2. VIAGGIO STORICO-ANTROPOLOGICO NEL MONDO DEL VINO Autore GLI ANTENATI DEL VINO La nascita del vino viene fatta risalire a circa ottomila anni fa nel Nord della Mesopotamia. In realtà, se ci pensiamo bene, il vino nasce molto prima. Ecco perché: attorno al grappolo dell’uva ci sono molti microrganismi (lieviti) affamati che non aspettano altro che l’uva giunga a maturazione e la buccia si rompa per mangiarne lo zucchero. Il risultato del loro pasto si chiama vino. Va anche detto che qualunque frutto lasciato per un po’ in un recipiente chiuso produce una sorta di vino. Ciò che l’uomo allora deve aver scoperto abbastanza velocemente, e felicemente, è che nell’uva non solo la fermentazione parte spontanea ma che il risultato è migliore rispetto agli altri frutti. Ed è altrettanto intuitivo ipotizzare che questa scoperta sia avvenuta ben prima del Neolitico. La (la specie di cui oggi abbiamo quasi diecimila varietà) sembra infatti avere oltre trentamila anni: dunque nel Neolitico in Mesopotamia, laddove oggi esistono Georgia e Armenia, non compare il vino per la prima volta, ma la prima vite coltivata dall’uomo. L’ipotesi è confermata da alcuni ritrovamenti fossili datati con il carbonio-14 e suffragata da molti reperti archeologici come le tavolette di Ur e Lagash, le città sumere risalenti al IV-III millennio a.C. che testimoniano come l’attività viticola in queste aree fosse da molto tempo parte integrante della vita di allora. Vitis vinifera Nel corso dei millenni, soprattutto a nord di quelle pianure, nei territori circondati dagli imperi dei Sumeri, degli Accadi, degli Assiri, dei Babilonesi e degli Ittiti, sono state lasciate numerose testimonianze che ci dicono come con la caduta dei Sumeri, avvenuta nel II millennio a.C., e la conseguente ascesa dell’impero assiro, il potere politico si sia spostato a nord-ovest, verso Babilonia. Con esso si spostò anche la vite, che iniziò a essere coltivata a latitudini ottimali rispetto a quelle di Lagash e Ur situate al 31° parallelo nord, oltre il confine ideale per questa pianta. Fin dal principio vite e vino hanno trovato un posto d’onore nelle culture del tempo. Dal Codice di Hammurabi (1792-1750 a.C.) scopriamo che a Babilonia, per quanto la birra fosse diffusa, il vino ricopriva già il ruolo di bevanda sacra e dell’ . élite Nel I millennio a.C. gli Assiri si spostarono ancora più a nord nelle città di Ninive, Ashur e Calah. In alcuni bassorilievi di Ninive si trovano raffigurati il re e la sua consorte seduti sotto un pergolato mentre bevono quasi certamente del vino. Erodoto, nel V secolo a.C., descrive il traffico commerciale di vari prodotti del Nord babilonese e tra questi cita il vino, definendolo come uno dei migliori frutti di Demetra, la dea greca delle messi. Con i Greci e i Fenici il vino arriva in Italia, per l’appunto chiamata Enotria, la terra del vino. È proprio grazie ai Greci che gli Etruschi lo scoprono. Anche loro avevano un dio da venerare, Fufluns, e, come i Greci, erano soliti consumare questa bevanda nei simposi (termine la cui etimologia significa “bere insieme”), con la differenza interessante che anche le donne erano le benvenute. Durante il lunghissimo arco spazio-temporale dell’impero romano tali conoscenze millenarie sono state ereditate da questo popolo, che codifica e implementa le regole della viticoltura con Columella e Plinio il Vecchio. I Romani gettano le basi dell’enologia, che nei fondamenti sono quelle di oggi, incluse alcune prime denominazioni di origine. Dioniso diventa Bacco e i baccanali, all’inizio appannaggio solo delle donne (le baccanti), si allargano poi agli uomini, diventando delle cerimonie orgiastiche in seguito messe al bando con un editto imperiale. Con i Romani nasce anche il , dove non solo erano ammessi uomini e donne insieme, ma dove il vino, anziché essere il mezzo per godere di musica e poesia, diventa il vero motivo degli incontri. La città di Roma cresce a dismisura: nel giro di poco, nel I secolo a.C., conta circa un milione di abitanti e il consumo di vino aumenta tra quasi tutte le fasce della popolazione, potremmo dire in modo abbastanza democratico. convivium I vini di Caserta e Pompei sono conosciuti ovunque come i del tempo e i Romani li esportano dappertutto. Nel frattempo, già a partire dalla metà del I secolo a.C. il territorio della penisola italiana si era coperto di vigneti e il vino era diventato un alimento di consumo quotidiano, abbandonando così il suo ruolo di esclusivo dell’ . grand cru status symbol élite Ma ancora più impressionante fu l’esportazione, e dunque la diffusione, della viticoltura in ogni angolo del Mediterraneo e oltre, nelle regioni continentali atlantiche fino a raggiungere (anche se per poco tempo) la Scozia. Tanto grande fu la colonizzazione della