Non esiste una strada canonica per diventare esperti di vino. La maggior parte di quelli che conosco hanno seguito percorsi molto diversi e alcuni degli esperti che stimo di più sono pianisti, filosofi o bancari!
La passione può nascere da semi differenti, si può sviluppare in un percorso di studio specifico o essere coltivata in parallelo, come strada secondaria, per poi magari virare in senso professionale. Di certo il vino include in sé così tante discipline e abbraccia così tante regioni del mondo che per diventare esperti non basta un corso, ma serve necessariamente una chiamata all’avventura. Un’avventura che non si esaurisce dopo aver appreso come si tiene in mano un calice o tutte le denominazioni di origine da recitare a memoria.
Certo, esistono corsi universitari, come Agronomia o Enologia, per imparare a fare il vino, o corsi di laurea a indirizzo economico per lavorare nel marketing e nel commercio, corsi per sommelier adatti a chi vuole lavorare a contatto con il pubblico. O percorsi di studio quasi impossibili da portare a termine, come quello per Master of Wine o Master Sommelier – di cui al mondo esistono meno di trecento rappresentanti di ciascuna categoria – che vi apriranno la strada verso qualunque campo enologico in cui scegliate di lavorare. Sono possibilità che arricchiranno alcune fasi della vostra avventura, ma questa sarà articolata in molti capitoli, tra cui quello accademico è uno dei tanti. Ci saranno poi gli incontri con i produttori, le bottiglie stappate nei momenti meno adeguati, gli abbinamenti nati all’improvviso con persone che non conoscevate.
Il vostro viaggio sarà sempre diverso da quello di chiunque altro, perché ogni bottiglia è diversa in ogni momento, perché il vostro palato seguirà un percorso del tutto unico e cambierà con voi.
La mia intenzione non è soltanto quella di condividere con voi ciò che conosco sul vino, quanto aiutarvi ad accendere la scintilla della passione, in modo che possa guidarvi in un percorso di scoperta dei vostri sensi, del vostro palato e quindi dei vostri vini preferiti.
Ecco qual è stato il mio viaggio.
Alla fine del mio percorso universitario a Economia e Commercio a Firenze, e dopo aver studiato per un anno marketing internazionale in Olanda, mi rimaneva da scrivere la tesi. Alla fine degli anni novanta le tesi di ricerca duravano circa un anno e io non ne potevo davvero più. Dunque mi interrogai su cosa mi avrebbe potuto motivare a stare ancora all’università.
Non mi ero accorto che la mia “chiamata” era già arrivata qualche anno prima, grazie a una di quelle strane creature della notte che conobbi durante una serata con gli amici a Firenze. Arnaldo era un uomo sulla cinquantina e noi eravamo un gruppetto di ventenni che avrebbe trascorso la sera a bere birra o vino della casa in qualche piccolo locale con musica dal vivo. Arnaldo era (ed è ancora) uno di quelli che riescono a parlare con chiunque, un uomo dall’intuito così spiccato che sembra leggerti nella mente. La sua casa affacciata sulle Cappelle Medicee era un porto di mare e la sua cantina il luogo dove trovare ristoro. Solo dopo qualche anno di frequentazione cominciammo a realizzare di aver bevuto bottiglie incredibili, alcune delle quali costosissime e che come studenti non ci saremmo mai potuti permettere.
Le cene da Arnaldo mi dettero l’impulso per una tesi sulla storia del commercio del vino che scelsi di dare con un professore del corso di Economia e Politica agraria. Il prof. accettò e io cominciai a studiare. Furono la storia, gli aspetti antropologici e la simbologia che sta dietro al vino a catturare più di qualunque altra cosa la mia attenzione. Più andavo avanti nella lettura e nella scrittura e più sentivo quel legame ancestrale alla terra e al vino che in tutta naturalezza mi aveva passato mio nonno alla fine di ogni estate, quando ci riunivamo in una casetta nella campagna fiorentina per fare un Chianti artigianale in famiglia.
In quei giorni di settembre vedevo gli adulti seguire ubbidientemente il nonno in vendemmia. Si pestava l’uva nelle vasche aperte, assaggiavamo il mosto ancora tiepido e poi, settimane dopo, qualche bottiglia di vino pronta.
La felicità degli adulti è la cosa che mi è rimasta più impressa, assieme al fascino di poter assaggiare quel succo che avevamo contribuito a trasformare da uva in vino.
