La storia...Tra realtà e leggenda Bollicine sì, bollicine no NASCITA CONTROVERSA DELL’EFFERVESCENZA Il vino di Champagne, abbiamo visto, iniziava ad avere discreto successo, seppur concepito esclusivamente come vino fermo e tendenzialmente rosso. Ma, non sempre, le cose seguono il verso giusto e la via prestabilita… Un po’ di chimica per iniziare Per capire meglio ciò che capitò, vi chiedo di accompagnarmi per un breve e (garantisco) indolore viaggio dentro la chimica parlando di fermentazione alcolica. Definiamo fermentazione il lavoro che svolgono alcuni microorganismi, chiamati lieviti, in presenza di zucchero. Essi ne sono molto ghiotti e mangiandolo producono, come sostanze secondarie, alcool etilico e anidride carbonica. Per avere un punto di riferimento, ecco la formula standard della fermentazione che ci aiuterà a capire meglio quello che avviene nelle profondità molecolari; non spaventatevi, è più semplice di quanto si creda. C H O → 2 CH CH OH + 2 CO 6 12 6 3 2 2 In partenza abbiamo una molecola di zucchero, il glucosio, dalla formula C H O : 6 12 6 il meritorio lavoro del lievito sarà di smontarla e, con i pezzi ricavati, costruire due molecole di alcool etilico e due di anidride carbonica. Anche per chi non ha dimestichezza con la chimica è facile fare due conti e accorgersi che, a fronte di 6 molecole di carbonio (simbolo C), 12 di idrogeno (simbolo H) e altre 6 di ossigeno (simbolo O), ci ritroviamo alla fine con 12 molecole di idrogeno, 6 di carbonio e 4 di ossigeno. Insomma, il nostro lievito ha fatto l’utilissimo lavoro della fermentazione accontentandosi di due molecole di ossigeno. Va da sé che mentre l’alcool rimane nel vino, l’anidride carbonica, essendo un gas, vola via. Questo lavoro di conversione non potrà andare avanti all’infinito, ma continuerà fino quando i lieviti avranno convertito tutto lo zucchero in alcool; poi, non avendo più nulla da fare, smetteranno di operare e si godranno la meritata pensione, lasciandoci un liquido alcoolico che, se l’uva di partenza era buona e le condizioni igieniche sufficienti, potremo serenamente chiamare vino. Ma abbiamo fatto i conti senza l’oste (la metafora ci stava). Non tutto il freddo viene per nuocere Il periodo climatico che va dal XV al XVIII secolo, è chiamato “piccola era glaciale”, perché nel nord Europa si sono avuti alcuni tra gli inverni più rigidi di cui si abbia memoria. I fiumi ghiacciavano in inverno, le estati duravano poco e non c’era nessun bel programma in televisione. Questo freddo creava un bel problema ai nostri lieviti che non chiedono un grande stipendio per produrre alcool e anidride carbonica - bastano due molecole d’ossigeno - ma una cosa non dovete mai fargli mancare: il caldo. Se la temperatura si abbassa sotto i 15 gradi centigradi diventano molto suscettibili e smettono di lavorare. E accadeva spesso che, subito dopo l’inizio della fermentazione, il clima piuttosto freddo della zona, facesse scendere repentinamente la colonnina di mercurio arrestando inevitabilmente la fermentazione. Così nelle botti di Reims, Epernay e paesi circonvicini, rimanevano liquidi poco alcolici, ancora ricchi di zucchero e con lieviti temporaneamente ibernati, ma tutt’altro che domi. Con l’arrivo della primavera, i primi caldi e la luna nuova di marzo, che ogni imbottigliatore casalingo conosce bene e tornati i fatidici 15 gradi, i lieviti si risvegliavano. Dopo una dormita così ripartiva il processo di fermentazione, ma con un’importante differenza ambientale: il previdente vignaiolo alla fine dell’autunno, considerando terminata la fermentazione, aveva chiuso ben bene la botte, in modo che al prezioso vino non saltasse in mente di far evaporare l’anidride carbonica, il CO della formula; rimaneva