L’ENOLOGIA BIOLOGICA elle prossime pagine si cercherà di fornire informazioni su come produrre vino che non solo sia genuino e buono ma che possa anche definirsi “biologico”, cioè rispondente ai requisiti richiesti da tutte quelle associazioni europee e italiane che si interessano alla diffusione delle metodologie di coltivazione e produzione degli alimenti secondo i dettami dell’agricoltura biologica. N Prima di reiniziare il nostro viaggio dall’uva al vino, cercheremo di diradare un po’ le nebbie sull’argomento “biologico”, così da conoscere quali siano l’origine e il significato dei nostri discorsi. Di per sé l’agricoltura è sempre e comunque un’attività biologica (dovendo considerare l’aggettivo “biologico” secondo il suo significato letterale e cioè quello di “relativo alla vita”), proprio perché sono vive le piante e i campi con il loro mondo popolato di macro e microrganismi. Da molto tempo, tuttavia, in agricoltura hanno preso piede tecniche di coltivazione soprattutto chimiche che, impiantando grandi e facili produzioni, hanno perso di vista l’equilibrio di quel complesso mondo naturale che è la campagna, determinando gravi fenomeni di inquinamento e squilibrio ambientale. Uno dei primi moniti in tal senso si è avuto già all’inizio del secolo in Inghilterra, quando l’agronomo Sir Albert Howard puntualizzò l’importanza fondamentale della concimazione organica per una corretta agricoltura, dando il via al movimento anglosassone (tuttora attivo) per l’“agricoltura organica”. Sulla scia di quello inglese, anche nel resto dell’Europa (soprattutto in Germania) si sono sviluppati movimenti in difesa di un’agricoltura “pulita”, con attributi via via diversi, quali “ecologico”, “naturale”, “biodinamico”. Di agricoltura biologica si parla per la prima volta in una relazione tenuta nel 1959 all’Accademia di Francia dal professor Lemaire, eminente genetista. Tale termine si è poi imposto in Francia, tanto da essere attualmente utilizzato dallo stesso Ministero dell’Agricoltura per i , cioè per quei regolamenti cui debbono sottoporsi i produttori biologici. Anche in Italia ha preso piede la definizione francese, mentre in Svizzera, nel 1972 è stata fondata una federazione denominata International Federation of Organic Agricultural Movements (IFOAM), che ha ripreso l’uso del termine “organico”. La legislazione CEE ha stabilito quali siano in ogni Paese membro le definizioni ufficiali dell’agricoltura che in Italia è detta “biologica”. L’importante è che, in ogni caso, vengano messi in evidenza gli errori e i limiti dei sistemi chimico-industriali, pur non rinunciando a tutte le possibilità di meglio operare offerte dalla scienza e dalla tecnica moderne. Crediamo sia utile sottolineare, infatti, che i metodi per una migliore produzione alimentare non sono affatto in contrapposizione con le moderne necessità di approvigionamento (tali metodi non sono responsabili, per esempio, della fame nei Paesi del Terzo Mondo); e che, semmai, sono proprio le grandi monocolture industriali causa frequente di impoverimento del suolo: proporre una corretta agricoltura significa quindi agevolare il progresso. Ma torniamo al vino, del quale desideriamo occuparci in questo capitolo in funzione del fatto di poterlo produrre e consumare come alimento genuino e come bevanda dai gusti e profumi piacevoli; per evitare fraintendimenti, ricordiamo che la legislazione non prevede la dicitura “vino biologico” , bensì la dizione “proveniente da agricoltura biologica”. Ripercorreremo ora, passo dopo passo (anche a costo di ripeterci), le fasi della vinificazione familiare, con tutti i suoi argomenti fino a questo momento esposti in linea generale, per riaffrontarli in un’ottica mirata al massimo controllo, nell’uso e nella scelta, degli additivi: sempre che non si riveli possibile escluderli del tutto. cahiers de charge tout court Il simpatico barroccio che segnala il punto vendita dell’azienda agricola Concadoro, sulla strada tra Castellina e Poggibonsi, in Toscana. Vigneti in autunno ai piedi della villa di Vignamaggio, in Toscana. . Il roseto