Nel corso degli anni ci sono stati altri momenti catartici vissuti insieme al taciturno nonno Yoda – 1 metro e 55 di rughe e saggezza – che hanno contribuito a farmi vedere il vino come un prodotto magico. Come quando, saltando giù da un albicocco, mi tagliai una mano e, prima di finire al pronto soccorso, fui disinfettato con il vino e calmato con un goccio da bere! Durante i miei primi studi sul vino e la sua storia ebbi conferma che mio nonno stava solo eseguendo gesti che compiamo da migliaia di anni. Il vino può essere una sostanza medicamentosa per il corpo ma anche per l’anima.
Il mio viaggio nel mondo del vino sembrava ormai inarrestabile, ma cominciai a perdermi nei meandri della conoscenza. Il prof. mi chiese di dare alla mia tesi un taglio più economico e meno storico, ma ormai era troppo tardi. L’ancestralità del vino era diventata il motore delle mie ricerche. Ed era ciò che più mi appassionava. Adesso avevo una missione: conoscere il vino da vicino, assaggiarlo e imparare tutto quello che c’era da imparare. Avevo capito che il vino era il più straordinario collante umano, un lubrificante sociale, un catalizzatore di cultura. Ricordo il tentativo confuso di convincere il prof. che era proprio grazie a questi aspetti se il vino si stava riaffermando come un prodotto sempre più ricercato. Ma niente: lui ribadì che dovevo cambiare strada e indagare sulle tendenze del settore. Scoraggiato dall’interruzione delle mie ricerche, misi in stand by anche la tesi per un paio di mesi. Poi venni a conoscenza di un progetto di avviamento della prima Strada del Vino del Chianti Rufina e Pomino, che sarebbe anche stata la prima in Italia. Il giorno dopo tornai dal prof. con l’indice della mia tesi di marketing territoriale basato sui fattori antropologici come humus su cui costruire la comunicazione del vino.
Da quel momento sono entrato ufficialmente nel mondo del vino. Ero motivatissimo, avevo un incarico di ricerca dall’università che mi permetteva di incontrare decine di produttori!
Ricordo ancora quella sensazione straordinaria di possibilità: potevo conoscere direttamente chi faceva il vino. All’epoca il vino non era trendy come oggi e quasi tutte le cantine erano chiuse al pubblico. Cominciai ad assaggiare vini, a seguire i lavori in vigna e i processi in cantina. Non più sui libri, insomma, ma direttamente sul campo. Sentivo però che mi mancavano alcune basi per poter stare al tavolo con i produttori e decisi di seguire uno dei primi Master sul vino all’Enoteca Italiana di Siena, passai il test di ammissione e mi si spalancarono le porte dell’analisi sensoriale.
Mi laureai nella primavera del 1999 e poco dopo seppi che quell’autunno avrebbe aperto i battenti a Londra Vinopolis, il più grande museo del vino mai esistito. Mandai il CV e con mia enorme sorpresa mi chiamarono per un colloquio come marketing manager. Motivato anche dalla ricerca di Lucia, il mio amore perduto, partito per gli UK qualche mese prima, feci le valigie. Durante il colloquio conoscitivo mi accorsi che il mio inglese non bastava neanche per lavare i piatti (esagero), figuriamoci per lavorare nel dipartimento di marketing di un’azienda con trecento dipendenti.
Mi venne offerto un lavoro come sommelier al museo, ma sulle prime rifiutai per via dell’orgoglio da laurea e Master appena conquistati: figurati se mi potevo mettere quell’uniforme con quell’assurdo gilet celeste a righe nere!
Sembravo il rovescio di Mafalda in quella vignetta dove, chiamata alla lavagna, parte piccolina e timorosa e poi, avendo risposto correttamente, torna al banco sentendosi una gigante. Insomma, ero partito tronfio della mia laurea, dei miei studi e della sicurezza di chi viene dal più grande paese produttore di vino e mi trovavo senza un lavoro, con la sensazione di essere il brutto anatroccolo, sull’orlo di una depressione e con un inglese che faceva acqua. Ah, dimenticavo: nel frattempo Lucia mi aveva lasciato. Nonostante le varie sconfitte, la chiamata all’avventura nel vino a Londra non svanì.
Dopo tre mesi trascorsi sul divano di amici scozzesi, finii i soldi e l’orgoglio e tornai a bussare alla porta di Vinopolis, dove per fortuna c’era ancora una posizione come sommelier con il gilet. All’epoca non mi sembrò una grande svolta. Solo qualche anno più tardi mi accorsi che quel giorno la mia vita era cambiata per sempre.
