2. VIAGGIO STORICO-ANTROPOLOGICO NEL MONDO DEL VINO
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GLI ANTENATI DEL VINO

La nascita del vino viene fatta risalire a circa ottomila anni fa nel Nord della Mesopotamia. In realtà, se ci pensiamo bene, il vino nasce molto prima. Ecco perché: attorno al grappolo dell’uva ci sono molti microrganismi (lieviti) affamati che non aspettano altro che l’uva giunga a maturazione e la buccia si rompa per mangiarne lo zucchero. Il risultato del loro pasto si chiama vino. Va anche detto che qualunque frutto lasciato per un po’ in un recipiente chiuso produce una sorta di vino. Ciò che l’uomo allora deve aver scoperto abbastanza velocemente, e felicemente, è che nell’uva non solo la fermentazione parte spontanea ma che il risultato è migliore rispetto agli altri frutti. Ed è altrettanto intuitivo ipotizzare che questa scoperta sia avvenuta ben prima del Neolitico. La Vitis vinifera (la specie di cui oggi abbiamo quasi diecimila varietà) sembra infatti avere oltre trentamila anni: dunque nel Neolitico in Mesopotamia, laddove oggi esistono Georgia e Armenia, non compare il vino per la prima volta, ma la prima vite coltivata dall’uomo. L’ipotesi è confermata da alcuni ritrovamenti fossili datati con il carbonio-14 e suffragata da molti reperti archeologici come le tavolette di Ur e Lagash, le città sumere risalenti al IV-III millennio a.C. che testimoniano come l’attività viticola in queste aree fosse da molto tempo parte integrante della vita di allora.

Nel corso dei millenni, soprattutto a nord di quelle pianure, nei territori circondati dagli imperi dei Sumeri, degli Accadi, degli Assiri, dei Babilonesi e degli Ittiti, sono state lasciate numerose testimonianze che ci dicono come con la caduta dei Sumeri, avvenuta nel II millennio a.C., e la conseguente ascesa dell’impero assiro, il potere politico si sia spostato a nord-ovest, verso Babilonia. Con esso si spostò anche la vite, che iniziò a essere coltivata a latitudini ottimali rispetto a quelle di Lagash e Ur situate al 31° parallelo nord, oltre il confine ideale per questa pianta.

Fin dal principio vite e vino hanno trovato un posto d’onore nelle culture del tempo. Dal Codice di Hammurabi (1792-1750 a.C.) scopriamo che a Babilonia, per quanto la birra fosse diffusa, il vino ricopriva già il ruolo di bevanda sacra e dell’élite.

Nel I millennio a.C. gli Assiri si spostarono ancora più a nord nelle città di Ninive, Ashur e Calah. In alcuni bassorilievi di Ninive si trovano raffigurati il re e la sua consorte seduti sotto un pergolato mentre bevono quasi certamente del vino. Erodoto, nel V secolo a.C., descrive il traffico commerciale di vari prodotti del Nord babilonese e tra questi cita il vino, definendolo come uno dei migliori frutti di Demetra, la dea greca delle messi.

Con i Greci e i Fenici il vino arriva in Italia, per l’appunto chiamata Enotria, la terra del vino. È proprio grazie ai Greci che gli Etruschi lo scoprono. Anche loro avevano un dio da venerare, Fufluns, e, come i Greci, erano soliti consumare questa bevanda nei simposi (termine la cui etimologia significa “bere insieme”), con la differenza interessante che anche le donne erano le benvenute.

Durante il lunghissimo arco spazio-temporale dell’impero romano tali conoscenze millenarie sono state ereditate da questo popolo, che codifica e implementa le regole della viticoltura con Columella e Plinio il Vecchio. I Romani gettano le basi dell’enologia, che nei fondamenti sono quelle di oggi, incluse alcune prime denominazioni di origine. Dioniso diventa Bacco e i baccanali, all’inizio appannaggio solo delle donne (le baccanti), si allargano poi agli uomini, diventando delle cerimonie orgiastiche in seguito messe al bando con un editto imperiale.

Con i Romani nasce anche il convivium, dove non solo erano ammessi uomini e donne insieme, ma dove il vino, anziché essere il mezzo per godere di musica e poesia, diventa il vero motivo degli incontri. La città di Roma cresce a dismisura: nel giro di poco, nel I secolo a.C., conta circa un milione di abitanti e il consumo di vino aumenta tra quasi tutte le fasce della popolazione, potremmo dire in modo abbastanza democratico.

I vini di Caserta e Pompei sono conosciuti ovunque come i grand cru del tempo e i Romani li esportano dappertutto. Nel frattempo, già a partire dalla metà del I secolo a.C. il territorio della penisola italiana si era coperto di vigneti e il vino era diventato un alimento di consumo quotidiano, abbandonando così il suo ruolo di status symbol esclusivo dell’élite.

Ma ancora più impressionante fu l’esportazione, e dunque la diffusione, della viticoltura in ogni angolo del Mediterraneo e oltre, nelle regioni continentali atlantiche fino a raggiungere (anche se per poco tempo) la Scozia.

Tanto grande fu la colonizzazione della vite che le tradizionali zone vitivinicole più famose d’Europa, come Borgogna e Bordeaux, devono la loro origine ai Romani.

Questo vertiginoso sviluppo vitivinicolo stimolò l’individuazione delle zone di maggior vocazione e la conseguente stesura dei primi testi di viticoltura.

Di certo il vino bevuto dai Romani doveva essere assai diverso da quello che conosciamo oggi, e chissà se la miscelazione che facevano con acqua, spezie, fiori, zucchero e miele non servisse a mascherare qualche odore non particolarmente raffinato. Ma ai Romani si deve riconoscere la capacità di conservare e invecchiare il vino anche per molti anni, una tecnica – secondo quanto testimonia Plinio il Vecchio – che veniva praticata per i vini più importanti, conservati nelle botti ma anche in anfore di vetro sigillate con la pece o con il sughero. Sembra inoltre che avessero già scoperto i benefici dello zolfo come antisettico e antiossidante. Tuttavia, il grande sviluppo delle modalità di conservazione fu destinato a tramontare con la caduta dell’impero.

La discesa dei Barbari segnò l’inizio di un periodo di crisi del vino, che lasciò spazio alle birre e all’idromele. Va detto, tuttavia, che in alcune regioni – come Borgogna e Germania – la vite non solo fu conservata ma se ne incrementò la produzione.