La storia...Tra realtà e leggenda Gli anni d’oro LE BASI PER IL SUCCESSO Con la caduta di Napoleone si indebolì, almeno per il momento, lo spirito rivoluzionario che aveva animato l’Europa per poco più di vent’anni e l’unico desiderio dei potenti era di far tornare tutto come prima: non a caso questo periodo storico viene chiamato Restaurazione. Tutto iniziò con il Congresso di Vienna, dove le commissioni dei vari stati si riunirono per riscrivere i confini e gli equilibri di potere. Ci impiegheranno ben 7 mesi: d’altronde non fu facile far dimenticare concetti, per alcuni assai pericolosi, come libertà e uguaglianza, che la Rivoluzione aveva veicolato a tutte le classi sociali. Bisognava mettere in piedi un grande gioco di compromessi i quali, come si sa, richiedono il loro tempo per essere raggiunti. Immaginate però tutti i grandi nomi d’Europa, spesso portatori di corona, per 7 mesi assidui frequentatori di Vienna, una delle città più belle e accoglienti dell’epoca, senza problemi di nota spese e con molto tempo libero per fare a gara nel mostrarsi ospitali (leggi ostentare ricchezza) verso i pari grado stranieri. Tutto questo può essere condensato nella frase del principe Lothario: “ ”. La traduzione credo sia superflua. Le Congrès ne marche pas, il danse E in tutto questo movimento di feste, pranzi, cene e incontri era inevitabile che fiumi di Champagne bagnassero quel tentativo di ridisegnare la mappa continentale. In questo modo, tutta l’Europa importante per l’epoca, conobbe a fondo il prezioso vino e ne fece buona pubblicità. Infatti, dopo il Congresso di Vienna, tre elementi favorirono l’ascesa dello Champagne: stabilità politica (almeno per il momento), quantità di denaro circolante e la facilità di comunicazione che lo rese conosciuto a tutte le latitudini del continente. Il risultato? Se prima della Rivoluzione esistevano solo 10 produttori di Champagne, nel periodo che va dal 1814 al 1870 i produttori diventeranno oltre 300, segno che il modesto mercato dell’inizio era diventata una ricca torta da spartire. The Champagne country Iniziò così l’età dell’oro dello . I produttori più oculati, usciti senza troppi danni dal periodo delle guerre, iniziarono ad accumulare grandi fortune, mentre nuovi imprenditori si lanciavano nell’avventura di imbottigliare Champagne, facilitati da un mercato ancora senza regole, una sorta di far west commerciale delle bollicine, che avrebbe regalato ai pionieri più scaltri non pochi successi, ma che poteva anche distruggere in un baleno i sogni dei meno smaliziati. Champagne Il racconto più interessante di questo periodo arriva da Robert Tomes, un diplomatico americano che, dal 1865 al 1867, fu console a Reims, per di più incaricato di selezionare Champagne da importare negli USA appena usciti dalla guerra civile e vogliosi di festeggiare i loro progressi stappando bolle francesi. Nel suo libro racconta il mondo dello Champagne con un distacco e un’ironia tipicamente yankee, senza però perdere mai di attendibilità, anzi dispensando osservazioni quanto mai azzeccate. Tomes descrive un mondo che aveva raggiunto un proprio equilibrio, anche perché lo vive in un periodo di annate favorevoli e di commercio florido; si entusiasma di fronte alle bellezze storiche e architettoniche di Reims, prima fra tutte la cattedrale, ma non risparmia critiche e frecciatine velenose. Soprattutto quando, dopo avere fatto numerose degustazioni di Champagne presso le Maison più importanti scrive: “ ”. Poco diplomatico, d’accordo, ma non aveva tutti i torti, poiché i vuoti legislativi consentivano pratiche piuttosto creative. E quando in uno Champagne si trovava molto più zucchero di quanto oggi se ne trovi nella Coca Cola, è facile intuire che il vino di base, con i suoi pregi ma soprattutto con tutti i suoi difetti, diventava quasi ininfluente. Ovviamente a certi mercati, come quello francese e inglese, ritenuti di palato più fine, venivano riservate le qualità migliori, però, ancora nel 1865 lo Champagne restava principalmente un fatto di effervescenza più che di gusto. The Champagne country È stata la prima volta in vita mia che ho apprezzato veramente un bicchiere di Champagne. In passato ho sempre trangugiato una bevanda dagli effetti esilaranti resa accettabile dalla zuccherosità e dall’effervescenza. Non sono mai stato in grado