è molto sensibile alle gelate e alle drastiche variazioni climatiche. Per questo in alcune aree italiane si è soliti piantarlo nelle vigne. È infatti un valido indicatore dei possibili pericoli climatici che si abbattono sulla vigna La strada verso l’uva sana In questo capitolo non approfondiremo i metodi biologici di coltivazione della vite; ci basti dire che già rispettando tutti i giusti criteri della tecnica viticola classica, a partire dal luogo e dal tipo di impianto fino alle potature, alle concimazioni nonché alle lavorazioni del terreno, si può ottenere normalmente uva sana e ben matura. Ci sembra invece il caso di soffermarsi un momento su una delle malattie del vigneto, la ( ), in quanto la sua presenza, oltre a danneggiare la produzione dell’uva, crea problemi al vino che si desidera produrre. Si vanno diffondendo molti prodotti antibotritici; ma crediamo che in questo caso, più che in altri, il problema vada risolto con una corretta viticoltura, a meno di non essere così fortunati da subire quella particolare forma larvata di muffa grigia che i francesi chiamano e che darebbe caratteristiche superiori a certi vini (come il Sauterne). muffa grigia Botrytis cinerea marciume nobile In seguito vedremo che esistono alcune possibilità di vinificare anche in presenza di leggere quantità di muffa grigia; per ora, raccomandiamo a chi acquistasse le uve, anziché coltivarle in proprio, di sincerarsi che non contengano residui tossici di prodotti antimuffa, usati magari in prossimità della vendemmia. Tali prodotti, infatti, oltre a essere dannosi per la salute, uccidono la microflora dei lieviti impedendo al mosto di fermentare. Se una mancata fermentazione fosse da imputarsi a tutto ciò, non v’è altra strada che quella di ricorrere al taglio con mosti sani e all’aggiunta di lieviti selezionati. Esiste un sarcastico raccontino in cui un padre morente, dando gli ultimi consigli ai propri figli, ricorda loro: «Il vino si fa anche con l’uva». La cosa ci fa sorridere; ma in certi Paesi nordici si parla di vino facendo riferimento a fermentati di frutti diversi che da noi prenderebbero il nome di “sidri”. Ecco perché la legislazione italiana asserisce innanzitutto che «il vino è il prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva fresca o del mosto d’uva». . Il fungo Botrytis cinerea si sviluppa nelle regioni che godono di condizioni climatiche temperate, dove spesso le nebbie del primo mattino vengono spazzate via da giornate caldee assolate L A FERMENTAZIONE BIOLOGICA La vinificazione nel suo complesso, e buona parte dei problemi di conservazione del vino, sono regolati da problemi di microbiologia, cosicché possiamo considerare l’enologia come scienza biologica. Come abbiamo già visto, la fermentazione è un processo che dura da 5 a 15 giorni, durante i quali il mosto entra in ebollizione e si trasforma in vino attraverso processi chimici semplificabili con l’equazione “zuccheri → alcol + anidride carbonica”, equazione scoperta da A.L. Lavoisier e messa a punto da J.L. Gay-Lussac all’inizio dell’800. A questa prima fermentazione, la più macroscopica e definita non a caso tumultuosa, seguono altre fermentazioni minori che tratteremo più avanti. Fu Pasteur a stabilire che responsabili di tale fenomeno sono delle cellule vegetali dette saccaromiceti (funghi dello zucchero) o lieviti, le quali agiscono tramite un insieme di enzimi (zimasi alcolica) quando non trovano sufficiente ossigeno per effettuare la respirazione. Chimicamente il processo è molto complesso e porta alla formazione di tante sostanze secondarie che contribuiscono a determinare i caratteri organolettici del prodotto vino. I lieviti sono presenti sulla pruina delle bucce dell’uva e, a seconda del tipo di ambiente e di clima, sono rappresentati da specie differenti, assieme alle quali vi sono anche agenti di malattie del vino, come batteri o muffe. Tra i lieviti, quelli apiculati ( ) sono meno adatti di quelli ellittici ( e ) che hanno un più alto rendimento fermentativo. Man mano che il tenore alcolico sale, i lieviti rallentano la loro