buio Impossible to detect it Misteri. Enologi e ampelografi si ignorano crudelmente l’un l’altro. Chi conosce le viti, raramente sa apprezzare il vino: non diversamente, i sommi linguisti poco godono la letteratura. E viceversa. Ma diffidate, amici, diffidate sempre, in tutti i campi, e specialmente in quello del vino, diffidate, quando li incontrate, dei tipi come il barman delle Tremiti! Diffidate dei loro vermut d’onore e di orrore! Queste persone, davanti all’opera d’arte e anche davanti all’opera d’artigianato, offendono, bestemmiano. Non esiste bestemmia più grave. Perché ogni arte, sebbene si studi e si debba studiare, in fondo può soltanto essere amata. E quando si ama, amici, non si sorride mai da conoscitori. Tellaro, 21 giugno 1977