di distinguere una marca dall’altra e tutte: Heidsieck, Mumm, Moët & Chandon, Clicquot e Roederer (sic) mi sembravano prodotte nello stesso tino, con le stesse proporzioni di sciroppo, Brandy e acqua frizzante In realtà, come Tomes sottolinea, la ricerca della qualità esisteva anche allora ma, probabilmente, la clientela in grado di apprezzarla e di pagarla non faceva ancora massa critica. Bisognava solo aspettare: da lì a pochi anni la tendenza sarebbe inesorabilmente cambiata. Far West Al momento, ci si trovava in una sorta di Far West e, come nel vero West, esistevano i ladri di bestiame, i “ ”; così nel mondo dello Champagne esistevano i “ ” i ladri di nomi, egualmente scaltri e privi di scrupoli. cattle rustler name rustler La denominazione Champagne non si era ancora affermata e contava, sopra ogni altra cosa, il brand, che si identificava con il nome di famiglia. Senza un buon nome la strada per il successo era sbarrata; ergo, per quelli che volevano vendere Champagne ma non erano in possesso di nomi altolocati era necessario appropriarsi di un nome che suonasse bene e ricordasse quelli delle grandi Maison.. Nacquero Champagne dai nomi decisamente evocativi, come Leon Chandon, Paul Ruinart, Victor Clicquot e così via. Tomes narra anche dei fratelli Bosigues i quali pur producendo Champagne a loro nome, non riuscivano proprio a far decollare le vendite finché, in un ristorante di Strasburgo, conobbero Teophile, un simpatico cameriere dall’interessante cognome: Roederer. Da quel giorno il cameriere trovò un lavoro ben retribuito alle dipendenze dei fratelli Bosigues, guarda caso contemporaneamente al lancio del loro nuovo champagne: Theophile Roederer. L’altro Roederer, Louis Roederer, quello originale, immediatamente fece causa ai fraudolenti (per lui) fratelli, ma la giurisprudenza in materia di tutela dei marchi era ancora molto acerba, così il giudice sentenziò, senza troppi giri di parole, che ognuno aveva il diritto di usare il proprio nome come voleva. Per inciso, la Maison Theophile Roederer, fondata nel 1864, ancora nel 1882 era citata dal Vizetelly tra i produttori più importanti, segno che il nome aveva davvero un valore e i fratelli Bosigues l’avevano pensata giusta. Il lieto fine della storia è che oggi non esiste più la Theophile Roederer perché venne acquisita dalla Louis Roederer ai primi del 1900 ma la medesima, oggi, possiede e distribuisce un secondo marchio di Champagne che, con indovinata scelta, è etichettato Theophile. La storia di name rustler più significativa ce la racconta Forbes e ha a che fare con la Great Western Wine Company di Hammondsport, nello stato di New York, che produceva ottimi spumanti ma aveva un nome e un indirizzo con poco appeal. Per loro fortuna l’America era ancora una nazione giovane e malleabile, tanto che i dirigenti della compagnia riuscirono a convincere l’U.S.Postal Service che le caratteristiche vinicole di Hammondsport erano uguali a quelle di Reims e che, in fondo, era pratica comune dare nomi europei alle città americane: New York non nasceva forse come New Amsterdam? Così fu creato un nuovo toponimo e nacque, giusto a fianco dell’azienda, l’ufficio postale di Rheims, New York. Adesso che l’indirizzo era al di sopra di ogni sospetto occorreva un nome. A questo pensò una delegazione aziendale, partita per la Francia in cerca d’ispirazione. Ispirazione prontamente trovata quando una vedova, in cambio di una sontuosa pensione, si rese disponibile al trasferimento negli Stati Uniti. E non è un caso che la simpatica vecchina facesse di cognome Pommery. Nel 1880 prese forma la Maison Pommery di Rheims, New York. What else? Lo Champagne esiste? È il momento di fare una riflessione. Sono passati più di 150 anni dai tempi di Filippo d’Orleans e dei suoi petit soupers, cioè da quello che potremmo definire come il debutto in società dello Champagne; dalle 300.000 bottiglie prodotte del 1785 si è arrivati ai 20 milioni del 1870, eppure il nostro amato vino non ha ancora un’identità. Tra le varie spiegazioni possibili, la più semplice è che di questa identità non ne avesse proprio bisogno. Le vendite andavano bene, il successo era assicurato in tutti gli ambienti importanti, le grandi Maison mettevano via capitali da reinvestire con i quali compravano non solo vigneti e cantine, ma accumulavano notevoli