Nelle provincie di SIENA E FIRENZE Autore Il trenino da Montepulciano stazione a Montepulciano città. L’Ottocento ucciso con le alabarde. La villa Ciuffi e i tempi di Pietro Bastogi. Lode ai capomastri del Sud senese. Cosa provai, o meglio non provai, bevendo a Mosca lo Zinandàli della Georgia. Il metodo critico di Sainte-Beuve applicato all’enologia. Quel trenino che da tanto tempo non esiste più e che, con un percorso di non più di dodici chilometri, collegava Montepulciano stazione, sulla ferrata Chiusi-Siena, a Montepulciano città, dieci minuti dopo la partenza si fermava. Si fermava, ogni volta, a una stazioncina minima, come per raccogliere le forze prima della gran salita che gli toccava, una lunga arrancata tutta in cresta alle colline, nell’immensità cresposa dei vigneti tutto intorno, verso l’alta, rossa città murata e turrita. Ho cercato invano una traccia, un segno qualunque di dove fosse, esattamente, la stazioncina. Mi sarebbe bastato il resto di una scritta sbiadita su un muro giallastro, un pezzo di muro che una volta avesse fatto parte del piccolo edificio. A Nòttola, a Gracciano, all’Abbadìa? Dove fermava il trenino? Solo qualche anziano si ricorda dove. Per esempio il signor Marcello Ferri, che mi scrive: “... le stazioni ci son sempre. La prima era Fontago a circa quattrocento metri dalla stazione F.S. ed il suo nome si può ancora indovinare sulla parte est del fabbricato dov’è restata ancora qualche traccia della vecchia scritta. Anche la stazione di Gracciano è rimasta là, al suo posto...” Gli uomini di mezza età sanno appena che il trenino era esistito. E i giovani neanche questo. Straordinaria la spietata fretta che tutti, anche i più anziani, anche i più pii, mettono a dimenticare. Straordinario che ciò accada perfino in Toscana, e nella provincia di Siena, dove la forza della tradizione serba ancora il segreto della vitalità. Ma è forse una questione di moda. Si rinnovano arditamente i metodi di agricoltura. Il Cavaliere del Lavoro Varo Ciuffi sta pianificando la sua grande azienda: mira a sacrificare ogni cosa al razionalismo di una sola attività: nel suo caso al bestiame, alle... “Non mucche, no!” mi dice correggendomi vivacemente. “Vacche, vacche da vitello! Le mucche sono da latte!” Le sue sono, invece, vacche da vitello, di razza chianina. “La migliore razza del mondo, come di recente hanno potuto constatare certi ospiti sovietici, venuti in comitiva a visitarmi. Da me, la stabulazione è libera. Le vacche figliano anche sotto zero. Qualche volta, sul ghiaccio resta l’impronta del vitello appena nato! Per questo i manzi, poi, sono così forti, e per questo la carne delle bistecche toscane è così gustosa.” Tra le colture sacrificate, primissimi i vigneti: che, del resto, piantati troppo in basso, sulle ultime propaggini delle colline o addirittura nella pianura del Chiana, qui non avevano mai dato un gran vino. Allo stesso modo, sempre in provincia di Siena, sulla strada di Paganico, a Cerreto a Messe, mi dicono che Giancarlo Signorini abbia pianificato la propria azienda mettendola tutta a granturco, con metodi modernissimi e completamente meccanizzati, e con risultati sorprendenti. Il medesimo Signorini, nella sua villa, o castello, che è al centro della tenuta, pare che non abbia voluto la luce elettrica. Pare che si vada “a candele”. Estrema eleganza, estremo snobismo. Peccato, però, che il Signorini non sia imitato. Perché gli altri non sono così fini. Gli altri, in grande maggioranza, accettano la tradizione più antica, dalle alabarde alle gualdane, al Palio: restaurano e riattano Pienza e Montepulciano a furia di ferri battuti, ceramiche, caratteri gotici, “Hostarie”, e poi distruggono spietatamente tutto quanto appartiene all’onesto, modesto Ottocento e alla sua delicata eleganza, al suo sottile buon gusto. Ma la villa dove abita il Cavalier Ciuffi è un capolavoro appunto di quell’epoca, ed è intatta: un’eccezione! Chi potrebbe ridire la magia delle misure, l’incanto dei colori? Le porte-finestre e le finestre, strette e alte, riquadrate di regolari fasce grige: le persiane di verde vivissimo, spaziate nella facciata giallina: il piccolo parco serrato intorno, con i pini, i cedri del Libano, le stupefacenti “acacie pendule”: la ghiaia, grigia chiara, le panchine di legno verniciato di bianco... Tutto questo non è più di moda. Oggi si va per i castelli medievali o per i palazzoni del Cinquecento. La villa Ciuffi fu costruita da Pietro Bastogi, livornese, ministro delle Finanze, che, nel 1861, operò l’unificazione delle nostre monete, e poi fondò e presiedette la Società delle Strade Ferrate Meridionali. Fu un “dritto”, certamente. E fu probabilmente “lui”, proprio lui, a volere il trenino di Montepulciano. Arrivava dunque sbuffando, e si fermava alla stazioncina. I grandi notabili, che venivano forse da Roma per la vendemmia, per la caccia, per l’Ognissanti, avevano già “cambiato” una prima volta a Chiusi, e poi una seconda a Montepulciano stazione. Adesso scendevano qui, facevano quattro passi, si sgranchivano le gambe: il trenino attendesse. Ma già sulla banchina venivano loro incontro i piccoli notabili. Il fattore di Bastogi veniva incontro al grande Bastogi. Dagli astucci di bulgaro, coi precisi scatti dei fermagli, uscivano cristalli di Boemia, bicchieri sfaccettati e bottiglie che scintillavano al sole coi loro cuori dorati di cognac, tra gli sbuffi bianchi e densi di fumo che sfuggivano dalla caldaia della vicina locomotiva, e che la brezza autunnale spingeva contro il festante gruppetto radunato sulla banchina, prima di disperderli nei frastagli delle vigne, subito al di là delle rotaie. Scappellate di cilindri e cittadini “homburg” rispondevano alle scappellate dei “cenci” locali, più larghe ancora e, per il dovuto rispetto, alquanto più indugianti nell’immobilità del loro massimo raggio estensivo. Brevi discorsi, “indirizzi”, cui facevano riscontro i “ringraziamenti esternati”, le cordiali manate sulle spalle e l’offerta di lunghi, bruni, nodosi Madera, generosamente estratti dalle tasche interne dei “marchetti” e delle “finanziere”. Bastogi fu, senza dubbio, un grande uomo d’affari e un profittatore senza scrupoli. Con la facoltà che, nei suoi rapporti col Governo, si era riservato, a sé e ai suoi soci, di “redigere e variare i progetti, e di incamerare oltre metà del profitto delle aste, e di percepire ricompense per studi, direzione dei lavori, sorveglianza, ecc.” (F.S. Merlino, ), possiamo dire, ahimè, che fu un autentico precursore del fascismo e di molto postfascismo. La verità è che, forse, certi nostri guai sono cominciati proprio ai tempi di Bastogi, e che, semmai, la provincia di Siena soffrì meno di tante altre. Quel piccolo mondo dignitoso, colto, libero e intelligente che era la Toscana del Granduca cercò, forse, nei primi decenni dell’unificazione, e forse si illuse, di continuare a vivere e di progredire, al centro dell’Italia e contro l’Italia, senza perdere le proprie migliori qualità. Mi apparve, quel mondo, quasi emblematicamente, nella facciata gialla dalle persiane verdi della villa ex-Bastogi, appena la vidi: e mi balenò vivo, come in un sogno del passato che sognai a occhi aperti, mentre il Cavalier Varo Ciuffi mi raccontava la scenetta della stazione: lui se ne ricordava, era bambino allora. Adesso, di quel mondo, a parte la villa Bastogi, se resta ancora una traccia, resta non certo