azione; ciononostante continuano ad agire fino alla scomparsa di quasi tutti gli zuccheri, sopportando gradazioni di ben oltre i 14° alcolici. Alla fine, si depositano sul fondo con altre sostanze e vanno a costituire la feccia che andrà eliminata. Una pronta partenza della fermentazione è molto importante: se dopo alcuni giorni non si è ancora prodotta, occorre verificarne il motivo e intervenire con azioni biologicamente corrette, piuttosto che con il ricorso agli additivi chimici. Escludendo la possibilità che l’uva sia danneggiata dalla presenza di muffa grigia o da residui di prodotti antibotritici (l’una e gli altri impedirebbero la fermentazione), può darsi che occorra alzare la temperatura del locale di fermentazione perché troppo bassa. Può anche darsi che vi sia carenza di lieviti; cercheremo allora di farli riprodurre aerando il mosto, ed eventualmente aggiungendo quelle sostanze azotate (come il fosfato di ammonio) di cui hanno bisogno i lieviti per nutrirsi. Talora, può essere utile ricorrere all’uso di lieviti selezionati, acquistati sul mercato e riprodotti nella nostra cantina. Oltre ai lieviti ellittici e , che si possono ben sviluppare già da un mosto in nostro possesso, ve ne sono altri particolarmente usati per i vini bianchi, tra cui ( ): avendo in cantina altre vasche in fermentazione, è facile far passare un po’ del loro prodotto in quelle che devono ancora iniziare il processo, determinando così un semplice inoculo di lieviti attivi pronti a entrare in azione. A questo punto, però, può subentrare la necessità di usare una certa quantità di anidride solforosa, poiché essa, rallentando l’azione dei batteri e dei lieviti apiculati, permette a quelli ellittici di dominare il campo. La limitazione dell’uso di tale sostanza, che peraltro è prevista anche in altre operazioni che riguardano la trasformazione dell’uva in vino, rappresenta un’importante tappa verso l’enologia biologica. Kloekera apiculata Saccharomyces ellipsoideus S. cerevisiae Saccharomyces cerevisiae S. ellipsoideus S. oviformis bayanus L’aggiunta nel mostodello zucchero (zuccheraggio) ne aumentala gradazione alcolica. L’uso di anidride solforosa durante la fermentazione Fino quasi all’inizio di questo secolo la vinificazione dava risultati spesso contrastanti che non sempre erano quelli sperati; attualmente, però, l’apprendimento di alcuni procedimenti permette di regolarla in ogni sua fase, in modo da evitare fallimenti. Uno di questi procedimenti riguarda l’impiego dell’anidride solforosa che nella nomenclatura chimica ufficiale è detta biossido di zolfo; usata da millenni sotto forma di zolfo bruciato per tenere sane le botti, solo da poco viene concepita come additivo alimentare. L’anidride solforosa è genericamente reputata un conservante e variamente usata nell’industria alimentare; non è da considerarsi alla stregua di certi micidiali e illegali antifermentativi, ma ormai si sa che anch’essa è responsabile di vari problemi per la salute umana: è infatti causa di molti nostri mal di testa (il famoso cerchio al capo) e di molte cattive digestioni seguite a consumo di vino. L’anidride solforosa innalza il tenore dei solfiti nel corpo umano; distrugge in buona parte la vitamina B contenuta nei vini e può danneggiare altre vitamine in cibi ingeriti contemporaneamente; diminuisce l’azione della pepsina (l’enzima gastrico della digestione); e può portare modificazioni non certo salutari su plasma, cervello e fegato. Ovviamente molto dipende dalle dosi di anidride impiegate: la legislazione prevede dei limiti massimi, che le associazioni biologiche ritengono da abbassare, auspicando addirittura la sua totale abolizione. Approfondiremo questo discorso nel capitolo relativo alla presenza di anidride solforosa nel vino; adesso vediamone il possibile uso nella fermentazione tenendo conto che l’anidride, combinandosi con altre sostanze e liberandosi per evaporazione, può quasi del tutto sparire alla fine di tale processo. 