patrimoni immobiliari e finanziavano varie attività, sostenendo candidati politico o impegnandosi nel sociale. Ancora non esisteva una visione collettiva dello Champagne, ogni Maison pensava agli affari propri, magari stringendo alleanze con altre case, ma sempre nell’ottica del business. Il primo organismo collettivo, il Syndicat du commerce des vins de Champagne, fu fondato nel 1882 e arrivò a comprendere una sessantina di aziende; nonostante tutto aveva ancora una visione elitaria, e poi, come accennato in precedenza, fino al 1860 non si usava l’appellativo “Champagne” in etichetta ma soltanto il nome della Maison. Gli affari erano appannaggio di un élite aristocratico borghese che, sebbene sovente fosse illuminata, non aveva interesse a costruire un brand che poi andasse a vantaggio anche di tutti gli altri. Per non parlare dei contadini i quali, sebbene rivalutati dalla Rivoluzione Francese, erano ancora una maggioranza silenziosa in balia del mercato e delle annate. Non esisteva ancora una zona delimitata e una legislazione protettiva, quindi quando l’annata era scarsa le Maison, non essendo vincolate ad acquistare uve in zona, poi dipendenze ché a causa della penuria sarebbero state piuttosto costose, andavano a comperare uva in altre regioni della Francia a prezzi più bassi. Certo la qualità sarebbe stata inferiore, ma con i dosaggi zuccherini di allora il gusto si aggiustava sempre. Chi in tutto questo regolarmente ci perdeva erano i vigneron, costretti a svendere la poca uva raccolta con i conseguenti problemi economici-sociali e le situazioni di vera e propria carestia. Con un poco di zucchero… Quale tipo di Champagne si beveva all’epoca? Tomes ci ha aiutato descrivendo, a modo suo, gli spumanti che arrivavano negli Stati Uniti, ma l’imperativo, fino alla fatidica annata 1874 (vedremo poi perché fatidica) era: “facciamolo dolce!”. Infatti, i dosaggi zuccherini erano decisamente alti, parleremo dei valori più avanti, nella sezione riservata all’evoluzione del gusto, ma è sufficiente sapere che i più secchi degli Champagne di allora, sarebbero stati tra i più dolci dei giorni nostri. Con due importanti conseguenze: intanto non era necessario produrre vini base eccelsi, poiché il sapore dolce avrebbe reso impercettibili tanto i difetti quanto le qualità del vino e della vinificazione, e poi tutto quello zucchero avrebbe agito da conservante, elemento fondamentale in tempi in cui lo stoccaggio e i trasporti non erano ancora a temperatura controllata. La conservazione era così garantita che non c’è da sorprendersi se oggi possiamo bere bottiglie di Champagne prodotte a metà del 1800. Non è cosa da tutti i giorni ma a qualche fortunato è accaduto. Attenzione, non vorrei far credere al lettore che lo Champagne dell’epoca fosse una sorta di brodaglia per ricconi dai gusti elementari. Lo stesso Tomes, descrivendo gli Champagne degustati a Reims, ne sottolinea la finezza, pur facendo accurate distinzioni su alcuni che, tarati per il mercato russo, non erano proprio un capolavoro di raffinatezza, dando inoltre consigli ai degustatori validi ancora oggi: come evitare il botto alla stappatura, non berlo troppo freddo e possibilmente in bicchieri allungati. L’innovazione è donna In questo periodo due fondamentali novità diedero una netta sterzata al modo di fare Champagne. Prima di tutto bisognava risolvere uno dei problemi causati dalla fermentazione in bottiglia, il fondo. Le filtrazioni e i travasi non brillavano per efficienza! Così, volte, ci si trovava con due dita di fanghiglia verdastra sul fondo della bottiglia, deposito che al minimo movimento avrebbe dato allo Champagne un aspetto e una consistenza simili a quelle di un frullato. Pertanto era indispensabile travasare lo Champagne in altre bottiglie prima della vendita; ma la pratica di stappare bottiglie, versare lo Champagne in un altro contenitore e tapparla, oltre che lunga, tediosa e dai risultati imperfetti, faceva perdere effervescenza, cosa gravissima in un mercato dove la quantità di bollicine era il valore principale. Si doveva fare di meglio. La soluzione si trovò il giorno in cui alla Maison Clicquot arrivò un ordine (dalla Russia, ovviamente) troppo grosso da soddisfare in tempo. Per la dinamica Nicole-Barbe Clicquot non esisteva la parola impossibile. Allora immaginò che se avesse