La storia...Tra realtà e leggenda Pericolose minacce LO CHAMPAGNE APPESO A UN FILO Il nemico sotterraneo L’alba del XX secolo si annunciava radiosa: la tecnologia aveva fatto passi da gigante cambiando la vita delle persone, il denaro, diventato abbondante grazie all’industrializzazione, iniziava a vivere di vita propria creando quella specie di mostro che è la finanza, mentre lo Champagne mieteva successi ovunque. Ma quello che non era riuscito ad Attila, allo Zar e al cancelliere Bismarck, cioè distruggere, più o meno volontariamente l’ecosistema dello Champagne, stava per riuscire a quello che sembra un piccolo e insignificante insetto: la Filossera. Arrivato in qualche modo dall’America, la Daktulosphaira vitifoliae, meglio nota appunto come Fillossera, è un piccolo afide che conduce il suo complesso ciclo vitale principalmente sulle radici della vite, danneggiandole in modo irreparabile e portando la pianta a morte certa nel giro di 3 anni. Nel 1863 comparve per la prima volta in Europa ma, all’inizio, non ci si diede troppa preoccupazione, confidando nella chimica, in quegli anni particolarmente cruenta e si scoprì che il letale afide della chimica se ne faceva un baffo, continuando non solo a resistere a tutte le venefiche pozioni cui era sottoposto, ma espandendosi a macchia d’olio nel vecchio continente e tenendosi per ultimo il boccone più prelibato, la regione francese della Champagne. Nel 1890, quando alcuni speravano già di averla scampata, la fillossera fece la sua prima comparsa in Champagne e da quel momento iniziò una nuova lotta, non più contro gli eserciti, ma contro un nemico subdolo e sfuggente. Se le guerre precedenti erano state affare di stato, ora la battaglia era tutta nelle mani del popolo champenois! E, come spesso accade, l’equazione crisi=opportunità, trovò una soluzione dalle implicazioni inaspettate. Il problema della fillossera interessava tutti, contadini e Maison poiché la distruzione totale del vigneto avrebbe azzerato l’economia della zona. Ma i vigneron, pur conoscendo tutte le problematiche del vigneto, non avevano mezzi e capitali per combattere il nemico. Unire le forze sarebbe stata la soluzione più logica. Infatti, quando il 6 agosto 1890, in un vigneto di Treloup, fu scoperto il parassita, la Maison Moët & Chandon acquistò tutte le parcelle infestate per studiare le contromisure. Contemporaneamente i proprietari delle maggiori Maison si riunirono per sviluppare l’idea di un’associazione nella lotta contro la malattia. Associazione aperta anche ai contadini. Idea del tutto logica, che si concretizzò nel 1891 con la creazione del Grand Syndicat Anti Phylloxera. La strada non fu in discesa. For t Chabrol, laboratorio di ricerca e scuola di viticultura. Complotto, o forse no… Bastò poco perché gli animi esasperati di molti vigneron, fino ad allora completamente dipendenti dalle Maison, iniziassero a sospettare che il sindacato avesse secondi fini. Alcune frange complottiste arrivavano al punto di affermare che la fillossera fosse stata un’invenzione dei padroni per sottomettere ulteriormente il popolo. Altri ne ammettevano sì l’esistenza, ma erano convinti che ci fossero untori a diffonderla di nascosto con finalità destabilizzatrici. Molti criticarono le contromisure messe in atto e, anche quando si trovò la soluzione finale, cioè l’innesto delle viti europee su gambi americani, immuni al parassita, non furono pochi quelli che si opposero. Nel 1896 il Grand Syndicat Anti Phylloxera, ormai delegittimato e inutile, si scioglie ma portò un risultato inaspettato: nella lotta contro il sindacato delle Maison i contadini, forse per la prima volta, iniziano parlarsi, a far fronte comune, a porsi come forza unita seppur ancora poco organizzata. E questo rappresentò un cambio degli equilibri, dove la trattativa tra grande produttore e singolo contadino - che ovviamente vedeva sempre vincere il primo - si sarebbe spostata gradualmente verso un dialogo (non sempre pacifico) tra due gruppi di pari forza. Fort Chabrol Però da quel momento erano di nuovo tutti soli, soprattutto i vigneron che dovevano combattere una lotta