1 Le proprietà dell’anidride solforosa Gli effetti positivi risultanti dall’impiego di anidride solforosa in fase di fermentazione sono molteplici. Batteri dannosi e lieviti meno desiderabili come quelli della specie sono sensibili all’anidride solforosa, la quale li inibisce nel loro sviluppo, favorendo invece quello della microflora più valida, costituita da saccaromiceti in grado di trasformare completamente tutti gli zuccheri (eccetto gli zuccheri pentosi, presenti nella misura di 1 g/l, i quali non subiscono fermentazioni) e di trasformare il mosto in vino secco. • Effetto antisettico e selettivo Kloekera Anche se in un primo momento schiarisce il liquido, l’anidride solforosa facilita poi l’estrazione dalle bucce delle sostanze coloranti e polifenoliche, particolarmente importanti nei vini rossi. • Effetto solubilizzante L’anidride solforosa favorisce la sedimentazione dei composti colloidali dei mosti, determinando un miglior illimpidimento finale. • Effetto defecante Consigliato Ammesso Vini rossi <20 mg/l 60 mg/l Vini bianchi e rosati <20 mg/l 80 mg/l Spumanti <20 mg/l 60 mg/l Vini dolci e mosti <20 mg/l 120 mg/l . Nella tabella riportiamo le quantità di SO totale consigliata e ammessa nelle diverse tipologie di vino secondo il disciplinare per la vinificazione dell’ (Associazione italiana per l’agricoltura biologica). Chiaramente livelli ancora inferiori sono possibili da raggiungere e caldamente raccomandati 2 AIAB Ossidandosi essa stessa, l’anidride solforosa protegge le altre sostanze del mosto dall’ossigeno dell’aria, evitando il pericolo delle cosiddette casse (alterazioni del colore, di cui abbiamo già parlato e di cui parleremo ancora in seguito) e conservando il vino giovane. • Effetto antiossidante In particolare, distrugge e inibisce le ossidasi, categorie di enzimi presenti in gran quantità nelle uve marce e responsabili di una grave alterazione del vino, quella che provoca un imbrunimento del colore e che è detta casse ossidasica. In generale, apporti sia pure moderati di anidride solforosa permettono di ottenere un vino con più alcol (per via di un miglior sfruttamento degli zuccheri); più ricco di acidi e di estratto (ciò che resta del vino dopo aver fatto evaporare l’acqua); e soprattutto con basso tenore di acidi volatili (acido acetico). Escludendo del tutto l’uso di anidride solforosa rischiamo facilmente di ottenere un vino piuttosto acidulo (che piace poco, al giorno d’oggi: un tempo invece, questo tipo di vino veniva allungato con acqua). L’utilizzo dello zolfo ha una tradizione millenaria: veniva utilizzato già dai Greci per il suo potere antiossidante. Un vino preparato con lo zolfo gode di aromi più chiari e puliti, mentre un vino non solfitato ha un sapore meno delineato, e tende a scurire velocemente. Lo zolfo interviene in tre momenti diversi della vinificazione: allo stadio di mosto, dopo la fermentazione e prima dell’imbottigliamento. L’anidride solforosa nel mosto Se nel vino finito potremo poi anche decidere di non usare affatto l’anidride solforosa, è meglio avvalersene almeno nel mosto: per le uve rosse sane, servono dosi che vanno da 5 a 10 g/hl; nel caso di uve bianche, bastano quantità lievemente inferiori. È importante valutare l’acidità del mosto, perché se con pH 3 si aggiunge anidride nella misura di 3 g/hl, per avere un medesimo risultato con pH 3,5 ne occorreranno almeno 10 g/hl. Anche le alte temperature ambientali (come quelle, per esempio, del Meridione) costringono ad alzare leggermente le dosi, rispetto a quelle più contenute di un clima più fresco. L’anidride solforosa viene usata spesso sotto forma di sale bianco, che quasi sempre è ; esso ha un rendimento del 50%: per cui, dovendo aggiungere 5 g/hl di anidride solforosa, si devono usare 10 g/hl di metabisolfito. Dopo averlo pesato bene con una bilancia da cucina, il metabisolfito va sciolto prima in un po’ di mosto, quindi nella massa. La preparazione industriale di questo e altri sali simili (come il bisolfito) può comportare la presenza nel mosto di residui estranei indesiderati; ecco perché, in molti regolamenti biologici, si preferisce consigliare l’uso di soluzioni liquide al 5-8% di anidride solforosa. In