nella restaurazione falsificante e benellesca degli abitanti più famosi: ma, stranamente, nell’architettura delle case più umili e più recenti, nelle case di operai, artigiani, lavoratori dell’agricoltura, costruite durante gli ultimi anni da queste parti, e anche ad Abbadia, a Nòttola, a Gracciano. Sono case e casette, in qualche modo illuminate da una profonda intelligenza: composte e guidate da quella segreta armonia, che continuo a cercare invano, disperatamente, in tutti o quasi tutti gli edifici, piccoli o grandi, paesani o cittadini, costruiti dopo il 1914 in Italia, e nelle altre provincie della stessa Toscana. Non c’è dubbio: i paesi del Sud senese, da Monticiano a Sinalunga, da Montalcino a San Casciano, non più a nord né più a sud di queste due linee ideali, possono essere considerati una miracolosa eccezione nel disastro della nostra moderna edilizia. Ma l’edilizia è la grafologia della storia. E questo, che per comodità retorica diciamo miracolo, deriva dunque dal relativo isolamento in cui le popolazioni del Sud senese rimasero, fino ad oggi, quasi incorrotte. Va da sé che il buon gusto di tutte queste case e casette non è merito di architetti. Sono costruzioni troppo modeste perché l’opera di un architetto potesse essere richiesta e potesse, d’altronde, trovarvi il necessario compenso. Qui dobbiamo ringraziare tutt’al più i geometri: o, forse, soltanto i capimastri. È in loro che continua a vivere la tradizione, la musica muta delle misure, il bagno della bellezza. Unici errori, uniche eccezioni: le ringhiere in ferro, le balaustre e, in genere, tutti quegli elementi che, per dolorosa necessità economica, geometri e capimastri non disegnano e non costruiscono, ma acquistano prefabbricati da qualche stabilimento industriale. Questa è l’Italia E il vino? Cosa c’entra il vino? Oh, se c’entra! Il vino è come la poesia, che si gusta meglio, e che si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita, le altre opere, il carattere del poeta, quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato, con la sua educazione, con il suo mondo. La nobiltà del vino è proprio questa: che non è mai un oggetto staccato e astratto, che possa essere giudicato bevendo un bicchiere, o due o tre, di una bottiglia che viene da un luogo dove non siamo mai stati. Che cosa ci dice l’odorato, e il palato, quando sorseggiamo un vino prodotto in un luogo, in un paesaggio che non abbiamo mai visto, da una terra in cui non abbiamo mai affondato il piede, e da gente che non abbiamo mai guardato negli occhi, e alla quale non abbiamo mai stretto la mano? Poco, molto poco. Ho bevuto a Mosca lo Zinandàli della Georgia. Ma, non essendo andato in Georgia, e non avendo letto gran che sulla Georgia, e non sapendo quasi niente della Georgia, la mia fantasia, mentre sorseggiavo lo Zinandàli, oscillava incerta, vagava tra un palmento siciliano e un del Vallese. Lo stesso mi accade quando leggo, tradotta, una poesia di Lermontov. E perfino Leopardi, non pare molto più vivo, chiaro e profondo, quando si conosce Recanati, o quando, almeno, si è imparato qualcosa su Recanati attraverso i libri? cru Il metodo sainte-beuviano, di immergere il più possibile un’opera letteraria nel suo ambiente e nel suo tempo, è ancora il migliore di tutti i metodi per capirla e per gustarla fino in fondo. Tale e quale per il vino. E l’operazione necessaria non è, credetemi, meno complicata: lo studio non è meno lungo né meno difficile. Il piacere enologico è molto più raffinato e complicato di quanto paia. Basta pensare come la bibliografia specifica che esiste su un dato vino sia infinitamente meno ricca della biblioteca specifica che esiste su un dato poeta. Bisogna, perciò, sopperire alla mancanza in qualche modo: e, prima di tutto, viaggiando, visitando i luoghi, parlando con i produttori e con i commercianti, leggendo, in seguito, tutto quanto, anche lontanamente, abbia rapporto con il vino che vogliamo “capire”. E che cosa mai può non avere rapporto con un vino? Innumerevoli le conoscenze che il critico enologico dovrebbe possedere: geologiche, geografiche, meteorologiche, storiche, letterarie, chimiche, meccaniche... Un buon “ritratto di un vino”, come quelli che Sainte-Beuve ci ha dato di tanti letterati e uomini politici, non è ancora stato scritto. Nelle vie di Montepulciano inseguo un fantasma del 1948. Un’etichetta è la mia “madeleine”. Riflessioni sul vino, il dolore e la felicità. Riabbraccio Adamo Fanelli e bevo il Vino Nobile. Un incontro riuscito soltanto a metà. È il Vino Nobile che è cambiato o sono cambiato io? Da tutto questo, e da tutto quanto ho detto del Sud senese, consegue che i vini prodotti tra l’Arbia, l’Orcia e il Chiana dovrebbero essere “eccelsi”: infatti, lo sono. A Montepulciano, colpo di scena della memoria. La città è ancora tutta stretta, coi suoi palazzi e le sue chiese, addosso a due vie principali, in cresta alla lunga collina: la attraversano ancora, partendo da questa doppia spina dorsale, vicoli precipiti che scendono, di qua e di là, fino allo sbarramento, poco sotto la cresta, delle alte mura. Da più di un’ora, dunque, mi aggiravo tra le solenni, quasi funebri facciate, e zigzagavo sulle sbilenche piazze di pietra, cercando invano i migliori mercanti e i migliori produttori del famoso Vino Nobile. Vedevo insegne, sì, vedevo cartelli, vedevo vetrine gremite di bottiglie; ma nulla che mi persuadesse o che incoraggiasse all’assaggio. Allo stesso tempo, sarei stato molto imbarazzato se avessi dovuto spiegare, anche soltanto a me stesso, il motivo della mia diffidenza e della mia perplessità. Giudicare un vino dal suono del nome di un produttore, che non si conosce ancora, o dall’aspetto grafico, più o meno elegante, dell’etichetta, sarebbe stata ormai un’ingenuità. Ma no, diffidavo così, senza ragioni esprimibili, diffidavo istintivamente, come obbedendo a una voce misteriosa, che mi suggeriva di diffidare: di esitare, di aspettare, di non decidere. Questo suggerimento, poco dopo, si rivelò come il deposito inconsapevole di un ricordo che pareva cancellato: l’ultima brace di un ardore effimero, di un’ubriacatura che avevo completamente dimenticato, sebbene fosse una di quelle ubriacature che, per vanità vitalistica, siamo soliti definire appunto indimenticabili. Da più di un’ora andavo su e giù per i vicoli immemore della scelta antica e consumata. Andavo in lungo e di nuovo in lungo: in largo no, non sarebbe stato possibile. E solo quando, all’estremo nord della città, fuori Porta al Prato, davanti alla Chiesa di Sant’Agnese, nella vetrina del piccolo negozio di Adamo Fanetti, che è attiguo alla piccola azienda, vedevo l’etichetta semplice e bianca, con la scritta in corsivo inglese, solo allora, di colpo, ricordavo tutto. Villa Aldobrandini, Roma, ottobre 1948, Fiera del Vino. Ci ero andato con mia moglie e con mio figlio, il primo, quello stesso che mi accompagna in questo viaggio di assaggio e che allora muoveva i primi passi. La notte era scesa tra i sempreverdi della villa principesca e rinascimentale. Mi ero attardato allo stand di Fanetti, e a poco a poco mi ero ubriacato per felicità. Già che ci sono, intèrpolo una confessione. Al contrario di molte persone che conosco, anche miei cari amici, non ho mai bevuto per consolarmi di qualche guaio, o per obliterare qualche tristezza. Ho sempre rispettato troppo e il vino e il dolore per non evitare di