Il museo, ubicato sotto gli archi vittoriani della ferrovia di Borough Market, ai tempi un quartiere poco raccomandabile nei pressi del London Bridge, si aspettava migliaia di visitatori l’anno, in virtù dell’imminente apertura della Tate Modern poco più avanti, lungo il Tamigi. I visitatori che si presentavano alle porte del museo erano invece soltanto qualche centinaio.
Il nostro team, composto da 35 sommelier provenienti da ogni angolo della Terra, doveva aprire i 350 vini in esposizione e assicurarsi che fossero serviti alle giuste temperature. Ognuno al proprio tavolo – ovviamente io presidiavo l’Italia – doveva intrattenere gli ospiti insegnando loro le tecniche di degustazione. La bassa affluenza di pubblico ci consentiva di fare scambi di assaggi tra i tavoli e nel frattempo, senza nemmeno accorgermene, registravo le domande più frequenti degli avventori scoprendo cose interessanti sulle persone e sul vino:
- ciascuno ha un proprio palato ma esistono dei gruppi con preferenze comuni;
- da Londra passa chiunque;
- il nostro palato cambia negli anni.
Discutevamo e assaggiavamo con gli ospiti, ci divertivamo a creare stimolanti degustazioni comparative e alla cieca (cioè senza sapere quali fossero le etichette) tra i 350 vini – i Cabernet Sauvignon, gli Chardonnay del Vecchio Mondo contro quelli del Nuovo Mondo – o a vedere cosa accade alla stessa bottiglia dal momento dell’apertura nelle ore e nei giorni successivi.
Forse nessuno di noi all’epoca era consapevole di lavorare nel più grande campo di allenamento per sommelier al mondo, otto ore al giorno più gli straordinari.
La mia avventura adesso chiedeva un impegno diverso: sapevo che non sarei più tornato a Firenze.
La mia curva di apprendimento diventò verticale sia dal punto di vista accademico, perché cominciai a studiare al WSET (Wine and Spirit Education Trust), sia perché assaggiavo tutti i giorni vini provenienti da ogni dove. Tom, un mio giovane collega dello Yorkshire, mi aiutò a trovare la fiducia necessaria per raccontare storie di vino in pubblico.
Era incredibile osservare come ci fossero degli schemi di comportamento, dei profili di palato (punto 1) che si ripetevano indipendentemente dalla provenienza degli ospiti (punto 2). Cominciai a chiedermi se esistesse un modello, ma non trovai alcuno studio a riguardo. Inoltre, fatto interessante ma complicato, il nostro palato cambia nel tempo (punto 3), e cambia anche a seconda del set mentale, delle situazioni sociali, del periodo dell’anno o di quello che si sta mangiando.
Notai che alcune persone rimangono ancorate ai gusti, alle consistenze e ai sapori, diciamo per semplicità, di casa. Altre invece sono naturalmente inclini alle novità.
Di fatto, nel giro di un anno mi trovai immerso nella capitale mondiale del vino, circondato da un gruppo di colleghi straordinari, diventati poi amici per la vita, e a parlare inglese h24.
Ero arrivato a Londra con un palato legato ai vini italiani pre-rivoluzione enologica: vini con poco legno nuovo, spesso molto scarichi di colore, abbastanza scorrevoli e in molti casi con un frutto non troppo netto. Poi, nella capitale mondiale del vino, mercato di pura domanda, avevo trovato i vini di qualunque angolo della Terra e perso la bussola.
Il viaggio è stato fantastico. All’inizio mi sono innamorato dei vini morbidi, potenti, fruttati e rotondi del Nuovo Mondo, rapito dall’immediatezza di questi vini facili da capire sia al palato sia dall’etichetta, che li descrive con semplicità. Poi, per gli stessi motivi che mi avevano attirato, mi sono annoiato: eccessiva semplicità e troppa omogeneità. La maggior parte di quei vini lì all’epoca era di stampo abbastanza industriale. Solo dopo qualche anno, con l’arrivo dei vignerons, cioè diciamo dei vini più artigianali di Australia, Patagonia, Sud Africa o California, ho ritrovato il piacere di bere il Nuovo Mondo.
E mentre la mia vita scorreva al massimo dei giri, tra una giornata al lavoro e una serata in un wine bar, mi ritrovai nelle braccia di un nuovo amore: la Francia.
Vivevo con due coinquilini, un collega di Montpellier, Vincent che, contrariamente a tutti i francesi..., aveva un orgoglio nazionale infinito, e una collega irlandese, di nome Ciar.