questo caso, per preparare la soluzione desiderata, occorre una bombola di anidride solforosa liquida dotata di sifone diffusore. In commercio esistono anche bombolette con soluzione già pronta, di più facile utilizzo. Se tale metodo risulta senz’altro il migliore, crediamo sia però di difficile attuazione per chi vinifichi piccolissime quantità, e magari occasionalmente; in simili circostanze, avendo uva sana e non accettando assolutamente l’uso dei sali, sarà meglio tentare di vinificare senza anidride solforosa, tanto più che si tratterà di vino che verrà consumato in tempi brevi dal produttore stesso. In ogni caso, sotto forma di sale o in soluzione che sia, l’anidride solforosa va aggiunta , cosicché possa esercitare la sua attività selettiva sui lieviti che stanno entrando in azione. Per evidenti ragioni si raccomanda vivamente l’uniformità della distribuzione nella massa da trattare. metabisolfito di potassio prima che inizi la fermentazione La vinificazione in presenza di botrite Prima di passare a vedere come si conclude la fermentazione, facciamo un cenno al caso di o muffa grigia ( ), cosa che si può verificare in annate sfavorevoli. UVE CHE PRESENTINO UN’ALTA QUANTITÀ DI BOTRITE Botrytis cinerea Diciamo subito che i grappoli su cui vi sia marciume vecchio e che siano secchi o aciduli vanno assolutamente gettati. La situazione è meno grave se la muffa si presenta su acini ancora turgidi: si vendemmi con immediatezza, tenendo conto che è meglio avere uva poco matura, ma sana, piuttosto che attendere il dilagare della malattia. Alla vendemmia seguirà una repentina vinificazione in cui non si potrà fare a meno dell’ che, anzi, andrà impiegata in (10-20 g/hl). Teniamo presente che tutta questa anidride solforosa non si ritroverà poi nel vino, perché in gran parte si legherà col tempo alle fecce (le quali, infatti, saranno più abbondanti del normale). Oltre a questo, l’anidride verrà consumata in maggior misura dai molti batteri presenti. Considerando anche la parte di anidride che si volatilizza, a lavoro ultimato si dovrebbe poter rientrare nei limiti finali dei vini biologici; ma se così non fosse, si tenga conto che l’unica alternativa è quella di rinunciare a fare il vino. Volendo invece procedere, dobbiamo assolutamente bloccare - e subito - gli enzimi della casse ossidasica, controllare i batteri, selezionare i lieviti, proteggere il colore e determinare un ambiente riducente che difenda i caratteri organolettici del vino. ANIDRIDE SOLFOROSA DOSI UN PO’ PIÙ ALTE DEL SOLITO La dose di anidride solforosa può essere abbassata se usiamo , contenente tiamina (vitamina B ), che aiuta i lieviti e diminuisce gli acidi chetonici indesiderati. Sempre come nutrimento dei lieviti, che possono essere carenti di azoto assimilabile, prima che inizi la fermentazione si provvederà a usare 10-20 g/hl di . Un accorgimento utile sarà anche proteggersi dall’eccessivo proliferare dei , appartenenti alla specie . Le bucce vanno precocemente separate, così come le fecce, in modo da far fermentare un prodotto già abbastanza limpido. È inoltre proprio questa l’occasione per utilizzare i lieviti selezionati preparando il , cioè il mosto di innesto. Una pratica specifica per i vini bianchi è molto utile nel caso di uve botritizzate: si tratta dell’uso di una argilla, la , di cui abbiamo già parlato in generale a proposito degli intorbidamenti del vino; essa elimina molti colloidi proteici, che sono causa di intorbidamenti, appunto, e rischiosi per le possibili precipitazioni di rame o ferro che provocano. Si consiglia l’uso della bentonite nel mosto già in fermentazione, con dosi fino a 50-100 g/hl. Conviene che i vini ottenuti con uve non perfette, vengano e che non li si consideri mai prodotti da invecchiamento. AUTOLISATO DI LIEVITO 1 FOSFATO D’AMMONIO MOSCERINI DELL’ACETO Drosophila PIED DE CUVE BENTONITE BEVUTI PRESTO C ONDUZIONE BIOLOGICA DELLA FERMENTAZIONE Alcuni elementi per la conduzione della fermentazione sono già emersi; ora cerchiamo di completarne la descrizione puntualizzando l’importanza che ricoprono la temperatura e l’ossigeno. La temperatura È uno dei fattori più importanti per la vita vegetativa dei lieviti; quella ottimale è compresa tra i . 