mescolarli. Se ho avuto dell’indulgenza verso l’alcool, è sempre stato per il motivo opposto: sentendomi felice, per esserlo ancora di più; per abbandonarmi tutto alla felicità. Così fu anche quella volta, a Villa Aldobrandini. Così, riabbraccio il vecchio Fanetti: bianco, ingrassato, pelato, non lo avrei riconosciuto. Lui, invece, si ricorda perfettamente. Stappa per me le migliori bottiglie. E io ripeto la grande prova. Bevo il suo Nobile come aperitivo. Lo bevo al pasto, dopo i (sono spaghetti fatti in casa) conditi con la (briciole di pane raffermo fritte nell’olio di frantoio) e con tartufi bianchi locali. Lo bevo dopo il prosciutto. Lo bevo dopo l’arrosto. Ma lo bevo con una cautela, la cui iniziativa, tanti anni prima, non avrebbe neanche potuto sfiorarmi. Il verdetto? pici briciolata Oh, non sarei sincero se dicessi che il Vino Nobile di Sant’Agnese mi riconquista con lo stesso prepotente vigore di quel tempo lontano. Intendiamoci. È sempre un piacevolissimo vino, profondo, rotondo, giusto. Il vigore che non gli trovo più, paragonandolo al Nobile di allora (furono, se ben ricordo, bottiglie del ’39 e del ’45, e queste sono del ’61 e del ’64), potrei anche interpretarlo come una pietosa proiezione del vigore mancante oggi a me, che ho vent’anni di più: incapace ormai di ubriacarmi allo stesso modo di allora, tutto di gusto, e senza conseguenze diverse da un duro sonno fino alle undici della mattina dopo. O, forse, no. Forse si tratta di una coincidenza. Mentre io, per l’età, mi sono naturalmente indebolito, altrettanto, forse, è accaduto al Nobile per l’inesorabile e generale decadere di gran parte della produzione vinicola non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Quale delle due spiegazioni si approssima di più al vero? Resto nel dubbio. Negli sconfinati vigneti della Val di Chiana. Perché il Vino Nobile somiglia sempre più al Chianti. Ora faccio la conoscenza del figlio di Fanetti, l’unico maschio, Giorgio, dottore in agraria, enologo, moderno e appassionato viticoltore. Visito la villa dove padre e figlio vivono con le loro famiglie. E visito i vigneti, che si stendono a mezzodì, sulle colline digradanti verso la Val di Chiana, con un effetto di immensità che non mi ricordo di avere mai visto in altri vigneti. La pura, antica bellezza delle case coloniche è pari a quella del paesaggio: alla dolcezza delle sconfinate terre che scendono, con larghissimi, appena sensibili serpeggiamenti: al disegno ondoso delle zone di vario colore, verde o avorio, i filari eguali e distesi alternandosi ai solchi dei profondi “scassi” dove saranno messe a dimora le vigne future. Contemplando il paesaggio, come non evocare il gusto del Nobile, che suggerisce, appunto, vastità, completezza, armonia? E, gustando il Nobile, come non evocare questa visione? È quasi superfluo citare ancora una volta gli ultimi versi del : Bacco in Toscana Bella Arianna, con bianca mano, versa la manna di Montepulciano, colmane il tonfano, e porgilo a me. Questo liquore, che sdrucciola al core, o come l’ugola e baciami e mordemi! O come in lacrime gli occhi disciogliemi! Me ne trasecolo, me ne strabilio, e fatto estatico vo in visibilio. Onde ognun che di Lïeo riverente il nome adora, ascolti questo altissimo decreto, che Bassareo pronuncia, e gli dia fé: Montepulciano d’ogni vino è Re. Ma oltre il Redi, scrissero del Nobile il Lancerio, il Bacci, il Chiabrera, moltissimi altri. Che cos’è che caratterizzava il Montepulciano, che cos’è che lo distingueva dagli altri vini toscani, e soprattutto dal Chianti, cui tanto assomiglia nella composizione delle uve? E che cos’è che, ancor oggi, lo caratterizza e lo distingue? Ed esiste, o no, la decadenza, la perdita di vigore, che dicevamo? Fanetti pianta le viti su piede americano 5 , come tutti gli altri. Potatura, anche questa comunissima, col metodo Guyot. Sostegno, di regola, l’acero: il cosiddetto Certo, anche il sostegno può, in ultima analisi, avere la sua influenza sul gusto delle uve, e quindi del vino: ma è un po’ difficile individuare la concatenazione tra cause ed effetti per le viti maritate in coltura promiscua. La razza dei vitigni usati, e cioè la composizione delle uve, potrebbe, invece, dimostrarsi determinante. Fanetti dichiara: 60% Sangiovese (o Sangioveto che dir si voglia, o anche Prugnolo Gentile); 25% Canaiolo; 10% tra Malvasia e Trebbiano; 5% Mammolo. Variate leggermente le percentuali, ora di questa e ora di quell’uva; sostituite al Mammolo il Colorino o il Ciliegiolo, e avrete, più o meno, la stessa formula del Chianti classico. Fanetti, è vero, confessa di possedere “un piccolo segreto in più”; ma non sarà certo il segreto della differenza dal Chianti. E poi, la differenza c’è? BB testucchio. C’è, sì. È una differenza tecnica, come vedremo: una differenza di lavorazione. Però non c’è più, se devo credere al mio palato, non c’è più come una volta. Una volta, la differenza dal Chianti classico era, senza dubbio, spiegabile molto semplicemente con la qualità dei terreni, con la loro esposizione al sole e ai venti, in faccia all’Amiata, al Cetona, alla lontana Rocca di Radicofani, in una natura più aperta e più selvaggia. Il Nobile di venti e trent’anni fa era più duro, più robusto, più potente. Ora, sebbene i terreni siano sempre quelli, ecco che, per cause imponderabili, ma riducibili forse tutte ai moderni tipi di coltura (concimi chimici, nuovi e potenti antiparassitari) e di vinificazione (rapidità, pulizia, filtraggio, ecc.), il Nobile è più liscio, più bevibile, più “passante”: in una sola parola, più simile al Chianti. Più gradevole forse: almeno per la grande maggioranza dei consumatori, che, in Italia, stenta a educarsi, stenta a preferire il vino che dovrebbe preferire: il vino serio e vigoroso, che bisogna bere adagio, a piccoli sorsi, rispettandolo, pensandoci su. In compenso, se il Montepulciano sembra “conformato”, i due Fanetti, padre e figlio, sebbene estremamente civili e cortesi, non ci lasciarono, certo, un’impressione di debolezza. “Tutti , quelli dei vini,” disse mio figlio sulla via del ritorno. “Duri, sì,” aggiunse l’amico Bòccoli: dimostrandosi esperto non solo di enologia, “duri, o per ingannare il cliente, o per resistere alla tentazione di ingannarlo.” duri Va da sé che i Fanetti appartengono alla seconda categoria. I due vini incorrotti del Marchese Lotteringhi della Stufa e di sua moglie Marisa Incontri, prima “dame du vin” del mio viaggio. Le “brutte” vigne del Calcione. Il buon Dio che scende nella gola in calzoncini di velluto. Alla tenuta del Calcione, presso Lucignano, sempre in Val di Chiana, facciamo la conoscenza del vero vino di queste parti: così vero, ma così vero che non si trova in commercio: il quantitativo prodotto nella tenuta non sarebbe sufficiente. Vino privato, riservato a quelli che lo fanno e ai loro amici. Ma, proprio per questo, assolutamente incorrotto, antico, eccelso. Lo fa il Marchese Lotteringhi della Stufa, una volta campione di corse in automobile, e sua moglie, Marisa Incontri, donna intelligente, attiva, colta, scrittrice anche di gastronomia. I della Stufa hanno vari e vivi interessi e si occupano del loro vino seriamente, ma : non applicano, cioè, tutti i ritrovati moderni della viticoltura e dell’enologia: si limitano a seguire i metodi locali e tradizionali. Per questo, le vigne del Calcione, a vederle, sono “brutte”: trascurate, quasi lasciate