vite che le tradizionali zone vitivinicole più famose d’Europa, come Borgogna e Bordeaux, devono la loro origine ai Romani. Questo vertiginoso sviluppo vitivinicolo stimolò l’individuazione delle zone di maggior vocazione e la conseguente stesura dei primi testi di viticoltura. Di certo il vino bevuto dai Romani doveva essere assai diverso da quello che conosciamo oggi, e chissà se la miscelazione che facevano con acqua, spezie, fiori, zucchero e miele non servisse a mascherare qualche odore non particolarmente raffinato. Ma ai Romani si deve riconoscere la capacità di conservare e invecchiare il vino anche per molti anni, una tecnica – secondo quanto testimonia Plinio il Vecchio – che veniva praticata per i vini più importanti, conservati nelle botti ma anche in anfore di vetro sigillate con la pece o con il sughero. Sembra inoltre che avessero già scoperto i benefici dello zolfo come antisettico e antiossidante. Tuttavia, il grande sviluppo delle modalità di conservazione fu destinato a tramontare con la caduta dell’impero. La discesa dei Barbari segnò l’inizio di un periodo di crisi del vino, che lasciò spazio alle birre e all’idromele. Va detto, tuttavia, che in alcune regioni – come Borgogna e Germania – la vite non solo fu conservata ma se ne incrementò la produzione. IL MEDIOEVO E I MONACI SOMMELIER Durante il Medioevo la tradizione vitivinicola fu tramandata dai monasteri. Erano gli stessi frati a produrre il vino, utilizzato nei rituali liturgici o venduto nei mercati. Gelosi custodi di beni preziosi frequentemente saccheggiati, portarono la vite in ogni luogo ove vi fosse un monastero, conservando, e spesso nascondendo, il vino nel buio e nel fresco delle cantine. Nelle abbazie avvenne una piccola rivoluzione silenziosa: si cominciò a utilizzare la pressa in fase di vinificazione, innalzando enormemente la qualità del vino. In questo modo, infatti, il vino che derivava dalla prima pressa (mosto fiore) era più pulito, complesso ed elegante. Forse è anche per questo che in quegli anni prende piede l’abitudine di berlo puro e non più mescolato ad acqua e spezie. I monaci furono i guardiani della vitivinicoltura e la traghettarono verso gli anni delle importanti scoperte scientifiche del Settecento. Già agli inizi del Trecento tuttavia risalgono non solo manuali di enologia (già comparsi con Plinio il Vecchio oltre mille anni prima) ma anche testi sulla degustazione a opera di alcuni frati sommelier, e verso la fine del Medioevo fecero la loro comparsa documenti ufficiali in cui si parlava di anidride solforosa da usare in vinificazione. Non dobbiamo scordarci, inoltre, che con i monaci cistercensi nasce il concetto di : un singolo vigneto che anno dopo anno conferisce al vino un carattere peculiare. Questi vigneti spesso venivano non solo segnati nelle mappe ma anche delimitati da cinte murarie chiamate . cru clos In altre parole, per chi dice che il Medioevo fu un momento terribile per il vino, va precisato che questo è forse vero per l’Italia, devastata dalle invasioni barbariche, ma che la Francia e la Germania videro l’inizio di un approccio al vino che cambierà la storia per sempre. E mentre in Borgogna si studiavano i microclimi di ciascuna vigna, a Bordeaux – dove non c’erano le grandi abbazie – il vino veniva prodotto in considerevoli quantità per farlo arrivare nei mercati inglesi cui Bordeaux apparteneva. Da qui nasce un modello produttivo del tutto diverso, basato sulla produzione di maggior vino possibile non più da vigneti singoli ma dall’assemblaggio di vigne differenti. Il vino veniva caricato sulle navi in botti di legno da una tonnellata ( ) che spesso si riduceva a 225 litri ( ) per facilitarne il trasporto su strada. tonneau barrique LE DUE PRINCIPALI FILOSOFIE PRODUTTIVE È in questo periodo che si gettano le basi delle due principali filosofie produttive ancora oggi esistenti: quella che segue il , in cui si imbottiglia il vino proveniente da uve di un singolo vigneto, come avviene in Borgogna, e quella degli , che imbottigliano sotto il nome dello Château la selezione delle migliori uve di vigneti diversi per creare il vino più pregiato. In questo ultimo caso, sono i Premier Cru Classé di Bordeaux, a base prevalente di Cabernet Sauvignon o Merlot, l’esempio emulato dai più. Il primo modello, come già detto, predilige invece l’imbottigliamento del singolo vigneto per esaltare le diversità incredibili di vigneti anche adiacenti tra loro. Il caso più famoso in Borgogna, e aggiungerei nel mondo, è quello di Domaine de la Romanée-Conti con sei differenti Grand Cru tutti a base di solo Pinot Nero. principio dei cru Châteaux bordolesi Nella società feudale la vite riacquistò il suo ruolo preminente in agricoltura e il vino tornò a essere uno attorno al quale si crearono fitti