20-25 °C Al di sotto dei 12 °C, la fermentazione stenta ad avviarsi, o lo fa talmente piano che occorre aiutarla. Questo succede nei climi freddi; in tal caso si provvederà a riscaldare un po’ la cantina. Se la temperatura del mosto sale oltre i 30-32 °C, si può avere un arresto del processo fermentativo, il che crea molti problemi perché il vino resta dolce e corre il rischio di successive modificazioni del tutto incontrollabili; è quindi necessario impegnarsi per evitare il calore eccessivo. In una piccola cantina si cercherà di farlo con semplici accorgimenti quali: non vinificare uve calde, travasare il mosto in botti più fresche, irrigare con acqua fredda l’esterno della vasca in cui il mosto sta salendo di temperatura. Avendo una cantina di sufficienti dimensioni e situata in regioni calde, un piccolo refrigeratore potrà salvaguardare la qualità del prodotto. Mantenendo la temperatura nei limiti ottimali, si ottiene infatti un vino particolarmente profumato e gustoso, essendo ben equilibrata l’azione dei lieviti. La fermentazione lenta, a bassa temperatura (15-18 °C), è particolarmente consigliata per i vini bianchi. L’ossigeno La fermentazione in se stessa è un processo che non necessita di presenza di ossigeno; ma i lieviti non possono effettuare la loro riproduzione se l’ossigeno è totalmente assente. Una certa aerazione aiuterà quindi l’inizio del processo fermentativo nei primi giorni. In seguito, un certo apporto di aria sarà garantito dai rimontaggi di cui diremo più avanti. Nelle piccole cantine il torchio più usato è il torchio idraulico verticale a gabbia di legno. Le sostanze nutritive Per compiere il loro ciclo biologico i lieviti abbisognano di zuccheri, sostanze minerali, vitamine e composti azotati assimilabili; i mosti generalmente ne contengono a sufficienza. Può comunque succedere che i mosti risultino poveri e in tal caso, come già visto per le uve botritizzate, si configura la necessità di aggiungere fosfato ammonico e talora tiamina (vitamina B ). 1 La sorveglianza della fermentazione La fermentazione non va abbandonata a se stessa, ed è buona cosa controllare ogni tanto l’andamento del grado zuccherino. Per l’evolversi della temperatura si raccomanda invece un controllo più serrato, magari quotidiano, così da non lasciarsi sfuggire il momento in cui occorre raffreddare la massa in ebollizione. Pressa per il vino in una cantina sotterranea a Montepulciano, in Toscana. L’arresto della fermentazione Se la temperatura sale troppo e l’aerazione è insufficiente, la fermentazione può bloccarsi. In questo caso è necessario intervenire immediatamente svinando, per non correre il rischio di spunto acetico o lattico, e ricreando le condizioni ideali, affinché i lieviti riprendano il processo fermentativo il più presto possibile. V INIFICARE BIOLOGICAMENTE Abbiamo già visto che, a seconda di come si opera, si possono attuare varie tecniche di vinificazione. Le due tecniche fondamentali, attuabili in tutte le piccole cantine, sono: la vinificazione in rosso, con macerazione delle bucce, e la vinificazione in bianco, cioè senza presenza di vinaccia. La vinificazione in rosso La presenza delle è indispensabile perché esse forniscono molti componenti che desideriamo ritrovare nel nostro vino, come i tannini, le sostanze coloranti, quelle aromatiche, e altro. Nel caso di vini da conservare a lungo, i tannini sono molto importanti per l’equilibrio generale del prodotto; senza contare che – a giusta maturazione – essi costituiscono per noi un valido fattore nutritivo: hanno infatti un’azione vasoprotettrice di cui diremo meglio nel capitolo dedicato al valore alimentare del vino. Non è il caso di prolungare la macerazione delle vinacce oltre la fine della fermentazione, anzi: si può talora separare la vinaccia in anticipo, e poi lasciar finire l’azione dei lieviti, che proseguirà lenta, conferendo al vino piacevoli caratteristiche. I diversi criteri per operare