così intrappolata all’interno e si rassegnava a convivere con il vino. 2 Ritratto del re di Francia Luigi XIV, il Re Sole. Et voilà le bolle! Ci siamo, il nostro vignaiolo, dopo avere terminato il vino dell’anno precedente, si accinge ad aprire le botti del vino nuovo, magari per il pranzo di Pasqua e si accorge che il vino ha una certa effervescenza, perché oramai (noi oggi lo sappiamo, lui no) l’anidride carbonica si è legata al vino e non se ne andrà tanto facilmente. Non succedeva tutti gli anni, dipendeva da molti fattori, ma accadeva e, se a noi italiani il vino frizzante è sempre piaciuto, sin dall’epoca romana, ai francesi e soprattutto agli champenois, questo ribollire disturbava non poco. Era visto quasi come un difetto, anche se non mancavano gli amanti del genere. Ma si fa buon viso a cattiva sorte e il vino frizzantino, per quanto non amato, era utilizzato per consumo locale e personale e a nessuno, almeno fino ai primi anni del ‘700, sarebbe mai venuto in mente di mettere in piedi un commercio legato a questa bizzarria enologica, esclusi gli inglesi… ma ne parleremo più avanti. Qualcosa però accadde. Tra il 13 e il 15 Reims era una meta ambita, soprattutto da chi aspirava a regnare sulla Francia, perché, a partire dal 1027, i re di Francia venivano incoronati nella sua cattedrale dall’arcivescovo di Reims. Correva l’anno 1654, quando, il 7 di giugno, un promettente sedicenne di cui sentiremo molto parlare (all’epoca si iniziava presto a lavorare) che all’anagrafe faceva Luigi Deodato di Borbone fu incoronato Re di Francia. Iniziò ufficialmente uno dei regni francesi più duraturi e significativi, il regno di colui che è diventato l’archetipo del monarca assoluto: Luigi XIV, il Re Sole. Al di là di tutte le implicazioni storiche che questa elezione avrebbe comportato, il fatto ha stretta attinenza con la storia delle nostre amate bollicine. Si sa che le incoronazioni sono cerimonie lunghe e faticose, ci vuole una bella tavolata finale per chiudere in bellezza la giornata. Fu così che il novello re, con la sua corte e la sobrietà che contraddistinguerà il suo mandato, si accinse a banchettare. Il vino per le libagioni fu, ovviamente, a chilometro zero: poco pratico portarsi dietro i vini di Borgogna usati dai suoi predecessori. E, come racconta lo Chaptal, il vino di Champagne, proveniente da Sillery, Hautvilliers e Verzenay, rigorosamente selezionato tra quelli senza la piaga delle bollicine, arrivò al palato del Re Sole e, da lì, non si spostò più. Il Re parve entusiasta di questo vino, gradendone la freschezza e i profumi, la leggerezza e l’eleganza; non avrà avuto l’effervescenza alla quale siamo oggi abituati, ma siamo pur sempre in Champagne, che diamine! Da quel momento le botti migliori furono messe sulla strada di Versailles; ma non era ancora il tempo di parlare di bottiglie. Marketing dream Ricordiamoci che i gusti del Re Sole non erano un affare personale, parliamo pur sempre di uno che asseriva: “L’état, c’est moi”; e se una simile persona beveva il vino della Champagne, non sarebbe stato carino, per le migliaia di individui (si parla di quasi ventimila) presenti alla sua corte bere altro. Inoltre, se è vero anche che il Re mangiava da solo (nessuno era ammesso alla sua tavola, nemmeno i familiari), nonostante fosse servito da una ventina di camerieri, oltre a un selezionato pubblico che assisteva al desco regale, inevitabilmente tutto ciò che si trovava sulla sua tavola diventava di dominio pubblico… le chiacchiere volano! In poche parole, Luigi XIV è stato il miglior testimonial di ogni tempo, il sogno di ogni pubblicitario, perché qualsiasi cosa da lui “sponsorizzata” era ambita e richiesta da tutti. Dopo secoli in cui il vino di