allo stato brado: e con rari grappoli, qua e là, tra le foglie precocemente appassite, con un effetto di straordinaria magrezza e di abbandono, soprattutto se facciamo il paragone con tutte le altre vigne che abbiamo visto, così ben curate, così gonfie di grappoli ad ogni altezza, e a distanze pressoché regolari. Ma questa trascuratezza è soltanto apparente: questo abbandono è voluto. E questo rifiuto di uno sfruttamento totale e razionale deriva, non per paradosso ma proprio per rigore di logica, da una razionalità più profonda ancora. La quantità, infatti, è sempre a scapito della qualità. A parità di condizioni (e cioè nello stesso luogo, su un ceppo della stessa qualità, potato, concimato, curato con gli stessi metodi) una pianta di vite che porta mettiamo cinquanta grappoli per un peso di venticinque chili darà sempre un’uva meno succosa, meno gustosa, meno zuccherina e meno aromaticamente carica di un’altra pianta che porta soltanto venticinque grappoli per un peso di dodici o tredici chili. Gli umori che le radici traggono da una determinata zona di terreno non sono infiniti: saranno tanto più densi quanto più concentrati. Qualche volta, anche la poesia è così: un poeta che, nella vita, faccia soltanto il poeta, e scriva un grande numero di versi, qualche volta è meno poeta di uno che campa con un altro mestiere, e scrive poco e di rado. non intensivamente I grandi vini del Calcione sono due. Il bianco, Trebbiano, vinificato esclusivamente con uve di vitigno Trebbiano. Non accade molto di frequente, poter assaggiare questo “prototipo”. È un bianco secco, ma stranamente “di corpo”: al punto che, con gli occhi bendati, anche un esperto potrebbe sbagliare e giurare che sta bevendo un rosso. Ghiacciato moderatamente, sul pesce come sui salumi, batte qualunque champagne nature. Ma, delicatissimo, non tollera le solite previe refrigerazioni in autoclave, che allo sciocco scopo di prevenire l’intorbidamento ne spegnerebbero tutto il bouquet: e non tollera l’invecchiamento, se non fino a un paio d’anni. L’altro è il rosso, chiamato semplicemente e simpaticamente (forse è un’idea della Marchesa) “Vermiglio”. Ho provato il ’61, e il ’58. Squisiti tutti e due: potenti, corposi, di pieno gusto, e di piena soddisfazione. Si tratta sempre della solita mescolanza toscana: e più o meno nelle solite percentuali: Sangiovese, Canaiolo, Trebbiano e Malvasia. Ma il risultato è fuso, originale, quasi come se si trattasse di un solo vitigno. Naturalmente, questo Vermiglio ha bisogno di un lungo invecchiamento. E, per esempio, il ’61 mi parve addirittura un po’ giovane, per essere bevuto: un po’ duro, un po’ allappante. “Il ’61 gli è un po’ ignorante,” fu il giudizio della stessa Marchesa. Ma il ’58, eh, il ’58! “Il ’58, e’ gira nella bocca da solo”: frase che un figliolo (giovane diplomatico, si trovava al Calcione di passaggio) parafrasò con questo slogan della classica enologia francese: “ ”: è il buon Dio che scende nella gola in calzoncini di velluto. C’est le bon Dieu, qui descend dans la gorge en culottes de velours La Contessa Alba Balbi Valier, seconda “dame du vin” del mio viaggio. La Vernaccia di Pietrafitta: un bianco che somiglia soltanto al Fendant svizzero. Un vino “abbronzato” dal sole d’Africa. Sorprese in cantina. La Contessa Alba Balbi Valier, invece, si può dire che faccia del vino tutto lo scopo della propria vita. Per andare a trovarla, sempre in provincia di Siena, bisogna però superare la fatidica linea a nord che avevo detto. Bisogna superare Siena, e perfino Poggibonsi, e raggiungere una vera e propria “isola interna”, le colline intorno alla turrita sky-line di San Gimignano, un “unicum” dei territori, dove si produce un “unicum” dei vini: la Vernaccia di San Gimignano, che, ad evitare equivoci e a precisare ancora di più la zona di produzione, si chiama “Vernaccia di Pietrafitta”. Anche per questo vino, bianco e secchissimo, fresco, profumato, esistono citazioni letterarie, le patenti della sua nobiltà. Michelangelo Buonarroti junior (1643): “... Alla nobile terra alta e turrita / del bel San Gimignan facemmo gita... /... Vernaccia, / che dànno a bere a chiunque vi giunge / che bacia, lecca, morde, e picca e punge.” E di nuovo il Redi: Se v’è alcuno a cui non piaccia la Vernaccia vendemmiata in Pietrafitta, interdetto, maledetto, fugga via dal mio cospetto. La Vernaccia di San Gimignano si ottiene esclusivamente con la vinificazione delle uve del Vernaccia, vitigno che, dice il Garoglio, “si ritiene importato dalla Grecia e non sembra avere alcuna caratteristica comune a quello coltivato in Sardegna. Questo vitigno si trova in tutti i poderi di San Gimignano e in special modo a Pietrafitta, dove esistono tuttora gli avanzi della cinta che chiudeva la grande vigna della Vernaccia...” Non ho visto la cinta. Ma Alba Balbi Valier e sua figlia Elisabetta mi hanno guidato a visitare le vecchie vigne intorno al castello, e i monumentali scassi necessari all’impianto delle nuove. Soltanto l’anno scorso, l’indomita contessa ha fatto estirpare, nella sua tenuta, alcuni ettari di vigne, sacrificandole, rinunziandovi, Innamorata della sua Vernaccia, è decisa a produrre sempre meglio, sempre più modernamente e razionalmente, e anche sempre di più, ma, beninteso, nei limiti dell’area tradizionale. Ora, per tradizione, la Vernaccia vuole terreno arido, collinoso o fortemente esposto al vento e al sole, con vigne abbastanza rade, così che non si facciano ombra l’una con l’altra. È un’uva, dice, che se non si ha molta cura ammuffisce subito. Il gusto del vino? Non esiste in Italia niente di simile. Paragonandolo a tutti gli altri nostri bianchi, stupisce: perché non assomiglia né al bruciato dei siciliani, né all’acidulo dell’Asprino e del Capri, né al corposo del Trebbiano, né all’abboccato dei bianchi di Lucchesia, né al salato di quelli di Liguria, né alla sottigliezza del Coronata o del Vermentino, né alla soavità dei veneti, né alla forza dei Tocai friulani, né alla completezza dei Cortese. È profumato, ho detto: sapido, liscio, seducente: assomiglia soltanto al Fendant del Vallese. Quando le dissi questo, la Contessa cacciò un piccolo urlo di gioia. Risultò poi che non era toscana né, come parrebbe dal nome, veneta: bensì biellese. perché erano in pianura. Il giudizio organolettico contenuto nei versi di Michelangelo Buonarroti junior coincide sorprendentemente col mio. Ma quel profumo, quella freschezza, quella scivolosità assoluta mi sembrano ancora così strani, per un Bianco toscano, che non so darmi pace. E nessuno mi toglierà dalla testa che c’entri per qualche cosa almeno una “rifinitura” di tipo svizzero: niente di male, per carità: soltanto operazioni che rendono il vino più “elegante”, più brillante, più stabile, più gradevole. Meno rozzo e meno semplice, ma anche meno delicato: sembra una contraddizione e non lo è. Perché il vino che non ha subito refrigerazioni, stabilizzazioni, chiarificazioni, filtraggi sopporta meno facilmente sia il viaggio in climi diversi da quello dove è stato prodotto sia, attendendo di essere consumato, la conservazione in ambienti che non possono sempre essere i più adatti. È vero: il Marchese Lotteringhi della Stufa ricorda di avere dovuto lasciare non so quanti mesi, sul molo di Mogadiscio, all’equatore, al sole, a un calore di 60 gradi e più, un gran numero di casse del suo Calcione, con bottiglie di Vermiglio o