avuto la bottiglia a testa in giù, con i depositi concentrati sul tappo, sarebbe stato facile eliminarli semplicemente stappando con destrezza la bottiglia. La pressione del gas avrebbe spinto via il deposito insieme al tappo senza perdere più di tanto l’agognata effervescenza. Ma come far andare i depositi in quella posizione poco ortodossa? Ecco l’invenzione del remuage: le bottiglie, che rimanevano orizzontali per tutta la durata della fermentazione, furono messe in una sorta di tavole bucate chiamate pûpitre (ma al tempo erano proprio dei tavoli di legno su cui erano stati fatti dei buchi) e, ogni giorno, venivano scosse, ruotate e inclinate leggermente. Nel giro di un paio di settimane le bottiglie prendevano una posizione verticale e i depositi finivano concentrati nel collo, proprio come aveva pensato Madame Clicquot. Questo metodo, inventato nel 1816, è rimasto sostanzialmente lo stesso fino ad oggi. L’unica differenza è che nelle Maison di medie-grandi dimensioni, il lavoro umano di girare e inclinare la bottiglia è fatto da macchine chiamate gyropalette. A questo punto lo Champagne Clicquot era limpido e gli altri no, visto che, almeno per qualche anno il segreto del remuage fu tenuto nascosto. Chi rosicava di più era il concorrente acerrimo della vedova, Jean-Rémy Moet il quale, come si legge in alcune sue lettere, non reputava lo Champagne un lavoro da donne, lasciandosi andare a giudizi poco lusinghieri sulla signora Clicquot. Ma si sa, una sana concorrenza è fondamentale per lo sviluppo degli affari e la nuova tecnica, una volta scoperta, riuscì a stimolare altri produttori a migliorare i vini e mettere in vendita bottiglie dalla trasparenza adamantina, con grande beneficio per i consumatori. Intanto un’altra innovazione epocale si stava preparando. Brut Del gusto dolce imperante se ne è parlato diffusamente ma, seppur gradito ai più, non riusciva a soddisfare appieno i palati inglesi, che erano i più competenti e raffinati. Qualche importatore chiedeva Champagne secchi, incontrando la reticenza dei produttori, combattuti tra la possibilità di essere i primi ad avere un prodotto innovativo e il rischio che il risultato finale non incontrasse i gusti del pubblico. Tutto questo senza fare i conti con un’altra donna dello champagne: Louise Pommery, più giovane di madame Clicquot e ugualmente vedova. Come tutte le donne dell’epoca (e spesso anche di oggi), doveva fare molto di più dei colleghi maschi per emergere e non essere divorata dai caimani commerciali del tempo. Così, quello che per tutti sarebbe stato un rischio, cioè la produzione di uno Champagne secco, per lei diventò un’opportunità e, intorno al 1870, s’imbarcò nella rischiosa avventura. Grande cura del vigneto, selezione minuziosa dei grappoli migliori, vendemmie anticipate… qualcosa però non funzionava. Le vendemmie erano di qualità non perfetta e i vini erano troppo magri e acidi per fare a meno dello zucchero. Ma Louise era determinata e convinta della sua idea e, quando la vendemmia 1874 si preannunciò come una delle migliori del secolo, l’esperienza accumulata negli anni precedenti permise di produrre il primo Champagne Brut. Pommery Nature 1874, dichiarato “sans liqueur”, equivalente a un attuale (e non comune) Pas Dosé, sarà una pietra miliare nella storia dello champagne. Costoso e richiestissimo trasformò in breve la piccola Maison uno leader del mercato e, da quel momento, nessuno più si nascose dietro residui zuccherini esagerati. L’uva e il vino figli dello straordinario terroir della Champagne prenderanno il sopravvento dando un nuovo significato alla parola qualità. Abbiamo corso un po’ in avanti nel tempo per seguire la storia diqueste due donne. Facciamo però un passo indietro per dare un occhio alla situazionepolitica. Napoleone III, il ritorno La Restaurazione successiva al congresso di Vienna non ebbe vita lunga: troppi ideali, per quanto grezzi, si muovevano tra i popoli e c’era sempre qualcuno pronto a incanalare queste energie a suo beneficio. Nel 1848 buona parte dell’Europa fu scossa da moti rivoluzionari e nemmeno la Francia ne fu esente. Crollò il vecchio regime e alle elezioni vinse Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone Bonaparte che, in 4 anni, ripercorrendo le orme del più prestigioso zio, con un colpo di stato rovesciò il governo