Nelle provincie di SIENA E FIRENZE
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Il trenino da Montepulciano stazione a Montepulciano città. L’Ottocento ucciso con le alabarde. La villa Ciuffi e i tempi di Pietro Bastogi. Lode ai capomastri del Sud senese. Cosa provai, o meglio non provai, bevendo a Mosca lo Zinandàli della Georgia. Il metodo critico di Sainte-Beuve applicato all’enologia.

Quel trenino che da tanto tempo non esiste più e che, con un percorso di non più di dodici chilometri, collegava Montepulciano stazione, sulla ferrata Chiusi-Siena, a Montepulciano città, dieci minuti dopo la partenza si fermava. Si fermava, ogni volta, a una stazioncina minima, come per raccogliere le forze prima della gran salita che gli toccava, una lunga arrancata tutta in cresta alle colline, nell’immensità cresposa dei vigneti tutto intorno, verso l’alta, rossa città murata e turrita.

Ho cercato invano una traccia, un segno qualunque di dove fosse, esattamente, la stazioncina. Mi sarebbe bastato il resto di una scritta sbiadita su un muro giallastro, un pezzo di muro che una volta avesse fatto parte del piccolo edificio. A Nòttola, a Gracciano, all’Abbadìa? Dove fermava il trenino? Solo qualche anziano si ricorda dove. Per esempio il signor Marcello Ferri, che mi scrive: “... le stazioni ci son sempre. La prima era Fontago a circa quattrocento metri dalla stazione F.S. ed il suo nome si può ancora indovinare sulla parte est del fabbricato dov’è restata ancora qualche traccia della vecchia scritta. Anche la stazione di Gracciano è rimasta là, al suo posto...” Gli uomini di mezza età sanno appena che il trenino era esistito. E i giovani neanche questo. Straordinaria la spietata fretta che tutti, anche i più anziani, anche i più pii, mettono a dimenticare. Straordinario che ciò accada perfino in Toscana, e nella provincia di Siena, dove la forza della tradizione serba ancora il segreto della vitalità. Ma è forse una questione di moda. Si rinnovano arditamente i metodi di agricoltura. Il Cavaliere del Lavoro Varo Ciuffi sta pianificando la sua grande azienda: mira a sacrificare ogni cosa al razionalismo di una sola attività: nel suo caso al bestiame, alle... “Non mucche, no!” mi dice correggendomi vivacemente. “Vacche, vacche da vitello! Le mucche sono da latte!” Le sue sono, invece, vacche da vitello, di razza chianina. “La migliore razza del mondo, come di recente hanno potuto constatare certi ospiti sovietici, venuti in comitiva a visitarmi. Da me, la stabulazione è libera. Le vacche figliano anche sotto zero. Qualche volta, sul ghiaccio resta l’impronta del vitello appena nato! Per questo i manzi, poi, sono così forti, e per questo la carne delle bistecche toscane è così gustosa.” Tra le colture sacrificate, primissimi i vigneti: che, del resto, piantati troppo in basso, sulle ultime propaggini delle colline o addirittura nella pianura del Chiana, qui non avevano mai dato un gran vino. Allo stesso modo, sempre in provincia di Siena, sulla strada di Paganico, a Cerreto a Messe, mi dicono che Giancarlo Signorini abbia pianificato la propria azienda mettendola tutta a granturco, con metodi modernissimi e completamente meccanizzati, e con risultati sorprendenti. Il medesimo Signorini, nella sua villa, o castello, che è al centro della tenuta, pare che non abbia voluto la luce elettrica. Pare che si vada “a candele”. Estrema eleganza, estremo snobismo. Peccato, però, che il Signorini non sia imitato. Perché gli altri non sono così fini. Gli altri, in grande maggioranza, accettano la tradizione più antica, dalle alabarde alle gualdane, al Palio: restaurano e riattano Pienza e Montepulciano a furia di ferri battuti, ceramiche, caratteri gotici, “Hostarie”, e poi distruggono spietatamente tutto quanto appartiene all’onesto, modesto Ottocento e alla sua delicata eleganza, al suo sottile buon gusto.