di Trebbiano: e di averle poi recuperate, e bevute tutte, laggiù, senza trovarne una sola difettosa. È la stessa storia di Adolfo Patrizi, padre del nostro Ettore e fondatore della Cantina Patrizi a Capri: accatastava le bottiglie sulle terrazze, all’aperto, al sole, le abbandonava così, per mesi e per anni: sosteneva che faceva bene al vino. Nel caso di Patrizi come nel caso di della Stufa, si trattava certamente di vini prodotti coi metodi più semplici e tradizionali, senza nessuno degli accorgimenti della moderna enologia. La contraddizione, dunque, torna a presentarsi, a inquietare. Temo che non sarà mai risolvibile, se non volta per volta, vino per vino: e forse, addirittura, bottiglia per bottiglia. Minimi, imprevedibili, incalcolabili elementi (come una falla nel sughero del turacciolo, un granello di polvere scivolato nel vino durante l’imbottigliamento) possono influire. Io stesso, col vino che conservo nella mia cantina, mi trovo continuamente di fronte a sorprese: bottiglie che, secondo ogni calcolo di probabilità, dovrebbero essere andate a male, invece dimostrano, appena le stappo, appena ne aspiro la fragranza, di avere resistito benissimo. E altre, al contrario: imbevibili benché, “sulla carta”, dessero ogni affidamento. Almeno per la metà di queste sorprese, ho dovuto rinunziare a spiegarmele: il fenomeno è rimasto misterioso. Ma proprio qui è il fascino del vino: nella sua vitalità irrazionale e sempre mutevole, non troppo diversa da quella di un organismo umano. Terza “dame du vin”. Letizia Rimediotti Mattioli. Bettino Ricasoli come enologo ovvero la pratica del “governo”. A Nòzzole presso Greve in Chianti, abbiamo visitato le vigne, le cantine, la piccola ma perfetta azienda vinicola di Letizia Rimediotti Mattioli: è la terza dama che si occupi di vino incontrata in questa tappa toscana del nostro viaggio. Il problema del Chianti è così vasto, le qualità dei Chianti sono così numerose, che per affrontare l’argomento sul serio dovrei anch’io avere studiato enologia, e dovrei, in ogni caso, dedicare l’intera tappa al solo Chianti. Si aggiungano le questioni sorte in seguito alle più recenti disposizioni di legge, che hanno cercato di mettere ordine, e senza dubbio hanno, in molti punti, migliorato la situazione: non senza, tuttavia, peggiorarla in altri. Ma almeno un’obbiezione mi pare sacrosanta; almeno un torto c’è l’ha, questa legislazione. Eccolo. Cedendo a pressioni mercantili e pubblicitarie, le nuove leggi si sono mosse esattamente nella direzione opposta a quella che sarebbe stata auspicabile. Invece di “restringere” l’elenco delle aree autorizzate a fregiare i loro prodotti colla denominazione di origine controllata “Vino Chianti”, questo elenco è stato inverosimilmente allargato. Tutto il vino toscano sembra che diventi Chianti, a un certo momento. Sembra, e non è vero: perché la legislazione mette limiti precisi, e descrive accuratamente i confini: ma l’esclusione e l’inclusione di alcune zone piuttosto che di alcune altre si dimostra semplicemente gratuita, cervellotica, senza nessuna base nella realtà storica, geografica, geologica dei vigneti produttori. Il rimedio, e cioè l’unica soluzione possibile, sarebbe, secondo me, di rinunciare a codificare il nome Chianti, che ha ormai una pubblicità mondiale, il solo nostro vino conosciuto nel mondo intero: una fama che non può essere arginata né controllata. Lasciare dunque che il nome Chianti vada per la sua strada, e finisca, un bel giorno, com’è suo destino, di significare semplicemente “vino toscano”: ed invogliare, invece, i consumatori ad una scelta successiva e più raffinata, alla richiesta di un vino che, parlando all’ingrosso, può essere riconosciuto come Chianti, ma che non può assolutamente essere definito nelle sue caratteristiche senza ricorrere ai nomi della zona, del produttore, del podere. Sarebbe ingiusto, tuttavia, non guardare senza ottimismo ai prossimi decreti legislativi: quando il Chianti passerà dalla a quella , allora la qualità delle varie zone del Chianti verrà facilmente individuata e difesa. denominazione controllata controllata e garantita Ancora prima delle recenti leggi, esistevano vari Consorzi per la Difesa Chianti. Tutti conoscono i vari marchi: del Gallo, del Putto, della Lupa, ecc. Infinite o quasi sono le divisioni e suddivisioni che registra il solo Garoglio. Chianti della provincia di Siena (Radda, Gaiole, Castellina, Castelnuovo Berardenga, Poggibonsi) e Chianti della provincia di Firenze (Greve, Barberino Val d’Elsa, Tavernelle Val di Pesa, San Casciano Val di Pesa). E poi il Chianti di quelle colline dette di Montalbano, tra Signa e Pistoia, che sono quasi una continuazione, di là dall’Arno, della vera e propria catena collinosa del Chianti: il Montalbano, perciò, e le sue due più celebri specialità, il Carmignano e l’Artimino. Poi il Chianti della Rufina, a nord-est di Firenze, in Val di Sieve: col Pomino e col Nipozzano, soprattutto col Nipozzano superiore, che, a differenza da tutti gli altri Chianti, resiste benissimo a un certo invecchiamento, e si conserva quattro e anche sei anni in botte prima di venire imbottigliato. Poi i Chianti cosiddetti “minori”: il Chianti delle colline pisane (Terricciola, Chianni, Lari); il Chianti dei colli fiorentini (Montespertoli, Montelupo, Bagno a Ripoli, Rignano); il Chianti dei colli aretini (Arezzo, Pian di Scò); infine il Chianti dei colli senesi... Ciascuna di queste zone ha le sue aree ben definite, i suoi vini ben riconoscibili. Dei colli senesi, conosciamo già il Vermiglio del Calcione, e il Nobile di Montepulciano. Perché il Nobile, dal Garoglio, è considerato, in senso viticolo lato, un Chianti. Non a torto, dato che la composizione delle uve è press’a poco la stessa. Ma la differenza potrebbe essere spiegata, oltre che con la natura del terreno, anche con la cosiddetta pratica del “governo”, che, con la miscela delle uve, apparteneva ad una tradizione secolare; e che fu codificata da Bettino Ricasoli, nella seconda metà del secolo scorso; e che viene sempre applicata nella vinificazione del Chianti classico, mai in quella del Montepulciano. Che cos’è il “governo”? Perché i Chianti non hanno l’età che dimostrano. Il Chianti della tenuta di Nòzzole. “Prima della vendemmia,” dice il Garoglio, “è d’uso raccogliere gli , cioè quelle uve che dovranno servire per il Queste uve, formate in gran parte da Sangiovese, Canaiolo, Colorino, vengono portate in locali adibiti alla conservazione, dove o vengono disposte su graticci o cannicci, o altrimenti appese a gancetti di ferro formando come delle catene che, dal soffitto, arrivano quasi al suolo.” Veniamo, ora, alla vendemmia vera e propria. “Taluni sogliono ancora pigiare l’uva nel campo aperto dentro bigonce, e poi portare in tinaia il pigiato: comunque, tale operazione viene sempre ultimata in cantina con le macchine pigiadiraspatrici. La fermentazione si faceva avvenire in tini scoperti, di legno o in muratura, e praticando follature giornaliere. La temperatura della cantina si cerca sia sempre costante. Molto diffuso è l’uso della solfitazione e della semina di fermenti selezionati. La ha la durata di una settimana, poco più o poco meno, e, dopo, si procede alla svinatura e torchiatura delle vinacce; quindi, il prodotto è generalmente posto nelle botti, dove avviene la fermentazione lenta, che dura fino al novembre, mese in cui si pratica il , il quale consiste nella provocata da un’aggiunta di una certa quantità di mosto e relative bucce (dal 3 al 10%) appassite: un’aggiunta al vino dopo la svinatura e dopo la prima lenta fermentazione...” Questa pratica del governo “viene principalmente applicata per i vini che non debbono subire prolungato invecchiamento.” È vero che il Villifranchi nella sua (1773), e in un passo citato in calce dallo stesso Garoglio, descrive già il “governo” nello stesso modo e quasi con le stesse parole. Tuttavia, è mia opinione personale (e la do per quello che può valere l’opinione di un dilettante in materia) che il “governo”, da Ricasoli in poi, abbia avuto crescente applicazione proprio per venire incontro alla crescente richiesta del mercato. In altri termini: la base dei costituenti maggiori (Sangiovese e Canaiolo fino al 65-70% e oltre) tende naturalmente a produrre un vino forte, denso, allappante, che ha bisogno di invecchiare in botte per essere bevuto normalmente: ora, la mescolanza col Canaiolo e col Mammolo, e ancora più con le bianche del Trebbiano e della Malvasia, aveva per scopo appunto lo “scioglimento” di questa densità, e quasi l’imitazione, artificiosamente provocata, della chiarità e della levità che il Sangiovese puro raggiungerebbe solamente con la maturazione dell’età. Ma non tutte le annate sono buone: e attendere costa. La mescolanza non bastava: fu inventato il “governo”. E questo è tanto vero che nella zona dei Chianti più a nord, e precisamente in alcune cantine della Rufina, si usa addirittura un “secondo governo”: “consiste nel riporre, all’epoca del primo governo, gli acini, dai grappoli conservati sui graticci, dentro delle damigiane preventivamente trattate con anidride solforosa: tali acini vengono conservati fino a maggio: in questo mese si pigiano e si aggiungono al vino.” E così il vino raggiunge il suo optimum, le sue migliori condizioni di bevibilità, con un anticipo, secondo i casi e i tipi, di due, tre, quattro anni, anche più: in questo caso, però, manca il profumo tipico del vino veramente invecchiato. scelti governo... fermentazione tumultuosa governo rifermentazione Tecnologia Toscana schiccolati Non bisogna, perciò, col Chianti classico, ostinarsi a cercare annate antiche: c’è anche il caso di andare incontro a delusioni. La tenuta di Nòzzole, che Letizia Rimediotti e suo marito mandano avanti a conduzione diretta, è un modello di modestia, di razionalità, e soprattutto di quella “concentrazione” senza cui i grandi risultati sono impossibili. A Nòzzole, si fa un vino solo: ma è “lui”, è un grandissimo Chianti classico, da consumarsi nei classici termini di tempo: da due, tre anni di età fino a cinque, sei, massimo dieci. Un ufficiale di cavalleria tra vigne e botti. È una terra malinconica quella che ci dà il vero Chianti. Abolita da tempo la mezzadria; rinunciato all’allevamento del bestiame e via via ad ogni altra coltura, come frumento, granturco, frutta: saggiamente e progressivamente concentrata tutta l’attività nella vite: la tenuta di Nòzzole è condotta con moderni metodi viticoli ed enologici. Rimediotti è fiorentino con ascendenze anglosassoni: “un anglobecero”, come lui stesso scherzando si definisce. Ufficiale di cavalleria fino alla fine dell’ultima guerra, si è poi trasformato, con estrema naturalezza, in un appassionato intenditore di vigne e di vini. Lui e la moglie mi accompagnano negli “esterni” e negli “interni” della lavorazione: tra le vigne e tra le botti. Il paesaggio è molto diverso da quello che mi sarei immaginato: è più alpestre, più ruvido, più grandioso e, insieme, più malinconico. Calcari, arenarie, argille schistose costituiscono il terreno, che ha l’aspetto arido e che è tutto sparso di sassi e di rocce. Gli scassi necessari per “mettere a dimora” le viti, fino a qualche anno fa erano operati soltanto a mano, e costavano, quindi, molto di più che non gli scassi in terreni più morbidi e pianeggianti, dove fu possibile usare i trattori fino dal principio della meccanizzazione agricola. Oggi, finalmente, si lavora a macchina anche nel Chianti: con l’aratro da scasso. Ma è sempre un lavoro lento e difficoltoso, che costa l’ettaro circa tre milioni di lire; e sempre occorre completarlo con opere manuali e cioè liberando i solchi, dopo lo scasso, dalle pietre grosse e dai macigni. Più di metà dei territori del Chianti erano, e sono ancora, a querce, a castagni, a lecci, abeti e basso bosco. Il resto era, tradizionalmente, coltivato parte a campi seminativi, limitati da filari di viti o di olivi: parte a vigneti. Oggi, per ovvie ragioni concorrenziali, e perché il vino è, sì, il prodotto più costoso ma anche il più ricercato e il meglio pagato di queste zone, e l’unico che ne sia insostituibilmente originario, si tende a sfruttare a vigneto tutto il terreno che si può. Ma l’aspetto del paesaggio, non credo, per questo, che sia cambiato dai tempi di Ricasoli. Prima di tutto, non è certo consigliabile mettere a dimora viti dovunque. E poi, non tutti i dossi sono orientati favorevolmente rispetto alla luce solare. Così, per i declivi continuamente variati, ora dolcemente obliqui e ora, all’improvviso, precipiti: tra quadrati, rettangoli, trapezi, lunghe strisce di boschi, alcuni verdecupi e altri, di questa stagione, giallognoli bruni o violetti: nei grandi spazi e nelle prospettive che i cipressi segnano visibilmente anche in lontananza: ammiriamo, un po’ dovunque, il regolarissimo “rigato” delle vigne, concave qua come vasti anfiteatri, là convesse come absidi prolungate e finalmente distese. E a quella solitudine e a quella malinconia che, forse, proprio per lo spietato ordine geometrico, spirano quasi tutte le terre coltivate a vigna, le Langhe come la Valpolicella, l’Oltrepò come Gattinara, ricordandoci che anche i vegetali sono nati liberi e che, dunque, i filari non sono meno razionali e meno crudeli dei pollai e delle stalle, si aggiunge una mestizia più sottile e più profonda: non vedere, neppure lontano o lontanissimo, nessun orizzonte diverso e più selvaggio, non un grande fiume col biancheggiare serpeggiante dei greti, non la catena delle Alpi con lo splendore dei ghiacciai, non il mare. Appunto perché non confrontata otticamente con alta montagna, quella vastissima regione ormai riconosciuta come Chianti, e che, grosso modo, va dall’Impruneta fino a Castelnuovo Berardenga (comprendendo la piccola regione in origine detta del Chianti classico, centrata in Radda, e chiusa a nord-est dai monti del Chianti, che la separano dal Valdarno) sembra stranamente montuosa, più alta della sua reale altitudine, e circondata, serrata, quasi condannata, fin dove lo sguardo si spinge, a una perfezione tutta umana e tutta razionale. In questa regione la vinificazione delle uve “viene condotta con una cura che ha del meraviglioso e che, radicata ormai profondamente nelle tradizioni locali, costituisce un esempio non comune di perfezione tecnica, ciò che ha permesso di ottenere un tipo di vino inconfondibile, a gusto costante, capace di alimentare una notevole corrente di esportazione sui mercati nazionali ed esteri.” Così il Garoglio, e non potevamo, certo, assaggiare “qualche vino” di Toscana, come ci eravamo proposti, senza fare una puntata nel Chianti, senza darne almeno un esempio, scelto tra i migliori. Paulo maiora canamus. Il Brunello di Montalcino. Per una volta non sono d’accordo col Garoglio. Un