la vinificazione biologica sono in precisa relazione ai vari tipi di vitigni. Per restare comunque in ambito generale, non è banale ricordare che la vasca di fermentazione va riempita solo per i 3/4: sotto la spinta del gas che si formerà, il mosto potrebbe altrimenti traboccare. Una volta iniziata la fermentazione, buona parte della vinaccia sale in superficie formando il cosiddetto cappello, il quale va riaffondato nel mosto, perché può facilmente inacetire al contatto dell’aria. Un tempo si usava la vinificazione a cappello sommerso, bloccando la vinaccia con falsi fondi o steccature (famosa quella con rami di pesco); ma oggi si consiglia la vinificazione a cappello emerso (detta anche “a cappello galleggiante”), perché si abbina bene alla pratica del ritenuta molto efficace. Quest’ultima pratica prevede che almeno due volte al giorno (al mattino e alla sera) si rimescoli l’intera massa, pescando mosto dal basso e pompandolo al di sopra del cappello che così è respinto nel liquido. L’operazione rende omogenea la massa, permette di effettuare le aerazioni utili ai lieviti e all’abbassamento di temperatura, ed evita che l’eventuale anidride solforosa usata dia gusti sgradevoli di zolfo o di mercaptano (odore di uova marce). Chi se lo potesse permettere, farà bene a dotarsi di moderni fermentini con temporizzatori, i quali effettuano automaticamente i periodici rimontaggi e i controlli della temperatura; per la verità, si tratta effettivamente di attrezzi costosi e adatti a cantine molto specializzate. Il vinificatore hobbista, che fosse sprovvisto di una pompa per il mosto, potrà ricorrere alla , cioè all’affondamento del cappello costituito dalla vinaccia operato con attrezzi adatti, che devono preferibilmente essere di legno e non avere parti metalliche, per non rischiare cessioni di ferro al vino (come può avvenire con zappe o oggetti simili). Anche per la follatura esistono attrezzi più complessi, collegati a un compressore e detti ; se di buona qualità sono in grado di costituire una valida alternativa al rimontaggio. In ogni caso queste operazioni vanno effettuate subito, senza attendere l’inizio della fermentazione, che peraltro verrà così aiutata a partire. Quando si scopre, per semplice assaggio o perché il mostimetro lo segnala, che tutto lo zucchero è stato trasformato (vi è comunque e sempre circa 1 g/l di zuccheri infermentescibili), si procede alla , che è l’operazione con la quale si separa il vino dalla vinaccia: si pompa il vino e lo si travasa in un’altra vasca facendolo passare attraverso un setaccio (meglio se di vimini); il setaccio trattiene eventuali impurità e vinaccioli, i quali, con la restante parte solida, passeranno poi nel torchio. vinacce rimontaggio follatura aerofollatori svinatura Prima della svinatura conviene fare la , lasciando il vino in un bicchiere per 24 ore e verificando se illimpidisce o se si intorbida e diviene marroncino. In quest’ultimo caso, il vino è soggetto a casse ossidasica (un problema del quale abbiamo già parlato, e su cui torneremo): va svinato senza fargli prendere aria, e trattato con 10 g/hl di anidride solforosa unita a 5 g/hl di acido citrico e a 5 g/hl vitamina C. Ottenuta la chiarificazione, il vino andrà consumato rapidamente, e comunque prima dell’arrivo dei calori dell’anno successivo. prova dell’aria Qui a destra: fermentino a fondo inclinato. boccaporto di carico e ispezione; boccaporto di scarico cappello vinaccia; tramoggia di raccolta e convogliamento vinaccia; gruppo rimontaggio mosto per lavaggio cappello. 