Ma la villa dove abita il Cavalier Ciuffi è un capolavoro appunto di quell’epoca, ed è intatta: un’eccezione! Chi potrebbe ridire la magia delle misure, l’incanto dei colori? Le porte-finestre e le finestre, strette e alte, riquadrate di regolari fasce grige: le persiane di verde vivissimo, spaziate nella facciata giallina: il piccolo parco serrato intorno, con i pini, i cedri del Libano, le stupefacenti “acacie pendule”: la ghiaia, grigia chiara, le panchine di legno verniciato di bianco... Tutto questo non è più di moda. Oggi si va per i castelli medievali o per i palazzoni del Cinquecento.

La villa Ciuffi fu costruita da Pietro Bastogi, livornese, ministro delle Finanze, che, nel 1861, operò l’unificazione delle nostre monete, e poi fondò e presiedette la Società delle Strade Ferrate Meridionali. Fu un “dritto”, certamente. E fu probabilmente “lui”, proprio lui, a volere il trenino di Montepulciano.

Arrivava dunque sbuffando, e si fermava alla stazioncina. I grandi notabili, che venivano forse da Roma per la vendemmia, per la caccia, per l’Ognissanti, avevano già “cambiato” una prima volta a Chiusi, e poi una seconda a Montepulciano stazione. Adesso scendevano qui, facevano quattro passi, si sgranchivano le gambe: il trenino attendesse. Ma già sulla banchina venivano loro incontro i piccoli notabili. Il fattore di Bastogi veniva incontro al grande Bastogi. Dagli astucci di bulgaro, coi precisi scatti dei fermagli, uscivano cristalli di Boemia, bicchieri sfaccettati e bottiglie che scintillavano al sole coi loro cuori dorati di cognac, tra gli sbuffi bianchi e densi di fumo che sfuggivano dalla caldaia della vicina locomotiva, e che la brezza autunnale spingeva contro il festante gruppetto radunato sulla banchina, prima di disperderli nei frastagli delle vigne, subito al di là delle rotaie. Scappellate di cilindri e cittadini “homburg” rispondevano alle scappellate dei “cenci” locali, più larghe ancora e, per il dovuto rispetto, alquanto più indugianti nell’immobilità del loro massimo raggio estensivo. Brevi discorsi, “indirizzi”, cui facevano riscontro i “ringraziamenti esternati”, le cordiali manate sulle spalle e l’offerta di lunghi, bruni, nodosi Madera, generosamente estratti dalle tasche interne dei “marchetti” e delle “finanziere”.

Bastogi fu, senza dubbio, un grande uomo d’affari e un profittatore senza scrupoli. Con la facoltà che, nei suoi rapporti col Governo, si era riservato, a sé e ai suoi soci, di “redigere e variare i progetti, e di incamerare oltre metà del profitto delle aste, e di percepire ricompense per studi, direzione dei lavori, sorveglianza, ecc.” (F.S. Merlino, Questa è l’Italia), possiamo dire, ahimè, che fu un autentico precursore del fascismo e di molto postfascismo. La verità è che, forse, certi nostri guai sono cominciati proprio ai tempi di Bastogi, e che, semmai, la provincia di Siena soffrì meno di tante altre. Quel piccolo mondo dignitoso, colto, libero e intelligente che era la Toscana del Granduca cercò, forse, nei primi decenni dell’unificazione, e forse si illuse, di continuare a vivere e di progredire, al centro dell’Italia e contro l’Italia, senza perdere le proprie migliori qualità. Mi apparve, quel mondo, quasi emblematicamente, nella facciata gialla dalle persiane verdi della villa ex-Bastogi, appena la vidi: e mi balenò vivo, come in un sogno del passato che sognai a occhi aperti, mentre il Cavalier Varo Ciuffi mi raccontava la scenetta della stazione: lui se ne ricordava, era bambino allora. Adesso, di quel mondo, a parte la villa Bastogi, se resta ancora una traccia, resta non certo nella restaurazione falsificante e benellesca degli abitanti più famosi: ma, stranamente, nell’architettura delle case più umili e più recenti, nelle case di operai, artigiani, lavoratori dell’agricoltura, costruite durante gli ultimi anni da queste parti, e anche ad Abbadia, a Nòttola, a Gracciano. Sono case e casette, in qualche modo illuminate da una profonda intelligenza: composte e guidate da quella segreta armonia, che continuo a cercare invano, disperatamente, in tutti o quasi tutti gli edifici, piccoli o grandi, paesani o cittadini, costruiti dopo il 1914 in Italia, e nelle altre provincie della stessa Toscana. Non c’è dubbio: i paesi del Sud senese, da Monticiano a Sinalunga, da Montalcino a San Casciano, non più a nord né più a sud di queste due linee ideali, possono essere considerati una miracolosa eccezione nel disastro della nostra moderna edilizia. Ma l’edilizia è la grafologia della storia. E questo, che per comodità retorica diciamo miracolo, deriva dunque dal relativo isolamento in cui le popolazioni del Sud senese rimasero, fino ad oggi, quasi incorrotte. Va da sé che il buon gusto di tutte queste case e casette non è merito di architetti. Sono costruzioni troppo modeste perché l’opera di un architetto potesse essere richiesta e potesse, d’altronde, trovarvi il necessario compenso. Qui dobbiamo ringraziare tutt’al più i geometri: o, forse, soltanto i capimastri. È in loro che continua a vivere la tradizione, la musica muta delle misure, il bagno della bellezza. Unici errori, uniche eccezioni: le ringhiere in ferro, le balaustre e, in genere, tutti quegli elementi che, per dolorosa necessità economica, geometri e capimastri non disegnano e non costruiscono, ma acquistano prefabbricati da qualche stabilimento industriale.