rapporti commerciali. status symbol Siamo arrivati al 1348, anno della peste nera che decimò l’Europa e che, secondo alcuni storici, sancì la fine del Medioevo. IL VINO NELL’ETÀ MODERNA Ancora un passo e siamo nel secolo successivo. Nel 1434 Brunelleschi termina la cupola del duomo di Firenze, considerato il monumento simbolo del Rinascimento, nel 1455 abbiamo il primo libro stampato, la Bibbia di Gutenberg. Di lì a poco Cristoforo Colombo sarebbe arrivato in America (1492) e Magellano, scavallando un altro secolo, avrebbe circumnavigato la Terra (tra il 1519 e il 1522). Il vino, dopo la grande espansione romana, sta per conoscere un nuovo periodo di colonizzazione: spagnoli, portoghesi, inglesi e olandesi pianteranno tralci di vite ovunque e metteranno piede oltreoceano, dal Nord al Sud America, dall’Africa all’Australia. Durante questi lunghi viaggi però il vino si ossidava e si trasformava molto facilmente in aceto. E laddove c’è un ostacolo per l’uomo state pur certi che è lì che si acuisce l’ingegno e nascono le innovazioni. Sembra che a trovare una soluzione all’acetificazione e all’ossidazione del vino furono gli olandesi e gli inglesi con l’utilizzo di zolfo e brandy. Non è un caso che proprio in questi anni nascano vini come il Porto, lo Sherry o il Marsala, prodotti aggiungendo del brandy a metà della fermentazione per uccidere i lieviti, aumentare la gradazione alcolica e trattenere parte dello zucchero residuo della fermentazione non svolta. I LIEVITI E LO ZUCCHERO I lieviti svolgono il loro lavoro di trasformazione dello zucchero in alcol e anidride carbonica finché non viene raggiunta una gradazione del 16-17%; oltre questo limite muoiono. Anche la temperatura gioca un ruolo fondamentale poiché fino a 12 °C i lieviti non cominciano a lavorare e oltre i 40 °C “fanno festa”. Nonostante queste invenzioni, i mercanti dovevano vendere il vino non fortificato, che purtroppo continuava a trasformarsi troppo velocemente in aceto a causa dell’eccesso di ossigeno che alimenta i batteri acetici nelle botti. Il vetro, che fino ad allora era stato usato per travasare il vino dalle botti alla tavola, aveva già fatto il suo ingresso con i Fenici e più tardi con il fiasco toscano di cui già Michelangelo e i Medici parlano. Ma la prima vera bottiglia di vino fu realizzata in Inghilterra verso il 1630 da Sir Digby che, grazie all’invenzione di un suo predecessore (quella di soffiare il vetro con il fuoco del carbone a temperature più alte), riuscì a rendere questi preziosi contenitori maggiormente resistenti. L’altra piccola grande scoperta, anzi riscoperta, fu quella dell’utilizzo del tappo di sughero – che era già in uso presso i Romani – per sigillare in maniera corretta le nuove bottiglie di vino. Cominciamo a entrare in un contesto in cui il consumo di vino è abbastanza simile a quello di oggi. Ma la sete degli inglesi li spinse verso un’altra piccola, straordinaria rivoluzione: quella del vino spumante. Ebbene sì, nonostante questa tipologia fosse già apparsa sulle tavole di Greci e Romani, furono gli inglesi a dare l’impulso fondamentale per la produzione di Champagne. Infatti L’Inghilterra importava dalla regione dello Champagne molto vino bianco fermo che, rifermentando nel viaggio verso Londra, arrivava leggermente frizzante. Le bollicine dovettero cominciare a piacere e si iniziò a sperimentare il metodo champenoise di rifermentazione in bottiglia (di vetro inglese!): aggiungendo zucchero e melassa si faceva ripartire la fermentazione, sviluppando, oltre a un po’ di alcol, l’anidride carbonica che solubilizzava nelle bottiglie. Nel 1668, quando venne assunto all’abbazia di Hautvillers, Dom Pérignon seguì la vigna e la cantina con un’attenzione e una sensibilità particolari, al punto che il suo nome e la fama dei suoi vini si diffusero rapidamente. DOM PÉRIGNON E LO CHAMPAGNE Per anni Dom Pérignon è ossessionato dal riuscire a fare vino bianco fermo da uve rosse, in particolare il Pinot Nero. Lo Chardonnay infatti non era il suo preferito perché tendeva a rifermentare troppo facilmente e non dava un vino intenso come piaceva a lui. Ma perché il vino rifermentava, vi chiederete? Il freddo dell’autunno nella Champagne, una delle regioni vitivinicole più a nord, in Europa, bloccava i lieviti che non morivano ma andavano, diciamo, in letargo. Con il caldo della primavera o durante il viaggio delle bottiglie verso Londra la fermentazione ripartiva facendo saltare i tappi o scoppiare le bottiglie. Ecco allora che questo frate straordinario mette a punto la formula dello Champagne e prima di morire lascia regole per la produzione che includono anche la , cioè l’assemblaggio di uve di vitigni e vigne diverse per ottenere un vino perfetto. cuvée Verso la metà del Settecento si iniziano a utilizzare