Ogni giorno al lavoro aprivamo decine di vini francesi, ma fu a casa con Vincent, davanti ai confit de canard, ai foie gras o al Roquefort, che lui riportava apposta per noi, che fui trascinato nello straordinario mondo d’oltralpe.
Nel frattempo la situazione al lavoro si fece difficile. Vista la bassa affluenza dei visitatori, il museo cominciò a licenziare i sommelier: dovevo escogitare qualcosa per tenere il posto. Tom e io ci accorgemmo che le più importanti aziende della City affittavano il museo per i loro eventi con il personale o con i loro migliori clienti. Ci inventammo allora un format di intrattenimento aziendale con il vino. Il direttore del museo ci permise di fare un test di prova, con la promessa che se avessimo avuto successo avremmo lavorato in un nuovo dipartimento. La nostra sfida dei vini misteriosi fu un portento clamoroso e il mese successivo diventammo Corporate Wine Tasting Manager.
Ricoprii quel ruolo per quasi due anni, sviluppai nuove competenze nell’organizzazione degli eventi aziendali e cominciai a gestire importanti budget per acquistare i più grandi vini del mondo per le nostre serate. Erano gli anni del famoso scontrino scandalo da 44.000 £ in vino per un pranzo di lavoro di cinque brokers della City che furono poi licenziati e qualche pezzettino di quelle spese folli finiva anche in tasca nostra, ma il bello era che potevamo scegliere vini che non ci saremmo mai potuti nemmeno sognare. Iniziai a prendere dimestichezza con le bottiglie a tre zeri e a specializzarmi nella gestione dei grandi eventi.
Il lavoro andava molto bene, ma stavo perdendo il contatto con le mie degustazioni quotidiane e con il mio ruolo di docente che avevo cominciato qualche mese prima con grande successo e soddisfazione.
È vero che il mio palato stava crescendo e cambiando velocemente ma c’era ancora tanto da fare. Il mondo del vino è così vasto che non si può mai dire di conoscerlo tutto. E anzi, più vai avanti e più ti accorgi di quanto non sai.
Steven Spurrier, l’uomo della degustazione di Parigi del 1976, in cui gli Stati Uniti batterono i più grandi vini francesi (vedi), a un certo punto chiese ad alcuni di noi di aiutarlo nella sua Wine Academy dove, servendo nelle master class dei vini più prestigiosi del mondo raccontati da giornalisti mitici come Hugh Johnson, Jancis Robinson e Michael Broadbent, cominciammo a fare il vero cambio di passo. Non solo perché a fine serata potevamo assaggiare i mostri sacri dell’enologia, ma anche perché ascoltavamo le parole e i racconti di questi palati straordinari. Fu in una di queste serate – era il 2002 – che Steven mi chiese di assaggiare per una delle più autorevoli riviste di vino al mondo: Decanter Magazine. Vi posso dire che sentii una gioia enorme ma anche una altrettanto enorme paura. Ero spaventatissimo: “E se assegno solo 13/20 a un vino cui Steven dà la medaglia d’oro a 20/20?” pensavo. Gli assaggi professionali consistevano in giornate che duravano dalle 9 di mattina alle 5 del pomeriggio, e nelle quali avevamo davanti fino a 100 campioni. Avevo paura di confondere i vini, di non giudicare correttamente. Era un lavoro stimolante ma anche molto faticoso, e tutto in una lingua non mia.
Le prime volte era come stare in una nebbia fittissima in cui non riuscivo a vedere nitidamente. Andavo avanti e indietro negli assaggi. Risistemavo il punteggio del primo vino, poi quello del secondo, poi tornavo al primo. Leggere e ascoltare il vino in un contesto di assaggi in batteria in un panel non era per niente un gioco da ragazzi. Ma a forza di degustare tutti quei vini, dopo migliaia di ore di assaggio e migliaia di bottiglie aperte, cominciai a sentirmi più sereno. Fu come se da un giorno all’altro fossi diventato capace di leggere e parlare una lingua diversa. Capivo cosa avevo nel bicchiere, come quando Keanu Reeves in Matrix comincia a vedere, distinguere e interpretare la matrice.
Mi resi conto che fino ad allora ero stato nel buio e – lo confesso – che avevo parlato di vino senza averlo veramente mai compreso con il mio palato.