Champagne, per quanto apprezzato, rimaneva pur sempre legato al consumo locale, sopraggiunse un cambiamento radicale. Non solo il Re e la sua corte richiedevano notevoli quantità di vino, ma anche i colleghi del monarca, regnanti di altri stati, con i quali sovente s’intratteneva durante gli sfarzosi ricevimenti di corte, iniziarono a interessarsi ai vini di Champagne. Il risultato? Furono piantati nuovi vigneti, vennero costruite strade per trasportare il vino verso Versailles e verso i porti e aumentarono le esportazioni, facendo affluire valute per arricchire i produttori più illuminati. Tutto questo instaurò un circolo virtuoso che portò inevitabilmente al successo questi vini; la storia però avrebbe preso ben altra piega se non fosse comparso un nuovo personaggio chiave, colui che ha posto le basi per lo sviluppo del moderno Champagne. Cambio al vertice Già è significativo che la sua vita sia contemporanea a quella di Luigi XIV e, anche se sono state due personalità che non potremmo immaginare più diverse, le loro vite parallele hanno marcato in modo indelebile la storia dello Champagne. Il nostro uomo nasce in data imprecisata tra il 1638 e il 1640, nel piccolo villaggio di Sainte-Menehould, situato all’estremo est della Champagne e, all’età di dieci anni, entra in un collegio di gesuiti per uscirne a diciotto come frate benedettino novizio. Dopo dieci altri anni di “perfezionamento”, nel 1668 fa il suo ingresso all’abbazia Saint-Pierre di Hautvillers con il ruolo, che manterrà tutta la vita, di procuratore. Cosa fosse il procuratore, cellier in francese, non è facile da tradurre in italiano, ma usando la terminologia che oggi sta a cuore a molti, sul biglietto da visita avrebbe potuto scrivere “Operations Director – Senior V.P.” Una sorta di numero due del monastero che si sarebbe occupato, per quarantasette anni, di tutto il business, tra cui acquisti, gestione delle scorte, vendite dei prodotti e soprattutto avrebbe avuto il controllo dei vigneti e del vino prodotto. Dall’anno 1668, il monaco Pierre Pérignon, meglio conosciuto come Dom Pérignon, darà il via alla moderna enologia. Tutto cambia La circostanza era di quelle che raramente accadono: uno dei più talentuosi enologi di tutti i tempi arrivò a produrre vino in un’abbazia situata nel cuore della Champagne, proprio quando il re di Francia aveva deciso che i vini di Champagne non devono mai mancare sulla sua tavola. La richiesta di vini sempre migliori spinse Dom Pérignon a migliorare le tecniche, provocando un netto incremento delle richieste da parte dei consumatori… per dirla in modo moderno! E il nostro monaco prenderà molto sul serio questa attività, cominciando con una politica di acquisizioni che porterà il monastero a possedere ben 24 ettari di vigneto, tanti per l’epoca, per poi andare a perfezionare le tecniche in vigna e in cantina. In quegli anni l’enologia era sostanzialmente empirica, ci si basava sull’esperienza ma senza nessuna base scientifica e, a volte, nemmeno razionale, con il risultato che i vini non erano mai prevedibili: il colore, i profumi, il gusto e, come abbiamo disquisito prima, l’effervescenza, erano sempre delle sorprese. Il monaco iniziò a selezionare i vigneti migliori, capì che solo vendemmiando al tempo giusto si poteva ottenere il massimo dalle uve. Comprese anche che ogni vigneto e ogni vitigno avevano caratteristiche uniche ed ebbe pure l’intuizione di pigiare grappoli di diverse provenienze, in modo che le mancanze di alcuni venissero compensate dalle doti di altri. Facendo un semplice esempio: se una vigna dava vini molto acidi, si potevano pigiare insieme uve più zuccherine, giovando così all’equilibrio del vino. Va da sé che per ottenere buoni risultati bisogna conoscere