e si proclamò Imperatore con il nome di Napoleone III. Personaggio complesso, dittatoriale e populista, anti liberale ma liberista, con le sue politiche consentì alla grande industria, alla proprietà terriera e all’alta finanza di arricchirsi sempre più. Sorsero le grandi banche, la ferrovia si sviluppò in modo incredibile, le industrie prosperarono e… si sa, quando si è circondati dal benessere materiale viene poca voglia di fare la rivoluzione. Che importa se la libertà era solo commerciale? Tornando al nostro argomento, provate a pensare alla quantità di bottiglie di Champagne stappate in feste e celebrazioni, spesso legate agli affari, che si susseguivano a ritmo continuo! Un bicchiere di Champagne in mano era pressoché obbligatorio in certi ambienti e situazioni. La congiuntura non era poi male, ma non poteva durare a lungo. Prima un paio di scivoloni con l’incerta guerra di Crimea e una specie di colpo di stato in Messico (sì, proprio in Messico), finito malissimo, per mettere sul trono il duca di Lorena; poi la conseguente opposizione politica perché, alla fine, qualcuno si era stufato del bavaglio alla stampa e di una certa attitudine del governo a calpestare i diritti civili elementari. Anche gli imprenditori non riuscivano più a spremere denaro da un liberismo troppo selvaggio. Così, il poco sagace Napoleone pensò di acquistare consensi con una bella guerra, seguendo il consiglio della moglie, l’imperatrice Eugenia che ebbe a dire: “ ”. Se non si fa la guerra, mio figlio non sarà mai Imperatore! La storia, però, racconta che non fu una grandissima idea quella di dichiarare una guerra pretestuosa alla Prussia, nazione molto ben preparata in fatto di conflitti e guidata da uno che la sapeva lunga, il cancelliere Otto Bismarck. Dalla realpolitik alla Belle Époque La Francia, com’era pronosticabile, le prese di santa ragione, subendo, dopo soli 3 mesi di guerra, la sconfitta decisiva a Sedan. Interessa però anche un’altra questione: sulla strada tra la Germania e Parigi, dove le truppe prussiane marciavano, c’era la zona dello Champagne e l’esercito, non certo a malincuore, occupò Reims ed Épernay, razziando le preziose bollicine, oltre a bloccare ogni attività commerciale. Le conseguenze? Ferrovie distrutte, esportazioni ferme e una notevole incertezza politica: le vendite calarono di oltre il 50% e ci si trovò vicini al collasso. Dopo le trattative di pace con Bismarck, che non si fece mancare niente, (chiese 5 miliardi di franchi d’oro, le regioni dell’Alsazia e della Lorena, oltre il mantenimento di un esercito di occupazione) ne uscì una Francia decisamente ridimensionata; contemporaneamente si assistette alla nascita dell’Impero Tedesco, una potente macchina da guerra con un forte dominio bellico ed economico sull’Europa. Il dopo Bismarck vide un continente discretamente stabile, permettendo allo Champagne di affermarsi all’estero. Ecco pochi numeri per farsi un’idea: nel 1868, su 15 milioni di bottiglie prodotte, 11 milioni andavano all’estero; nel 1890, su 25 milioni di bottiglie prodotte, 21 milioni approdavano in porti stranieri. Mentre i francesi per 20 anni avevano bevuto con costanza i loro 4 milioni di bottiglie all’anno, gli export manager di allora festeggiavano il raddoppio del fatturato. Se pensiamo che oggi più della metà dei 350 milioni di bottiglie prodotte rimane in Francia, si può dedurre che qualcosa, nel frattempo, sia accaduto. Ma lo vedremo poi. Insieme allo Champagne, era in fermento tutto il continente, compresa la Francia che, ripresasi dalla “cura Bismarck”, entrò nella sua Belle Époque. Parigi inanellò tre Esposizioni Universali una dietro l’altra… mica robetta, poiché in quella del 1889 si costruì la Torre Eiffel. Inoltre la tecnologia faceva passi da gigante: automobili, telefono, metropolitana di Parigi, Pasteur scoprì i vaccini e Marie Curie la radioattività. La nazione ferita e decaduta si rialzò in modo notevole, sorprendendo tutti e il cemento di questa rinascita, ossia ciò che non poteva mancare in qualsiasi occasione, dal matrimonio al varo di una nave, dal suggello di un affare all’incontro con un vecchio amico, era lo Champagne. Nel 1881 giunse un’altra svolta: il parlamento autorizzò con una legge l’affissione dei manifesti pubblicitari e il primo manifesto fu proprio la pubblicità di una Maison di