Terminata la fermentazione tumultuosa, il prodotto che è ormai vino può seguitare a consumare eventuali residui zuccherini con la cosiddetta fermentazione lenta. Ma più importante di questa – anche se fino a pochi anni fa è stata sottovalutata – è la fermentazione malolattica. Essa consiste nella naturale trasformazione di parte dell’acido malico in acido lattico e anidride carbonica.
L’acido lattico è una sostanza fine, che determina un miglioramento nelle caratteristiche organolettiche, dovute in particolare alla diminuzione dell’acidità fissa. Il processo che lo genera è determinato da una serie di batteri lattici (i quali producono anche sostanze secondarie, tra cui possiamo citare varie specie di Lactobacillus e di Leuconostoc); tali batteri sono particolarmente sensibili alla presenza di anidride solforosa la quale, se elevata, li può inattivare. I batteri lattici agiscono generalmente solo all’inizio della primavera, perché necessitano di temperature ambientali oscillanti fra i 20-25°C; nel caso di certi vini e in annate ad autunno caldo, possono già entrare in azione prima dell’inverno. A seconda delle condizioni, la trasformazione malolattica potrà concludersi in pochi giorni o durare mesi, determinando intorbidamenti al vino di cui il vinificatore sprovveduto non sa intuire la causa. Favorire la malolattica è consigliato per i rossi tradizionali e per vini ad alta acidità che devono ammorbidire i loro gusti aspri. Qualora il processo non si innescasse da solo, si provvederà a tenere molto basso il dosaggio di anidride solforosa e a scaldare leggermente la cantina. Nel caso in cui si intenda produrre vino bianco con una certa vivacità di gusto, si cerchi di impedire la fermentazione malolattica: il vino andrà tenuto al fresco ed eventualmente si alzerà un po’ la dose di anidride solforosa in esso contenuta. Nelle regioni meridionali, dove c’è il problema della scarsa forza acida dei vini, la fermentazione malolattica può rivelarsi un danno invece che un elemento utile: si cercherà quindi di evitarla.