bottiglie che, per forma, possono essere disposte in orizzontale permettendo l’imbibizione del sughero e quindi una migliore conservazione del prodotto. Il vino comincia a invecchiare seriamente, poiché in un ambiente con scarso ossigeno come la bottiglia il suo processo di maturazione e quindi anche quello di acetificazione rallentano. L’ossigeno è il primo elemento necessario per fissare colori e aromi nel vino, ma anche quello che rischia di ucciderlo prima del tempo. Fino ad allora, però, non si parlava di ossigeno, ma solo di aria, acqua, terra e fuoco. Si pensava che combustioni e fermentazioni fossero a carico di uno spiritello magico, il . È con gli studi del chimico Lavoisier che finisce l’età dell’innocenza e della superstizione. Fu lui a riconoscere il ruolo di ossigeno e idrogeno e a ideare la prima carta degli elementi. flogisto All’inizio dell’Ottocento un altro chimico, Monsieur Chaptal, rivoluzionò l’enologia osservando la formula della fermentazione alcolica in base alla quale per ogni grammo di zucchero aggiunto nel vino si ottengono metà molecole di alcol e circa metà di anidride carbonica (per inciso, aggiungere zucchero al vino, zuccheraggio, o chaptalizzazione, è oggi vietato in tutta l’Europa del Sud ma concesso nei paesi del Nord, inclusa la Francia). Del resto, fu solo dalla metà dell’Ottocento che lo Champagne e lo spumante come li conosciamo oggi cominciarono a essere prodotti, grazie alle scoperte di Chaptal e alla produzione di bottiglie di vetro inglese capaci di resistere alla pressione di cinque atmosfere – uguali a quelle della ruota di un autobus a due piani – presenti nei vini spumanti. Intanto il vino, lo Champagne in particolare, stava diventando la bevanda ufficiale delle notti movimentate del tempo, mentre in agricoltura si cominciavano a vedere i primi esempi di tutela dei , apparsi già nel secolo precedente con Cosimo de’ Medici in Toscana, nel 1716, o con lo Champagne nel 1735. Nello stesso periodo, sebbene non ufficialmente, anche Bordeaux aveva ideato un sistema di classificazione piramidale che indicava le quattro cantine (diventate poi cinque nel 1973, con l’innalzamento di Mouton Rothschild dalla seconda alla prima posizione) indiscutibilmente migliori di tutta la regione. marchi a denominazione di origine La piramide è strutturata in cinque livelli basati sui prezzi più alti ottenuti dalle cantine nelle ultime decine di anni: al vertice 5 Premier Crus, seguiti al secondo livello da 14 Deuxième Crus, poi 14 Troisièmes Crus, 10 Quatrièmes Crus e infine, alla base della piramide, 18 Cinquièmes Crus. Questa classificazione non cambia mai. Anno dopo anno, i primi sono sempre primi e le cantine alla base della piramide rimangono sempre in fondo. Il vino torna al centro della vita dell’uomo. Ma se un tempo il luogo più famoso per l’enologia era stata la Campania, nell’Ottocento è la Francia di a vivere l’età d’oro. Durante l’Expo del 1855, per mostrare al mondo la del suo paese, Napoleone III ufficializza la AOC (Appellation d’origine contrôlée) dei vini di Médoc a base di Cabernet Sauvignon. Bordeaux grandeur Questa denominazione merita un attimo di attenzione, perché sancisce l’inizio dell’enologia come la conosciamo oggi. Siamo in anni difficili per la vite. Oidio e peronospora decimano le vigne, ma proprio la battaglia a questi temibili funghi segna l’avvento di un’enologia più presente che mai con l’invenzione della cosiddetta a base di zolfo e rame. Nonostante le difficoltà in vigna, Bordeaux cresce. Molti banchieri parigini investono il loro denaro e cominciano a costruire Châteaux bellissimi e arriva anche la nuova ferrovia. poltiglia bordolese Sono anni di grande fibrillazione. La classificazione piramidale dei vini bordolesi – la Premier Cru Classé 1855 –, molto facile da capire per chiunque, ne facilita la divulgazione in tutto il mondo. RIVA DESTRA E RIVA SINISTRA Assolutamente da sapere è che i vini della suddetta classificazione provengono dalla ( ) dei fiumi Garonna e Dordogna e sono a base di uno dei più potenti, colorati e strutturati vitigni: il Sig. . In molti casi i vini vengono assemblati con il profumato Cabernet Franc e/o il più morbido e rotondo Merlot e ogni tanto compare il Malbec per dare qualche profumo in più. A ( ) dei fiumi ci sono Châteaux che producono vini straordinari e che sono lo specchio della riva sinistra e cioè a base di , con eventualmente percentuali più piccole di Cabernet Franc e/o Cabernet Sauvignon nel blend finale. Questi ultimi non partecipano alla classificazione se non qualche anno più avanti, nelle successive edizioni dell’Expo. Petrus, Cheval Blanc e altre etichette prestigiose delle aree geografiche di Pomerol e Saint-Émilion pur non rientrando in questa classificazione nel giro di poco diventeranno