Champagne, tale France-Champagne, che oggi non esiste più. Grandi artisti si cimentarono nell’arte del manifesto, producendo vere opere d’arte, mentre la creatività nel far parlare di sé non conobbe limiti. Mercier costruì la botte più grande del mondo e la trasportò da Épernay a Parigi facendosi una réclame esagerata, pur dovendo spendere un sacco di quattrini per comperare e demolire alcune case che stavano sul percorso e permettere all’enorme botte di passare. Fu un mezzo secolo veramente epico, raccontato con qualche necessario salto temporale, dove gli avvenimenti si sono susseguiti e accavallati. Abbiamo visto la fine dell’Impero Napoleonico, la nascita delle grandi Maison, il business che si ampliava, le intuizioni fondamentali di Nicole-Barbe Clicquot e Louise Pommery, l’effimera gloria di Napoleone III e del suo Impero, Bismarck, la Torre Eiffel, la Belle Époque, la nascita della pubblicità e, in mezzo a tutto questo, finalmente, fiumi di Champagne. Oramai si era affermato ovunque, non solo come simbolo, ma anche come vino elegante e piacevole, perfetto in ogni occasione. Sembrava fatta ma, come sempre, la storia aveva ancora in serbo molte altre sorprese… di cui i francesi avrebbero volentieri fatto a meno. Charles Heidsieck LO CHAMPAGNE ARRIVA IN AMERICA Pastori e gattopardi Parlando della Maison Charles Heidsieck, viene facile citare Tancredi, l’ambizioso nipote del principe di Salina che, nel Gattopardo, pronuncia la famosa frase: “ ”. Ma, se nel libro, il cambiamento era un modo per mantenere i propri privilegi cambiando bandiera politica, in Champagne il concetto era radicalmente diverso. Come abbiamo visto e come vedremo nel seguito, la storia dello Champagne si sviluppò attraverso cambiamenti epocali. Ciò che rimase “com’è” fu il mito, la sensazione unica nel bere Champagne. I tempi e le persone però cambiano e la stessa percezione del mito è soggetta a mutazioni. Uno Champagne prodotto oggi con lo scopo di avere le stesse caratteristiche di uno dei primi del 1800 sarebbe una curiosità, ma non darebbe particolari sensazioni: troppo distante dai nostri gusti e dalla nostra idea. Ben diverso sarebbe bere una bottiglia originale di due secoli fa, ma non accade spesso… Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi A casa Charles Heidsieck il cambiamento fa parte del DNA, a partire dalle origini. Florenz Louis Heidsieck, figlio di un pastore luterano della Westfalia, fondò a Reims, nel 1785 la Heidsieck & Co. che si occupava di vini e tessuti. Questo perché l’attività davvero remunerativa era il commercio di tessuti, articolo per cui Reims era famosa, mentre il vino era ancora un limitato tentativo di differenziare. Ma lo Champagne attirava e così, dalla Germania, chiamò il nipote Charles-Henry Heidsieck a dargli una mano. Con notevole intraprendenza lo “mise a bottega” mandandolo, nel 1811, a inseguire gli eserciti di Napoleone in Russia con una carrozza carica di Champagne. L’idea era che, chiunque avesse vinto la guerra, avrebbe avuto bisogno di Champagne per festeggiare, quindi meglio farsi trovare pronti. Etichetta dello Champagne Heidsieck del 1859. Quasi quasi mi metto in proprio Nel 1818 però lasciò l’azienda dello zio per mettersi in proprio a trafficare con i tessuti. Il figlio, Charles-Camille Heidsieck, dopo la morte del padre andò a lavorare per qualche anno dallo zio e si accorse di avere un certo “tocco” nel fare Champagne. Così, nel 1851 sposa Amélie Henriot, rampolla di un’altra famosa Maison di Champagne e, unendo le forze diedero vito alla Maison Charles Heidsieck. Intanto alla morte dello zio la Heidsieck & Co. fu spartita tra due nipoti, cugini di Charles che, a loro volta, diedero il via a due Maison ancora ben attive: Piper-Heidsieck e Heidsieck Monopole & Co. Già allora i cambiamenti erano all’ordine del giorno. Ma dal 1851 iniziò la storia di Charles-Camille Heidsieck o, forse, è meglio dire il romanzo. Sì, perché Charles era bravo a fare Champagne ma, pur portando un cognome abbastanza famoso, si accorse che non era altrettanto facile venderlo. Moltissime Maison sorsero in quegli anni, inondano il mercato europeo di bottiglie consumate soltanto da alta borghesia e nobiltà. Charles maturò un’idea che poteva sembrare sconsiderata: attaccare il mercato americano. Non che nei neonati Stati Uniti non ci fosse