vino d’autore. Dove dissentiamo lievemente dal Garoglio è, invece, a proposito di quello che noi reputiamo l’eccelso tra gli eccelsi di tutti i vini provati finora in questo viaggio: il Brunello di Montalcino. Ritorniamo dunque nel Sud senese, più a sud ancora di prima; e scendiamo fino a Torrenieri, poco prima di San Quirico, in vista della Rocca di Radicofani e dell’Amiata, in alto sulla vallata dell’Orda, alla cittadina di Montalcino, che, forse per trovarsi così dislocata, così fuori dalle grandi vie di comunicazione, è rimasta intatta, incorrotta, protetta dalle deturpazioni sottili e perfide del turismo. Dice il Garoglio che, se c’è un fatto da rimarcare a proposito del Brunello, “questo è rappresentato dalla esiguità della sua produzione, che serve a mala pena a soddisfare le richieste di pochi esigenti consumatori, vietando la possibilità di un intenso e sicuro commercio a più vasto raggio...” E ancora: la produzione del Brunello è “per la quasi totalità, accentrata nella Cantina Sociale di Montalcino, che possiede una razionale attrezzatura tecnica. Non mancano tuttavia gli agricoltori locali che producono questo tipo di vino, ma tale quantitativo è molto limitato e presenta scarsa importanza dal punto di vista commerciale.” Vi ho già detto in principio: la democrazia è una bellissima cosa, e l’umanità non ha ancora trovato un modo migliore, nonostante tutti i suoi difetti, per governare i popoli. Il numero, la quantità sono parametri indispensabili, quando si deve giudicare di oggetti di consumo. Ma il vino non è soltanto un oggetto di consumo: il vino, in certi casi, può anche essere considerato e studiato È forse meno eccelso un pittore perché ha dipinto un minor numero di quadri di un altro, che ne ha dipinti di più? A un certo momento il Garoglio stesso ci ha chiarito che “il vino da apprezzarsi, quando è di qualità, deve sempre considerarsi un’opera d’arte o di artigianato, che giustifica il culto dei millesimi sull’etichetta.” non come un oggetto di consumo, ma come un’opera d’arte a sé. Bisogna tenere presente questa “interpretazione” soprattutto nel caso del Brunello, perché il Brunello non è, come il Nobile, come la Vernaccia, e come tutti i Chianti, un vino tradizionalmente prodotto nel luogo dalla popolazione del luogo: ma è l’invenzione di un singolo. Dice lo stesso Garoglio: “Il creatore del Brunello, Ferruccio Biondi-Santi di Montalcino, può giustamente essere orgoglioso dell’affermazione del Brunello, che in breve è riuscito a meritarsi il pieno e incondizionato apprezzamento dei tecnici e a conquistarsi la simpatia dei buongustai.” Nella Fattoria del Greppo con Tancredi e Franco Biondi-Santi, figlio e nipote del grande Ferruccio. Il perfetto Brunello del 1888. Bottiglie a centomila lire. Un “vociano” del vino. Il figlio di Ferruccio, Tancredi, e il figlio del figlio, Franco, mandano oggi avanti questa azienda straordinariamente raffinata, la Fattoria del Greppo, con un prodotto che, nel suo genere, non teme rivali, neanche fra i più celebrati Barolo e Bourgogne. Sarebbe ridicolo, con il pretesto del piccolo quantitativo, preferire al Brunello originario, autentico, ancora prodotto nella cantina del suo creatore, da suo figlio e da suo nipote, il Brunello di altri privati, che avranno, nessuno lo nega, i loro meriti ma non potranno mai raggiungere la classe del Biondi-Santi. Vuol dire che il cliente, invece di bere una bottiglia, berrà un bicchiere; invece di bere dieci bottiglie, ne berrà una sola: non per questo dovrà rinunziare all’assaggio: né da questo dovrà dedurre giudizi qualsiasi sulla qualità. Come si può “creare” un vino? Oppure, che in fondo è la stessa domanda, come ha fatto Ferruccio Biondi-Santi a “inventare” il Brunello? Molto semplice: vinificando in Toscana, e con uva tradizionalmente toscana, ha cercato di differenziarsi al massimo dal Chianti. Abbiamo già visto che i vinificatori del Nobile, a Montepulciano, pur vinificando con la classica miscela di quattro o cinque tipi di uve, non praticavano il “governo” e preferivano affidarsi all’invecchiamento. Ferruccio Biondi-Santi, nella seconda metà del secolo scorso, ebbe l’idea di rinunziare non soltanto al governo ma addirittura alla miscela: e di vinificare con un tipo solo di uva, col Sangiovese grosso, che in ogni caso era la base maggioritaria sia del Nobile che di tutti i Chianti. Ne venne fuori un vino potentissimo e delicato insieme: che ha bisogno di attenzioni grandi e soprattutto tempestive nei travasi: e che esige (pena la perdita del suo ineffabile bouquet) un’assoluta rinunzia a qualsiasi manipolazione. Esige, in più, quattro anni di botte prima dell’imbottigliamento. Poi, distinguendosi così da ogni altro vino di Toscana, il Brunello può invecchiare praticamente all’infinito: migliorando, oserei dire, sempre. almeno Ho bevuto del Brunello del ’61, del ’58, del ’45, del ’25, e perfino del 1891 e del 1888. Vi sono bottiglie, commerciate regolarmente in Italia e all’estero, che vengono pagate, da collezionisti specializzati, quarantamila, sessantamila, anche centomila lire l’una. Ho provato anch’io, cedendo volentieri alla gentile offerta dei Biondi-Santi: e sono rimasto di stucco, come davanti a un piccolo miracolo. Ma tutto, al Greppo, ha del miracoloso. La villa di rossi mattoni, rivestita di rampicanti, è incorporata nell’azienda: e le vigne sono lì fuori, lì intorno, in vista dell’immensità e delle lontananze della Val d’Orcia. Anche senza Alpi e anche senza mare, è un paesaggio che colpisce subito per la sua grandiosità. Vi si arriva, da Montalcino, per una lunga strada di terra, fiancheggiata da castagni, che è tutta come un’altissima terrazza sul digradare dei vigneti e sulla vallata lontana. Al Greppo, non esiste telefono. Tancredi Biondi-Santi non l’ha mai voluto. Difende anche così l’integrità del suo vino. Insomma, il vino ha, per lui, tutte le caratteristiche psicologiche, che ha per l’artista l’opera d’arte. Una nuova opera di un’arte antichissima, che si presenta con i sintomi felici di una meravigliosa, gratuita follia. Basta, infatti, visitare brevemente le cantine, nitide come sale operatorie, per capire che un’azienda come quella del Greppo non potrebbe mai costituire un affare, non potrebbe mai esser finanziariamente “redditizia”, anche se vende qualche bottiglia a centomila lire l’una. Tutta l’attività di Biondi-Santi si concentra nell’ardua realizzazione di un programma doppio e contraddittorio: continuare a produrre un Brunello altrettanto squisito del Brunello paterno, e, al tempo stesso, “non perdere”. Ridurre, dunque, ridurre inesorabilmente tutte le spese che non siano strettamente connesse alla qualità del Brunello. A che servirebbe il telefono? Chi conosce il Brunello e lo ama, può scrivere: può telegrafare, può fare un viaggio. Non è detto, però, che il viaggio basti. È accaduto, in più di un’occasione, che qualche commerciante sia venuto fin quassù, e che sia stato ricevuto da Ferruccio Biondi-Santi con imperturbabile gentilezza, ma finalmente lasciato partire a mani vuote. Anche fisicamente, Ferruccio Biondi-Santi ha tutto dell’artista. Ormai settantasei anni, magro, roseo, forte e delicato insieme, nervoso e racé. Alta fronte, occhi celesti, sfavillanti, sorriso arguto e pieno di cordialità, ma anche improvvise ombre di malinconia, come se fosse distratto da un suo continuo, intimo sognare. Vedendolo con la moglie, si ha