altrettanto famosi. riva sinistra rive gauche Cabernet Sauvignon destra rive droite Merlot Quindi, quando si parla di si intendono vini a base di Cabernet e Merlot, vini diventati così famosi che chiunque volesse ricreare un Cabernet o un Merlot – all’epoca come oggi – si ispirava a questi. vini di taglio bordolese Ma tornando alla storia, in California si guarda da vicino il successo dei vini bordolesi quando però l’età dell’oro a Bordeaux si attenua leggermente con l’arrivo di un nemico imbattibile per la vigna: la . Nella seconda metà del secolo le viti europee vengono colpite da una gravissima epidemia di questo insetto importato dal Nord America. L’arrivo dell’oidio fu probabilmente dovuto all’invenzione delle navi a vapore che, più veloci di sempre, accorciarono i tempi di percorrenza della tratta NYC-Bordeaux consentendo la loro sopravvivenza fino allo sbarco. Per risolvere il problema dell’oidio si cominciarono a importare viti dagli USA che probabilmente portarono con sé la fillossera. Phylloxera vastatrix XIX La malattia fu debellata utilizzando un piede (portainnesto) resistente alla fillossera e costituito da radici di vite americana, , su cui innestare le viti europee. Ma buona parte dei vigneti europei era andata ormai distrutta e soltanto le aree a maggior vocazione furono ricostituite. La consistenza del patrimonio viticolo europeo si ridusse drasticamente e soltanto ai giorni nostri sta ritrovando l’estensione che aveva circa un secolo fa. Vitis riparia Ma come si dice spesso, non tutti i mali vengono per nuocere: la fillossera dette il via a nuove avventure enologiche, come per esempio il Barolo e il Brunello. Il primo con Cavour impegnato personalmente per far diventare il Nebbiolo un vino importante, e il secondo con Biondi Santi che alla fine dell’Ottocento, dovendo estirpare le vigne di Moscadello attaccate dalla fillossera, decise di piantare Sangiovese e di invecchiarlo per lunghi anni proprio come i grandi Barolo. LE SFIDE DEI VINI MISTERIOSI E IL VINO DEL NUOVO MONDO Il secolo vede alcune rivoluzioni particolarmente importanti per il carattere del vino di oggi. La prima avviene negli anni cinquanta-sessanta, quando nel Nuovo Mondo fu introdotta la vinificazione a temperatura controllata. Le università americane e australiane cominciano poi a guardare al vino con occhi più tecnici e scientifici. Australiani, neozelandesi, americani e sudafricani compaiono nei mercati europei verso la metà dell’Ottocento. Gli spagnoli, con Cortés, portarono le prime talee di vite in Sud America già a partire dal 1520, ma l’industria vitivinicola non prese avvio per altri tre secoli, fino alla secessione delle colonie dall’impero spagnolo (1820-1830). In Sud Africa le prime piantagioni risalgono al tempo delle colonie olandesi della metà del Seicento. Questo paese tuttavia non ha potuto esprimere il suo grande potenziale vitivinicolo fino a tempi recentissimi. Va sottolineato, infatti, che negli anni ottanta del Novecento, momento per gli altri paesi del Nuovo Mondo di evoluzione cruciale per la viticoltura, il Sud Africa viveva ancora nell’isolamento dell’apartheid. Negli Stati Uniti sebbene la vigna venga piantata con le prime colonizzazioni, il vino non è prodotto commercialmente fino alla prima metà dell’Ottocento. In Australia la vite compare alla fine del Settecento ma la viticoltura commerciale diventa una realtà soltanto dopo il 1820, epoca in cui la vite viene esportata anche in Nuova Zelanda. In questo paese non era permesso vendere vino nei ristoranti fino al 1960 e nei supermercati fino al 1990. XX La Gran Bretagna ha giocato un ruolo fondamentale nel dare l’avvio all’importazione dei vini dalle sue colonie verso l’Europa. Questi vini hanno raggiunto un successo sempre maggiore grazie a tecniche di vinificazione che li rendono particolarmente morbidi, fruttati e invitanti, e grazie a puntuali azioni di marketing. La caratteristica che più contraddistingue il successo internazionale dei vini del Nuovo Mondo, rispetto a quelli europei, è la loro immediata bevibilità dalla immissione sul mercato. In altre parole, non si devono aspettare anni prima che il vino sia pronto da bere. I VINI VARIETALI I vini del Nuovo Mondo cominciarono a conquistare il mercato a una velocità tale che anche il settore vitivinicolo europeo ne subì il fascino cominciando a produrre vini facili da bere e connotati dal vitigno: i vini varietali. Ciò che più accomuna le regioni vinicole del Nuovo Mondo è una terra in molti casi poco costosa e meno affollata di quella europea, la mancanza di legami con antiche tradizioni colturali, l’assenza di una legislazione troppo restrittiva e l’impiego di vitigni cosiddetti internazionali (i vitigni classici francesi). Tutto ciò ha permesso a questi paesi di avere più flessibilità