vita, morte e miracoli di ogni vigneto e di ogni pianta, oltre ad avere una sensibilità non da poco… dote di cui il monaco non difettava. E poi il colore. Prima di Dom Pérignon, quando si pigiava tutto assieme senza troppe cerimonie, i vini venivano sovente di un colore marrone-rossiccio non particolarmente invitante, mentre era difficile ottenere dei buoni vini rossi e, ancor di più, i richiestissimi vin gris, vini bianchi ottenuti da uve a buccia rossa, come il Morillon e il Fromenteau. In conclusione i vini di Hautvillers furono giudicati i migliori dai contemporanei, portando introiti considerevoli all’abbazia, dissetando nobili e teste coronate. Abbiamo tra le testimonianze anche una lettera del capo dei moschettieri del Re, tale maresciallo D’Artagnan (sì, proprio lui), che decanta le lodi dei vini rossi prodotti dal monastero. Dom Pérignon aveva fatto un ottimo lavoro. Alla fine... chi è stato? È grazie agli sforzi e all’abilità di Dom Pérignon che nacque un modo di fare vino molto più razionale e attento, dove la qualità non fu casuale ma ricercata attraverso un maggiore interesse a tutte le fasi del processo. Meglio però chiarire il punto una volta per tutte: lo Champagne, quello spumeggiante che conosciamo, non è stato inventato da nessuno, tantomeno da Dom Pérignon. Diffidate da tutti coloro che spacciano il simpatico abate come l’inventore dello Champagne. Si iniziò a scrivere di lui solo dopo la metà del 1800 e sempre senza la minima prova che abbia mai prodotto vini effervescenti. La sola eccezione è la copia di una lettera datata 1821 e attribuita, con una certa benevolenza, al monaco Dom Grossard, nella quale il nostro Dom Pérignon è presentato come inventore delle bolle… oltre che cieco, giusto per rafforzare il mito. Da quella lettera sono nate una serie di leggende che, ancora oggi, tengono banco; però tutto ciò che realmente sappiamo della produzione dell’abbazia è sempre riferita a vini fermi, le fonti dell’epoca non fanno mai cenno allo spumante e nessuno, eccetto Dom Grossard ha mai menzionato una presunta cecità di Dom Pérignon. D’altronde, se ricordiamo bene, Luigi XIV riteneva lo spumante un vino per degenerati e tale era considerato dall’opinione pubblica, che mai avrebbe contrariato il monarca; allora perché mai un monaco, che ci risulta assai ligio alla regola, avrebbe dovuto produrre vino spumante atto a incoraggiare vizio e dissolutezza? Dall’altra parte della Manica Non è tutto: mentre le alte sfere francesi banchettavano a vino di Champagne, rigorosamente tranquillo, gli inglesi, già da qualche anno, avevano scoperto le gioie delle bollicine. Carlo II, Re d’Inghilterra dal notevole spessore, aveva affari con la corte di Francia, magari non proprio adamantini, ma erano tempi in cui per mantenere il potere non si andava troppo per il sottile; anche il patto di Dover, mantenuto accuratamente segreto, tra Francia e Inghilterra sarebbe stato piuttosto imbarazzante da far conoscere agli altri stati europei. Comunque Carlo, oltre a portare in Inghilterra un vantaggioso accordo, portò anche un po’ del vino di cui Luigi era appassionato consumatore. I vini viaggiavano in botti ma, probabilmente il trasporto in mare, seppur breve, e gli sbalzi di temperatura, potevano far ripartire la fermentazione e causare il fenomeno dell’effervescenza. Questo vino con le bollicine al Re piaceva assai… non dimentichiamoci che Carlo era soprannominato “Merrie Monarch”, il sovrano allegro, poiché amava divertirsi ed era appassionato mecenate di arti e scienze. Basta mettere assieme le due cose per trovare un ambiente ideale per le bollicine. Gli inglesi, inoltre, possedevano delle ottime bottiglie, fatte di vetro molto resistente, tappi in sughero di qualità, alcuni