l’impressione struggente e rarissima di due coniugi che si sono sempre voluti un gran bene: che sono invecchiati bene insieme. Non c’è, credetemi, in questa vita alla lunga così feroce, uno spettacolo più bello, più consolante. La moglie è triestina: dopo i suoi primi adorabili, involontari tentativi di parlar toscano, si sente subito la dolcissima asprezza dell’antico “xè”. Non saprei dire perché, ma anche questa scelta, avvenuta durante l’altra guerra, mentre lui era tenente di fanteria, e lei era profuga, anche questa scelta fa parte della sindrome “artistica” di Ferruccio Biondi-Santi. Verrebbe voglia di definirlo un “vociano” del vino. Nove sono i poderi, i , da cui Biondi-Santi ricava il Brunello. Pullera è il più alto; vengono, poi, Greppo primo e Greppo secondo, Buon Consiglio, Greppino e Colombaio; e, dall’altra parte di Montalcino, Chiusa prima, Chiusa seconda e Scarnacuoia. I filari sono tutti vigorosamente piantati secondo la direzione nord-sud, come in Valtellina: affinché la mattina e il pomeriggio, quando il sole è più basso, le uve lo ricevano or su un fianco ora sull’altro: verso il mezzodì, quando il sole è più alto e più forte, lo ricevano di traverso. Qualunque altra collocazione sarebbe meno razionale, e ci sarebbe sempre una parte del filare che non prenderebbe mai sole. cru Verso il 1930, a una cena di produttori di vino toscani, partecipò anche il vecchio barone Luigi Ricasoli, padre dell’attualmente vivente Bettino. Dopo avere assaggiato il Brunello del 1891, e del 1888, disse a Ferruccio Biondi-Santi, con un sospiro: “Ecco, a questo io non ci arrivo!” La precoce sensibilità del Chianti e l’incredibile longevità del Brunello. Il semplicissimo segreto del tappo cambiato ogni venticinque anni. Cado “con le ginocchia della mente inchine”. Ma com’è, dunque, questo Brunello? Sentiamo il Garoglio: “Vino da arrosto di eletta classe, degno di competere con i migliori tipi di Borgogna, presenta da giovane un colore granato intenso e brillante, che nell’invecchiamento si trasforma in arancione carico. Un po’ sgraziato nelle prime età” (un po’ lazzo, un po’ allappante, preciserei, un po’ duro) “pur conservandosi robusto e generoso, acquista col tempo fragranza, sapore vellutato, e armonicità insieme a quel profumo delicato e intenso: caratteristiche, queste, di grande nobiltà e finezza, che lo distaccano nettamente, per gusto, profumo, vivacità e robustezza, dagli altri vini rossi toscani. Per gustarlo veramente va servito ad una temperatura non inferiore ai 18 gradi.” Aggiungerei che, nella stessa misura che è vecchio, bisogna, proporzionalmente, stappare la bottiglia un certo numero di ore prima di berla. E bisogna, naturalmente, stare attenti a non scuoterlo; ma, in ogni caso, non bisogna preoccuparsi del fondo polveroso, che è sempre in minima quantità, anche nelle bottiglie più antiche, e che non supera, in ogni caso, un paio di centimetri. Il Chianti, invecchiando, presenta fatalmente delle “disarmonie”: sono, probabilmente, la conseguenza della sua originaria mescolanza: come se, col tempo, tendesse a scomporsi negli aromi dei diversi vitigni da cui deriva. Il Brunello, invece, grazie all’integrità della propria razza, invecchiando migliora sempre. Il profumo è, nettamente, di lampone: chiudendo gli occhi, si ha la sensazione precisa di fiutare un bicchiere contenente un’acquavite di lampone, di quelle pregiatissime dei Vosgi: il sapore, poi, non ha, intendiamoci, proprio niente del lampone: è rotondo e giustamente amarognolo. Ho anche osservato che, facendo ruotare il bicchiere nel senso delle lancette dell’orologio, il profumo di lampone è molto più vivo che non facendo ruotare il bicchiere nel senso opposto. Non sono certo in grado di spiegare questo fenomeno, della cui autenticità posso garantire. Chiunque, del resto, può fare la prova. Avverto, però, che non tutte le bottiglie emanano lo stesso profumo. Sono i misteri del vino. La mia meraviglia, gustando il Brunello del 1891 e del 1888, era così viva anche perché, qualche tempo fa, sul lago d’Orta, l’antica e nobile famiglia dei Bonola volle stappare per me un Gattinara del 1899: lo trovammo, purtroppo, inesistente: la fragranza di un istante, appena tolto il turacciolo: poi più nulla, se non un po’ di liquido colorato di rosa, lievemente etereo, privo di qualunque gusto, privo di qualunque gradazione alcoolica. La stessa esperienza avevo fatto, in precedenza, più volte, con bottiglie di Barbaresco e di Barolo vecchie di quaranta, cinquant’anni e più. Siccome (non per sciovinismo di piemontese ma per convinzione confortata dal giudizio dei migliori esperti) credo fermamente che il Gattinara, il Barbaresco e il Barolo, quando autentici e di classe, non siano inferiori al Brunello, dissi a Ferruccio Biondi-Santi della delusione che avevo avuto a Orta e negli altri casi, e gli domandai che ne pensava: cosa avesse, il Brunello, per resistere tanto più a lungo dei più eccelsi vini piemontesi. Molto tranquillamente, anzi, quasi sbadatamente, come fornendomi un’informazione senza importanza, Biondi-Santi rispose: “Ma, vede, a lungo andare, il sughero, qualunque sughero, si secca, si rattrappisce, lascia passare l’aria. Bisogna avere l’avvertenza, ogni venticinque anni, di cambiare il tappo.” Caddi mentalmente in ginocchio, ammirando. Capivo tutto, ormai, del Brunello. E Biondi-Santi sorridendo continuava: “L’unica cosa che mi rincresce, è di avere buttato via i tappi vecchi, ogni volta che li cambiavo. Avrei dovuto legarli, ciascuno al collo della sua bottiglia.” Mi torna a proposito, qui, rispondere a molte persone che mi hanno rimproverato di non avere mai fatto cenno di come si debbano conservare le bottiglie di vino vecchio e pregiato: diritte, inclinate, orizzontali? La risposta sarebbe semplice e senza esitazioni: orizzontali, se tutto ciò che riguarda il vino non fosse, sempre, maledettamente complicato. Le bottiglie di vino pregiato andrebbero, dunque, conservate in posizione orizzontale affinché il sughero, restando, così, sempre umido di vino, non si secchi, non si raggrinzisca e ritiri, lasciando finalmente passare aria. Ma questa pratica, teoricamente ineccepibile, è poi, praticamente, inattuabile se non da parte dei grandi commercianti, grandi ristoratori, o facoltosissimi privati che dispongano di perfette cantine: sebbene anche costoro devono essere matematicamente certi, prima di le loro bottiglie, che provengano da una cantina, o da un magazzino, dove, fino a poco prima, siano state tenute in posizione orizzontale. Perché capita questo: se una bottiglia di vino pregiato resta qualche tempo (diciamo un mese, d’inverno; ma, d’estate, o se il luogo è riscaldato, bastano anche pochi giorni) in posizione verticale, allora è meglio, molto meglio, continuare a tenerla verticale: perché in quel breve tempo il sughero ha certamente subito un inizio di rinsecchimento, e, per fatale effetto, se poi si torna a coricarla, il vino prende sapore di tappo. coricare La risposta definitiva e pratica è, perciò, esattamente il contrario della risposta iniziale e teorica. Quando si è dubbiosi sulla posizione conservata dalle bottiglie nel luogo o nei luoghi di permanenza precedenti, è sempre meglio tenere le bottiglie verticali: anche se, alla lunga, si va incontro all’inevitabile rinsecchimento del sughero. Ultimo consiglio: tenerle diritte, e non aspettare mai troppo a “fare la prova”.