nella sperimentazione di soluzioni innovative e vincenti, soprattutto perché si è cominciato a produrre vini “enologici”, cioè ottenuti prevalentemente da metodi di vinificazione mirati a costruire i vini che il mercato richiede di più. La data che però ha scatenato il successo del Nuovo Mondo è il 1976, anno in cui Steven Spurrier, un gentiluomo inglese all’epoca commerciante di vino a Parigi e oggi uno dei giornalisti e dei palati più esperti al mondo, organizzò una degustazione bendata per confrontare i Premier Cru Classé di Bordeaux e i più grandi Chardonnay di Borgogna, cioè i vini più famosi e costosi del mondo, con i Cabernet Sauvignon e gli Chardonnay californiani. Ebbene, indovinate chi vinse? Un di degustatori professionisti francesi e americani assegnò ai vini del Nuovo Mondo punteggi assai superiori. La degustazione fu ripetuta, perché qualcuno non si fidò dei risultati, e gli americani vinsero ancora. Riproposta a distanza di trent’anni, sia con le vecchie annate sia con quelle in commercio, la degustazione fu vinta di nuovo dagli USA. Adesso il Nuovo Mondo è ufficialmente in tutte le mappe del vino. panel Perché un successo così strepitoso di critici e consumatori? Qual è il segreto di questi vini? La risposta veloce è dolcezza e rotondità. Quella più articolata possiamo trovarla nelle dinamiche della famosa sfida di Pepsi alla Coca-Cola. La Pepsi nel 1975, per l’appunto un anno prima della degustazione di Parigi, fece una campagna di degustazioni bendate (chiamata Pepsi Challenge) tra Pepsi e Coca-Cola e la maggior parte degli intervistati preferì Pepsi. Quando Coca-Cola cominciò a perdere quote di mercato, per recuperarle decise di cambiare la formula originaria aggiungendo dello zucchero. Nel giro di poco perse ancora più quote perché non si rese conto che gli intervistati preferivano Pepsi più dolce in assaggio, ma che poi la gente beveva Coca-Cola una lattina dietro l’altra mangiando qualcosa sul divano, e il troppo dolce non funzionò. La ricetta fu cambiata di nuovo e le quote furono riconquistate. Gli stessi critici di vino della degustazione di Parigi trent’anni dopo hanno ammesso che i vini americani, poiché tendono a essere più morbidi, rotondi e dolci, hanno la possibilità di ottenere punteggi più alti in fase di degustazione perché più facili da assaggiare, ma che non necessariamente sono i vini migliori. Questo punto è uno dei parametri di riferimento per la scelta che ho fatto nell’allocazione dei vini ad archetipi diversi. Cioè, in breve, ci sono palati che preferiscono vini morbidi, rotondi, voluminosi e poco complicati, altri che scelgono vini più articolati, spigolosi, strutturati ma anche un po’ austeri. Ma riprendiamo il nostro viaggio con un’ultima storia che racconta una delle rivoluzioni del secolo. XX I SUPER TUSCANS Un anno dopo Parigi, nel 1977, a Londra ci fu un’importante degustazione bendata. Questa volta si volevano eleggere i migliori Cabernet Sauvignon del mondo. Quando si scoprirono le carte, quello con il punteggio maggiore fu un vino da tavola italiano nato da pochi anni nella Tenuta San Guido di Bolgheri: il Sassicaia. Aspettate un momento: un vino che non apparteneva a nessuna denominazione importante, anzi un vino da tavola, che vince contro i più famosi vini del mondo? Questa vittoria di Davide contro Golia spinse la stampa a coniare il termine “Super Tuscans” per descrivere quei vini prodotti prevalentemente con vitigni internazionali che non seguono le regole di una Doc e vinificati per la maggior parte in barrique nuove francesi e immessi nel mercato a un prezzo premium. Il successo del Sassicaia, padre dei Super Tuscans, dette l’avvio a nuovi investimenti e atteggiamenti da parte dei produttori intenzionati a seguire l’esempio virtuoso per conquistare i mercati internazionali. Il Tignanello è un esempio lampante. Il Marchese Antinori capì che il mondo dei grandi vini conosceva bene il Cabernet Sauvignon e meno il Sangiovese che era, ed è, la base del Chianti e del Chianti Classico. Allora decise di intervenire su uno dei suoi Chianti Classico. Cominciò inserendo il nome del vigneto sull’etichetta – Tignanello –, poi sostituì le botti grandi di rovere di Slavonia con le piccole barrique francesi, che già da sole conferivano più colore e qualche spezia di rovere simile ai Bordeaux, infine sostituì le uve bianche di Malvasia e Trebbiano con un 15% di Cabernet Sauvignon e un 5% di Cabernet Franc. L’ dei Super Tuscans era nato, ma poiché violava le leggi della Docg (che richiedeva un minimo di 75% di Sangiovese e il rimanente Cannaiolo, Trebbiano e Malvasia e nessun vitigno estero) perse il suo marchio di Chianti Classico e divenne vino da tavola. Chiunque avrebbe ritenuto un disastro la perdita di come Docg e invece il successo fu enorme. Quasi