tra i migliori scienziati dell’epoca e una gran voglia di sperimentare. Cominciarono così a collaudare mille modi per rinforzare le bollicine di questo vino, tanto che, che nella seconda metà del ‘600, gli spumanti elaborati oltremanica a partire dagli stessi vini di Champagne si bevevano con gusto dai gaudenti e benestanti inglesi. Sulla qualità non metterei la mano sul fuoco, le ricette erano spesso insolite con punte di bislacco, e il costo in termini di gusto per avere una consistente effervescenza poteva essere decisamente troppo alto. Non pensiamo però a un successo planetario, il mercato delle bolle era pur sempre una nicchia, tanto in Inghilterra, come in Francia dove, ripetiamo, era bevuto quasi di nascosto. Se le cose fossero restate così, lo Champagne sarebbe rimasto una curiosità enologica, riservata a pochi appassionati. Il destino, però, aveva in serbo ancora parecchie sorprese. Cene eleganti Quando il miglior Brand Ambassador del vino di Champagne, Luigi XI, giunse alla fine dei suoi giorni, (morirà nel 1715) e fu indispensabile pensare alla discendenza, avvenne una serie di fatti e coincidenze che hanno dell’incredibile. Cominciamo: il primogenito di Luigi XIV, erede legittimo al trono, il Gran Delfino Luigi, morì nel 1711 senza avere altri fratelli in vita, ma la discendenza sembrava salva, visto che generò ben quattro figli maschi. Ebbene, Luigi di Borgogna, il primogenito, morì nel 1712 per un’epidemia di vaiolo, insieme al suo figlio maggiore; il secondogenito era molto impegnato a fare il Re di Spagna con il nome di Filippo V e il terzogenito, Carlo, morì nel 1714. Rimaneva soltanto il figlio più giovane di Luigi di Borgogna, Luigi Duca d’Angiò, che però, al momento della morte del Re che, come si è capito, ne era il nonno, aveva solo 5 anni e non in grado di regnare. Luigi XIV aveva il grande timore che, senza discendenti diretti, arrivasse al trono il primogenito di suo fratello, Filippo II d’Orleans, un giovane ambizioso che era da lui considerato solo uno sperperatore gaudente, vizioso e incapace di guidare la Francia. Ma, per effetto della giovane età del futuro Luigi XV, cinque anni, Filippo d’Orleans ottenne la reggenza in modi non del tutto trasparenti, facendo le veci del sovrano fino al 1723, anno dell’incoronazione dello stesso Luigi XV. Uno dei motivi per cui Luigi XIV detestava il nipote era la sua passione per lo Champagne, ma non il vino fermo, leggero e profumato che si beveva a corte, bensì la versione spumante, prodotta in piccole quantità e con metodi ancora legati al caso, consumata, si diceva, solo da perditempo debosciati, non per nulla era definito da molti il vino del diavolo. Grazie a lui lo Champagne entrò a corte, ma non crediate che venisse utilizzato solo per annaffiare frugali pasti regali come quelli del celebre zio; una delle specialità di Filippo d’Orleans, peraltro ottimo statista, erano le sue “ ”, traducibili con “cene galanti” le quali, in realtà, erano orge sfrenate alle quali partecipava tutta la nobiltà vera o presunta. L’iconica apertura, da parte delle cortigiane presenti, delle bottiglie di Champagne, era il segnale d’inizio: la bevanda spumeggiante inebriava i commensali rendendoli ricettivi ad altre attività la cui descrizione, per quanto possa interessare a molti, esula dagli scopi di questo libro. Ovviamente il consumo di una bevanda così di tendenza non si poteva fermare alla “cenette” del reggente… anzi! Forte dell’immagine, per così dire, disimpegnata, diventò un classico al quale nessun nobile o ricco volle più rinunciare. Possiamo dire che da questo momento lo Champagne iniziò ad acquisire quell’aura di “vino indispensabile” in occasioni di feste o per un appuntamento galante. petit soupers