disponibilità di Champagne ma non erano mai state fatte grandi azioni pubblicitarie da parte delle aziende produttrici: tutto era in mano agli importatori. La conquista dell’America Charles, nel 1857, fu il primo produttore di Champagne ad arrivare in America: il fatto di presentarsi di persona gli fece avere un successo incredibile. Gli americani non volevano solo bollicine ma, come ogni cliente che si rispetti, volevano anche storie. E Charles, che parlava benissimo l’inglese, di storie ne aveva a bizzeffe. Elegante, grande conversatore, sempre a suo agio in tutti gli ambienti, tombeur de femmes (si dice) con il suo baffetto da sparviero, diventò una celebrità. Nel corso dei numerosi viaggi fatti oltreoceano i giornali pubblicavano notizie sugli eventi a cui lui era presente. Poi aveva una dote che per un americano di quei tempi (anche di oggi), era fondamentale: una mira micidiale. Grande appassionato di fucili ed eccellente tiratore, ebbe, anche per quello, molta popolarità nel paese che poi darà origine alla National Rifle Association. Tutto sembrava sorridere a Charles: gli affari andavano benissimo, ridendo e scherzando (nemmeno troppo metaforicamente) riuscì a portare oltre l’Atlantico circa 300.000 bottiglie l’anno, almeno fino al 1860 quando, Abramo Lincoln, appena eletto presidente, decise, meritoriamente, di abolire la schiavitù. Gli stati del sud, grandi coltivatori di cotone, vivevano letteralmente sul lavoro degli schiavi, che ne rappresentavano quasi la metà della popolazione. Non presero per niente bene l’iniziativa, forse anche fiduciosi che l’Europa, avida consumatrice del loro cotone, avrebbe sostenuto la causa. Così il 12 aprile 1861, con l’attacco di Fort Sumter, iniziò la Guerra di Secessione che portò battaglie e morti per ben 4 anni. Nordisti e Sudisti, una cosa seria Per Charles si mise veramente male: vennero bloccati tutti i pagamenti tra gli stati del nord, appartenenti all’Unione e gli stati confederati del sud. Per cercare di salvare il salvabile si imbarcò subito per New York, dove il suo agente, pur facendo tante promesse mai mantenute, non gli fece vedere il becco di un quattrino. Ma Charles, uomo d’azione, non si perdette d’animo e, con in mano l’elenco dei clienti, si mise in viaggio per l’America in guerra cercando di recuperare qualche pagamento. E ci riuscì mettendo assieme due navi cariche di balle di cotone che, rivenduto in Francia, avrebbe messo a posto i conti. Le due navi, ahimè, verranno affondate dall’esercito confederato. Oramai la guerra infuriava e Charles non aveva più speranze di recuperare soldi: doveva solo pensare a mettersi in salvo! Progettò di scendere lungo la costa verso New Orleans, cercò un imbarco per Cuba e, da lì, tentò di tornare in Europa. Ci mancava anche questa Per semplificare le cose il console francese a Mobile, città sudista, gli fornì un salvacondotto, insieme ad alcuni documenti da consegnare a New Orleans. Solo che quando Charles arrivò a New Orleans la città era caduta nelle mani dell’unione, i cosiddetti nordisti. Venne fermato dal generale Butler, simpaticamente soprannominato dai suoi soldati “Butler la bestia”, che si prese la briga di leggere i documenti che Charles portava con sé, i quali contenevano un’offerta francese per fornire uniformi all’esercito confederato (i sudisti), quindi i nemici. Butler, che non era un tipo riflessivo, immediatamente accusò Charles di spionaggio e lo sbatté nella prigione di Fort Jackson, in Louisiana, una specie di lager alla foce del Mississippi, tra topi, serpenti e insetti, dove il nostro amico restò per sette mesi. L’incidente diplomatico sarà superato grazie all’interessamento di Napoleone III e Abramo Lincoln i quali, contro la volontà di Butler desideroso di veder marcire Heidsieck in galera, lo faranno liberare. Charles tornò in Francia senza un soldo, aggredito dai creditori e oramai sulla strada del fallimento. Ci sarebbe stato da disperarsi a lungo ma, nel 1863, ricevette un plico da parte del fratello del suo truffaldino agente a New York, il quale, in punto di morte, offrì a Charles in segno di risarcimento i diritti di proprietà di alcuni terreni in un paesino del Colorado, pieno di saloon, bische ed empori per minatori. Happy ending Sul momento non sembrò nulla di eclatante, se non che il paesino, si chiamava Denver, e divenne in