A questo punto mi si presentò un dilemma. Nel picco del mio momento professionale conobbi Vanessa, poi diventata la madre dei miei due figli e delle mie due società. Ci innamorammo proprio quando io ero ormai diventato inglese e stavo quasi per comprare casa con Iain, il mio ultimo coinquilino e amico carissimo. Feci una virata verso Firenze per lei. L’amore vinse portandosi con sé la voglia di vedere cosa avrei potuto fare in Italia con l’esperienza londinese. Partii da Londra con una macchina piena di vini e di libri per tornare a casa, non prima di concedermi un viaggio di sei settimane attraverso tutte le regioni francesi. Volevo mettere il naso dentro alle aree vinicole studiate per così tanti anni. Un sogno diventato realtà.
Arrivato a Firenze cominciai a seminare per assicurarmi sufficiente lavoro. Iniziai a collaborare a importanti progetti di comunicazione e marketing con alcuni enti pubblici e nel 2004, subito dopo la nascita di mio figlio Milo, con Vanessa facemmo nascere anche Le Baccanti Tours, un’agenzia di viaggi ed eventi specializzata nel cibo e nel vino. Per una decade intera ho lavorato senza fare quasi mai vacanza, se non un po’ di mare con i bimbi (sì, plurale, perché nel 2008 nascerà Daphne).
Dopo tre anni ci siamo trasferiti negli Stati Uniti per qualche mese per condurre un road show di eventi in cui ho presentato i grandi vini d’Italia con serate di degustazione che avevamo chiamato “The Amazing Italian Wine Journey”. La stagione americana mi ha aiutato tantissimo a disegnare eventi in cui il vino era il mezzo per raccontare l’Italia e i suoi produttori.
Nel 2006 ci fu l’incontro con la persona che più di tutte ha cambiato il mio modo di assaggiare il vino: Ernesto Gentili. In dieci anni di assaggi per la Guida dei Vini d’Italia de L’Espresso, il mio palato ha fatto un salto quantico grazie alle migliaia di vini incontrati, ma soprattutto per il confronto con la squadra della guida. La mia conoscenza dei vini d’Italia cambiò per sempre. Il mio palato, trasformato dagli assaggi seriali, non era più quello di prima.
Adesso davanti a un bicchiere di vino mi sento come un animale nella foresta, in grado di percepire ogni piccolo dettaglio dell’ambiente circostante. La lettura del vino non è più uno sforzo stilistico, un’impresa competitiva, ma un atto naturale. Una sorta di ritorno al piacere di quei primi assaggi di bottiglie più serie fatti a Firenze oltre venti anni prima nella cantina di Arnaldo, ma con un grado di coscienza rinnovato: da Innocente che ero mi sono trasformato in Amante del vino, poi Saggio e adesso Folle, letteralmente pazzo per il vino.
Un ultimo passaggio fondamentale arriva dal contatto continuo e ravvicinato con alcuni di quelli che per me sono stati e sono i più cari maestri del vino italiano e con i quali ho ritrovato la luce che da piccolo vedevo nel nonno. Le conversazioni e le serate con loro mi hanno insegnato come tutto quello che ho imparato dai libri sia solo un modello, la base di una materia che sta a metà tra scienza e arte. Da loro ho capito che ciascuno manovra le infinite variabili in un modo così personale da annullare praticamente ogni regola scritta.
Ma c’è un ultimo grande interlocutore che rende il mio lavoro il più bello del mondo: gli amanti del vino; i collezionisti che aprono con me bottiglie rarissime; i miei clienti, specchio infallibile che ti fa capire se stai lavorando come si deve; gli amici più cari, la cui presenza è motivo per aprire le bottiglie più importanti della mia cantina. E i miei studenti, che mi costringono sempre alla verità.
Tra loro ce ne sono alcuni, anche celebri, che per la loro spiccata personalità mi hanno fatto riflettere ancora di più. Ecco John Malkovich con il suo profilo di Sovrano illuminato: a lui piacciono rossi potenti e concentrati come i Cabernet Sauvignon della Napa Valley o della Costa Toscana. Una personalità raffinata e gentile come Emma Thompson adora i grandi bianchi di Borgogna o una Vernaccia invecchiata, proprio come l’Amante. Stephen Colbert invece apprezza vini più profumati e reattivi, come il Burlone. La curiosità di Dustin Hoffman e la sua semplicità risuonarono con un piatto di spaghetti al pomodoro e un Nobile di Montepulciano. Infine la gentilezza e la capacità di ascolto dei coniugi Obama spinsero verso il tocco vellutato di un Barolo del ’61 per Barack e di un Brunello del ’64, di grande forza espressiva, per Michelle. A ciascuno il suo vino.