tutte le cantine cominciarono a seguire l’esempio del Tignanello ma qualcuno, come Sergio Manetti di Montevertine, decise di mostrare al mondo come si potesse fare un grande Sangiovese al 100% seguendo le orme della tradizione italiana con le botti grandi e il rovere di Slavonia: nacque il Pergole Torte. Ma il 100% di Sangiovese era vietato, così, quando nel 1981 Manetti non usò più uve a bacca bianca, anche il suo divenne un vino da tavola. Oggi potremmo inserire il Pergole Torte tra quelli che io chiamo Old-School Super Tuscans. enfant terrible status In quegli anni nacquero altri Super Tuscans – il Cepparello, il Flaccianello o il Vigorello – destinati a fare la storia. Ma volete sapere qual è, in tutto questo, il paradosso? Che oggi le regole del Chianti Classico sono cambiate, permettendo sia l’utilizzo di uve internazionali fino al 20%, come nel Tignanello, sia l’imbottigliamento di un Chianti Classico con il 100% di Sangiovese, come nel Pergole Torte. Oggi entrambi i vini potrebbero infatti essere imbottigliati come Chianti Classico. ROBERT PARKER E I 100 PUNTI Altra tappa importante è l’avvento del più famoso e potente critico di vino del mondo. Un avvocato del Maryland, che recensiva annualmente i vini di Bordeaux in una newsletter, saltò alla ribalta quando affermò, contro il parere dei più, che il 1982 sarebbe stata l’annata del secolo a Bordeaux. Ebbene, qualche anno dopo tutti dettero ragione all’avvocato Robert Parker, il quale tra le altre cose valutava i vini con una scala in centesimi. Insomma, niente più commenti e spiegazioni in un linguaggio difficile da comprendere, ma un semplice numero: chiunque in un attimo poteva vedere qual era il vino migliore. Ma quali vini venivano premiati con i 100 punti o quantomeno con più di 94? Esattamente i vini potenti, estrattivi e rotondi, come quelli che vinsero a Parigi. Quello diventa lo stile da inseguire. I produttori di tutto il mondo cominciano a fare vini con del Cabernet Sauvignon nell’assemblaggio e possibilmente con il carattere concentrato e intenso nel cosiddetto “stile di Parker”, proprio come i produttori di Super Tuscans avevano intuito prima degli altri. Il Nuovo Mondo intanto sta cominciando a erodere quote di mercato ai due più grandi produttori di vino – Italia e Francia – che da soli producono il 50% del vino nel mondo. Nel 2000 l’Australia dichiara i propri obiettivi di marketing per il 2025 ma con enorme sorpresa nel 2005 li ha già raggiunti. Nel giro di breve nel mercato UK supera in vendite anche l’Italia. È l’apice del successo dei vini commerciali: estrattivi, opulenti, marmellatosi ma facilissimi da leggere in etichetta e da bere. Il mondo del vino nei primi anni del secolo comincia a diventare spaventosamente omologato, con vini fatti nelle Langhe, in Toscana, in Sicilia o in Spagna che assomigliano ai bordolesi, che a loro volta assomigliano sempre di più ai cileni e ai californiani. Il rovere francese e il rovere americano imperversano e i vinoni morbidi, rotondi e procaci spopolano. XXI Ben presto però l’ondata dei vini concentrati comincia ad annoiare molti palati e parte una . controrivoluzione Il mercato più evoluto e la critica stessa si stancano di questi mostri potenti e si ridà credito ai vini della Vecchia Scuola, che non hanno mai seguito la formula della cosiddetta parkerizzazione (ovviamente non diamo un giudizio contro Parker, anzi, il successo legittimo di questo critico lo si deve ai milioni di persone, tra consumatori e produttori, in accordo con i suoi giudizi). Qualche giovane produttore di nuova generazione comincia a seguire le orme dei vecchi maestri e, anzi, a incrementare il processo di autenticità del vino liberandosi prima dalle barrique francesi, poi coltivando la vite senza pesticidi e senza lieviti selezionati per approdare a un’agricoltura biologica, se non biodinamica certificata o addirittura “rivoluzionaria” contro le certificazioni, con la dicitura non ufficiale di vino naturale. Questa tendenza è ancora in atto e oggi sentiamo parlare di anfore di terracotta, ceramica e cemento per sostituire il legno e l’acciaio e vinificare come si faceva ottomila anni fa. E mentre assistiamo alla nascita di nuove correnti stilistiche, al ridimensionamento della nuova scuola e al successo ritrovato di quella tradizionale, è evidente come oggi ci sia una consapevolezza come mai prima. I produttori assaggiano i vini di tutto il mondo, le nuove generazioni sono quasi tutte formate come enologi professionisti, il vino e chi lo produce non hanno mai viaggiato così tanto per arrivare su qualunque tavola del pianeta. Questo interscambio non può che continuare a mutare le regole del gioco. Quello che non cambia mai è che il vino lo bevete voi con il vostro palato, il quale, per quanto possa