pochi anni una città ricca e popolosa. Vendendo i terreni, Charles pagò i debiti e rilanciò l’attività. In pochi anni riuscì a tornare tra i grandi produttori, acquistando anche un buon numero di crayeres, cioè le cantine scavate dai romani, proprio davanti a Pommery e Ruinart che ancora oggi conservano le bottiglie in affinamento. La storia romanzata non finisce qui. Il nipote, Jean-Charles Heidsieck, diventò espertissimo nel vendere Champagne ai contrabbandieri canadesi durante il Proibizionismo, poiché il mercato americano rimaneva sempre uno dei più floridi. Gli Heidsieck cedettero l’azienda alla famiglia Henriot, in una sorta di ritorno alle origini, alla fine degli anni ’70. Henriot, nel 1985 vendette al gruppo Rémy-Cointreau e da questo momento ci fu un altro cambiamento che alimenterà ulteriormente il mito. Un progetto ambizioso In quegli anni, la Maison Charles Heidsieck produceva un buon prodotto ma non era ancora considerata tra le eccellenze. La nuova proprietà, per prima cosa, si accorse che nell’azienda appena acquistata lavorava uno Chef de Cave dalle indubbie capacità. Daniel Thibault. Allora per lui si materializzò un sogno, quello di produrre l’eccellenza assoluta nello Champagne. Daniel, per prima cosa, iniziò ad accumulare vini di riserva: gli assemblaggi si fanno con uve di diverse annate, quindi conviene mettere via quelle migliori. Nei primi anni ‘90 iniziò a sfornare Champagne decisamente fuori dagli schemi: complessi, ricchi, vinosi ma allo stesso tempo piacevoli e dalla longevità sorprendente. Iniziarono ad arrivare premi sia allo Champagne sia a lui, che vincerà più volte il trofeo di Winemaker of the Year al Wine Challenge di Londra, il riconoscimento più importante in assoluto. Daniel Thibaut, purtroppo, morirà nel 2002, decisamente troppo presto! Al suo posto subentrò Regis Camus, suo braccio destro per molti anni, che continuerà a mietere successi, anche lui come Winemaker of the Year per ben cinque volte. Insieme a Thierry Roset, nel 2012, cambiò radicalmente l’assemblaggio, dimezzando il numero dei vini utilizzati, da 120 a circa 60, mantenendo però lo stesso stile grazie a un massiccio impiego di vini. Oggi alla guida c’è la famiglia Descours, mentre lo Chef de Cave è Cyril Brun. Mi sono dilungato su Charles Heidsieck perché è un raro caso di Maison di Champagne che ha intrapreso più volte la strada del cambiamento, dimostrando che non è un mondo granitico, arroccato sulle proprie certezze, ma esiste il rischio e la voglia di anticipare i mercati. Durante le chiacchierate con Cyril e Stephen Leroux, il direttore, abbiamo ricostruito la storia di una Maison che, pur avendo alle spalle una storia ricca e variegata, non ha avuto continuità, anche per i molti passaggi di proprietà. Oggi produce degli Champagne che sono il frutto di un progetto, iniziato nel 1985 e che può dirsi concluso nel 2012, anno di uscita della nuova cuvée. Non è facile, non è per niente facile Fateci caso, ci sono voluti 27 anni di lavoro e investimenti notevoli per arrivare a produrre uno Champagne che ben figura tra i più grandi. Non bastano i soldi e la competenza, il tempo e l’esperienza giocano un ruolo fondamentale e non vi è nulla in quel gusto e in quello stile che sia uscito per caso. Però sorge una domanda: se il gusto Charles Heidsieck è stato, per così dire, riprogettato negli anni ‘80, che legame ha con la storia? E qui torniamo all’inizio del capitolo, ricordate? “ ”. Ecco perché la Maison ha deciso di reinventare un gusto. Charles non è mai stato uno Champagne di massa, quello che potevi trovare dovunque, ma si indirizzava a un consumatore legato al marchio e all’aura un po’ leggendaria del personaggio. Non si ordinava nei ristoranti bene di Boston o negli speakeasy di New York solo perché era buono e anche un po’ diverso dalla media, ma ricordando anche le avventure di Charles-Camille Heidsieck. Oggi il prodotto ha un gusto sicuramente non paragonabile a quello di allora, ma lo stile è il medesimo: si beve Champagne Charles Heidsieck perché, oltre a essere di qualità e originale, fa pensare a un avventuriero un po’ dandy che ha rischiato la vita per il suo Champagne. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, tutto deve cambiare 1 1 Nome dato ai locali che vendevano illegalmente bevande alcoliche durante il Proibizionismo