1) 2) 3) 4) Vinificazione a cappello emerso e sommerso. La fermentazione in rosso può avvenire sia con la preventiva diraspatura, sia con raspi compresi ( ). ( ) ( ), ( ), . A Nel tino o vasca di fermentazione, le vinacce, cioè; le parti solide, si raccolgono in superficie B formando uno spesso strato (“cappello”) che deve continuamente essere riaffondato nel mosto per evitare che al contatto con l’aria inacetisca. Questa operazione, detta di follatura o rimontaggio, può essere eseguita sia con l’uso di una pompa che prelevando vino dal basso lo porta alla parte superiore del tino C sia utilizzando attrezzi adatti allo scopo che devono però preferibilmente essere di legno. Per evitare questa operazione (e il rischio di inacidimento), è possibile adottare la fermentazione a cappello sommerso D che consiste nell’uso del falsofondo che evita l’immersione delle vinacce e quindi il loro contatto con l’aria . Contenitori in acciaio in una moderna azienda vinicola. Qui si compiono i processi di vinificazione e fermentazione La vinificazione in bianco Viene usata per ottenere vini con poco colore, di sapore sottile e profumo fine, adatti a un consumo giovane. Se ne ricavano vini piuttosto delicati e meno soggetti a ingiallire, per la scarsità di sostanze coloranti ossidabili. In ogni caso, la filosofia biologica non spingerà mai la vinificazione in bianco ai suoi limiti estremi, come si fa oggi in certe cantine dell’industria per soddisfare la moda del vino bianco-carta, sempre perfettamente trasparente. Quando si procede alla torchiatura, nel modo più soffice possibile e subito dopo la pigiatura, si utilizzano basse dosi di anidride solforosa (2-3 g/hl), arieggiando con i rimontaggi per favorire la moltiplicazione dei lieviti. Si consiglia quasi sempre l’uso di (50 g/hl), che è una argilla in grado di depurare bene il mosto dalle varie sostanze sgradite in sospensione, conferendo così grande pregio al prodotto finito. La bentonite va fatta prima rigonfiare in acqua perché agisca in modo efficace. Esistono altre sostanze che l’enologia moderna utilizza in questa fase (enzimi pectolici, carboni decoloranti, sol di silice ecc.), ma non se ne prevede l’uso per un vino biologico. Più che nel caso dei vini rossi, la vinificazione in bianco richiede un buon uso di , con la già descritta preparazione del mosto d’innesto. Anche in questo caso, al termine della fermentazione si procede alla svinatura, che consiste nel separare il vino dalle fecce formatesi nel frattempo. bentonite lieviti selezionati Le altre tecniche Esistono metodi intermedi, ottenendo vini rosati o rossi più leggeri o anche, viceversa, bianchi adatti alla lunga conservazione. La vinificazione può anche avvenire con tecniche industriali complesse che – al di là di ogni giudizio sui risultati qualitativi – sono fuori dalla portata del piccolo vinificatore. Tra queste ricordiamo: la , quella , la per ottenere i vini novelli, la ecc. Particolare è la vinificazione delle uve aromatiche, come quelle ottenute dal vitigno Moscato; con tale tecnica si producono vini dalle caratteristiche gradevoli, dovute alla permanenza di almeno il 5-6% di zuccheri, ai quali sono legate le sostanze aromatiche. Si tratta quindi di vini che devono per forza restare dolci e a basso grado alcolico. Si potrebbe descrivere la loro vinificazione artigianale, anche se per lo più essi vengono lavorati a livello industriale; ma trattare un tale argomento (come anche la spumantizzazione o i vari prodotti a base di vino) ci porterebbe fuori dai limiti imposti dal presente manuale. vinificazione continua a temperatura e pressione controllate macerazione carbonica termovinificazione Un moderno torchio industriale. La torchiatura Anche per questa operazione vi è una gran quantità di soluzioni tecniche diverse con attrezzi detti sgrondatori, presse, torchi orizzontali e verticali; il più usato nelle piccole cantine è il . Il liquido estratto per primo con la torchiatura può essere aggiunto alla massa, essendo di ottima qualità, ma l’ultimo che esce dal torchio è invece aspro e qualitativamente scarso, per cui viene tenuto da parte e destinato assieme alle fecce e alle vinacce alla distillazione. Il distillato di vinaccia costituirà la famosa ; poi, gli ulteriori residui di vinaccioli prenderanno la strada degli oleifici, mentre quelli delle sostanze tartariche si riveleranno utili all’industria farmaceutica. In altri casi, i prodotti supertorchiati possono finire negli acetifici, assieme ai vini spunti. torchio idraulico verticale a gabbia di legno grappa Vecchio torchio e tradizionali contenitori, conservati in un museo.