cambiare ed evolvere, non sarà mai quello del critico o del sommelier. SIMBOLOGIA E ANTROPOLOGIA DEL VINO Da millenni dunque il vino è parte integrante della civiltà. O meglio, dovremmo dire che la civiltà nasce proprio con la vite e il vino. L’agricoltura, infatti, con la coltivazione di piante che come la vite o l’olivo impiegano almeno tre anni prima di dare frutti, ha interrotto il nomadismo e favorito la nascita dei primi insediamenti. L’uomo ha da subito attribuito al vino proprietà taumaturgiche, magiche o addirittura divine. I nostri progenitori devono essersi accorti abbastanza velocemente che era una bevanda sicura da bere, poiché – oggi lo sappiamo – l’etanolo e il suo pH particolarmente basso impediscono il propagarsi di batteri nocivi. Questa scoperta risultò evidente qualche millennio dopo, quando nel viaggio verso l’Australia i galeotti britannici che dimostrarono di avere maggiori possibilità di sopravvivenza furono proprio quelli che bevevano vino. Una rivelazione così folgorante che i medici australiani di allora piantavano regolarmente la vite, poiché il vino veniva considerato anche una vera e propria cura. È interessante notare come oggi una buona parte dei produttori australiani abbia un medico nel proprio albero genealogico. L’idea che il vino avesse proprietà medicinali viene consacrata nei primi anni novanta del Novecento da una ricerca dell’università di Bordeaux poi definita “il paradosso francese”. Secondo questi studi gli inglesi e i francesi seguirebbero entrambi una dieta abbastanza ricca di grassi, gli uni per via delle loro appetitose colazioni con uovo e pancetta, gli altri per via dei loro straordinari formaggi. I francesi, però, grazie a quel bicchiere di vino al giorno, vedono ridursi del 50% il rischio di malattie cardiovascolari. Sebbene l’attendibilità di quella ricerca sia stata messa parzialmente in discussione, rimane accettato che un consumo moderato di vino giovi alla salute: l’etanolo, infatti, oltre a disinfettare e a uccidere microrganismi nocivi per l’uomo, libera nutrienti come vitamine del gruppo B, acido folico e altre sostanze antiossidanti. Ovviamente è ben noto che l’etanolo è anche velenoso per il nostro organismo e dunque è necessario consumare il vino con moderazione. Ma il vino fu anche il primo enzima per la cultura umana, dando l’energia giusta per lo sviluppo del linguaggio, dell’arte e delle religioni. L’importante ruolo che questa sostanza ha avuto nell’ebraismo o nel cristianesimo è nota a tutti. Nell’eucaristia cristiana, per esempio, il vino diventa il tra Dio e l’uomo, trasformandosi in vera e propria sostanza divina. medium Nel mondo occidentale, come abbiamo visto, si devono ai monasteri cristiani la sopravvivenza e l’espansione della vite nel corso del Medioevo. La quantità di vino prodotta già dai monaci del Trecento era decisamente superiore a quella utilizzata nei rituali eucaristici. Il suo legame con la religione è tale che in California, durante il proibizionismo, poterono continuare a produrre vino solo le cantine che rifornivano le chiese. Anche al di fuori delle cerchie prettamente religiose, comunque, il vino era alimento, medicina e fluido “sociale” carico di fortissime valenze simboliche. Grazie alla sua capacità disinibitoria e alla sua funzione vasodilatatoria, il vino favorisce l’incontro e poi l’atto sessuale stesso diventando dunque metafora di fertilità. Le sue proprietà stimolano gli uomini a guardare oltre i propri limiti terreni. Nessun’altra sostanza è mai stata caricata di così tanti valori simbolici e celebrativi, neanche l’acqua, fonte di vita primaria. Il vino, rosso come il sangue, calorico e inebriante, è certamente la bevanda che l’uomo ha scelto come fluido simbolo di vita. Il vino è una magia che nasce dall’incontro dell’uomo con la natura. È una metamorfosi così carica di significati che ha spinto molti dei nostri antenati a immaginare che in questo processo si celasse il segreto della vita. Pensate al tronco della vite in inverno, così esile e spoglio da sembrare un ramo secco, ma che d’un tratto riprende l’attività vegetativa con il pianto e la gemmazione. La vite è il simbolo della resilienza umana, l’immagine del ciclo della natura e dello stesso ciclo vitale. In Georgia i primi della storia avvolgevano d’argento un piccolo tralcio d’uva da portare nell’aldilà. E il vino dunque, frutto della vite che sopravvive alla “morte” invernale della pianta madre, possiede il segreto della rinascita. vignerons Probabilmente nessuno oggi beve un bicchiere pensando a tutte queste suggestioni ma sono convinto che una parte remota del nostro inconscio conosce queste associazioni simboliche e carica di significati il semplice gesto di bere vino, sia durante un pasto quotidiano sia nelle celebrazioni importanti.