E il vino? Cosa c’entra il vino? Oh, se c’entra! Il vino è come la poesia, che si gusta meglio, e che si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita, le altre opere, il carattere del poeta, quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato, con la sua educazione, con il suo mondo. La nobiltà del vino è proprio questa: che non è mai un oggetto staccato e astratto, che possa essere giudicato bevendo un bicchiere, o due o tre, di una bottiglia che viene da un luogo dove non siamo mai stati.

Che cosa ci dice l’odorato, e il palato, quando sorseggiamo un vino prodotto in un luogo, in un paesaggio che non abbiamo mai visto, da una terra in cui non abbiamo mai affondato il piede, e da gente che non abbiamo mai guardato negli occhi, e alla quale non abbiamo mai stretto la mano? Poco, molto poco.

Ho bevuto a Mosca lo Zinandàli della Georgia. Ma, non essendo andato in Georgia, e non avendo letto gran che sulla Georgia, e non sapendo quasi niente della Georgia, la mia fantasia, mentre sorseggiavo lo Zinandàli, oscillava incerta, vagava tra un palmento siciliano e un cru del Vallese. Lo stesso mi accade quando leggo, tradotta, una poesia di Lermontov. E perfino Leopardi, non pare molto più vivo, chiaro e profondo, quando si conosce Recanati, o quando, almeno, si è imparato qualcosa su Recanati attraverso i libri?

Il metodo sainte-beuviano, di immergere il più possibile un’opera letteraria nel suo ambiente e nel suo tempo, è ancora il migliore di tutti i metodi per capirla e per gustarla fino in fondo. Tale e quale per il vino. E l’operazione necessaria non è, credetemi, meno complicata: lo studio non è meno lungo né meno difficile. Il piacere enologico è molto più raffinato e complicato di quanto paia. Basta pensare come la bibliografia specifica che esiste su un dato vino sia infinitamente meno ricca della biblioteca specifica che esiste su un dato poeta. Bisogna, perciò, sopperire alla mancanza in qualche modo: e, prima di tutto, viaggiando, visitando i luoghi, parlando con i produttori e con i commercianti, leggendo, in seguito, tutto quanto, anche lontanamente, abbia rapporto con il vino che vogliamo “capire”. E che cosa mai può non avere rapporto con un vino? Innumerevoli le conoscenze che il critico enologico dovrebbe possedere: geologiche, geografiche, meteorologiche, storiche, letterarie, chimiche, meccaniche... Un buon “ritratto di un vino”, come quelli che Sainte-Beuve ci ha dato di tanti letterati e uomini politici, non è ancora stato scritto.