impari con il nemico sotterraneo, almeno fino al 1898, quando un gruppo di illuminati fondò l’Association Viticole Champenois, la prima vera entità interprofessionale capace di fare dialogare Maison e vigneron. I risultati non si fecero attendere: nel 1900 la Maison Moët, attraverso l’opera di Raoul Chandon de Briailles, creò Fort Chabrol, un laboratorio di ricerca e scuola di viticultura specializzato nell’insegnamento delle tecniche d’innesto, un percorso utilissimo a molti contadini. Gli scopi dell’A.V.C. erano legati alla lotta alla fillossera e alla ricostituzione del patrimonio viticolo, perché è bene ricordare che, nell’arco di circa 20 anni tutti, ma proprio tutti i vigneti della Champagne, escludendo qualche rara parcella, erano stati estirpati e ripiantati con viti a piede americano. Ne derivò anche un inevitabile calo di produzione e di vendite, parzialmente ammortizzato con interventi e sovvenzioni di vario tipo. Una volta debellata l’epidemia l’A.V.C. avrebbe perso qualsiasi utilità ma, poiché il sistema funzionava e i contadini avevano preso gusto a dialogare (non solo di parassiti), nel 1904 nacque la Federation des Syndicats de la Champagne e, per la prima volta, ci fu un’entità che rappresentava il “Vigneto”. I sindacati e le frodi Ora ci sono due forze in campo, la Federation, di cui sopra, e il Syndicat du Commerce des vins de Champagne, fondato nel 1884, che riuniva tutte le Maison. Il primo incontro-scontro avvenne quando la Federation dei vigneron si sedette a un tavolo per contrattare il costo delle uve. Se prima le Maison avevano gioco facile nel fare il prezzo delle uve, per loro natura deperibili e da vendere in fretta, usando il metodo “se non me le vendi tu le comprerò da un altro”, ora si trovavano qualche ostacolo in più. Non ci fu uno scontro cruento, fortunatamente il mercato dello Champagne era florido e si trovarono gli accordi necessari. Ma, oramai, sia sa che tra i vigneti non c’è mai pace e battuto il parassita entomologico, era iniziata la lotta contro i parassiti umani. Sì, perché lo Champagne era un grande business e, in mancanza di una legislazione completa, chiunque poteva adescare consumatori ancora sprovveduti e spacciare loro come Champagne il più disgustoso dei frizzantini, con guadagni non da poco. Ben diversa era la posizione dei (citati nel capitolo precedente) che, pur appropriandosi, ai margini della legalità, di un nome famoso, comunque producevano Champagne di buona qualità. Tutto in contrapposizione a un piccolo universo di produttori francesi, svizzeri, tedeschi, americani che “creavano” vere e proprie brodaglie dove l’utilizzo dell’uva era incidentale, mentre succo di mela, barbabietola e rabarbaro andavano per la maggiore, uniti ad additivi e correttori che rendevano gasato e bevibile il prodotto. name rustler Si calcola che a cavallo del secolo, circa 12 milioni di bottiglie all’anno fossero di Champagne vergognosamente falso. Il che, su una produzione media di 40 milioni di bottiglie era una percentuale altissima. È tempo di cambiare Era necessario definire la denominazione Champagne una volta per tutte, gli interessi però erano contrastanti. Alle grandi Maison importava poco, loro vendevano perché si chiamavano Chandon, Clicquot, Roederer, Heidsieck. Alle piccole aziende interessava relativamente, avendo spesso una clientela abbastanza fedele, ma per i vigneron era questione di vita o di morte. In aggiunta le annate tra il 1889 e il 1909 furono scarse, la popolazione dei contadini era in ginocchio. Fu la vendemmia del 1910 a dare il colpo di grazia, con una perdita del 96% del raccolto. Una vera carestia, aggravata dal fatto che, in mancanza di regole, le Maison non avevano alcun vantaggio a comperare uve in zona, visto che la scarsità le rendeva più costose ed era molto più profittevole acquistare uva a prezzi stracciati in giro per la Francia, per poi farle arrivare a Reims grazie alle efficienti ferrovie volute da Napoleone III. Questione di geografia La situazione era delicata e complessa. Per capire ciò che stava per accadere, occorre conoscere meglio la zona della regione Champagne. Alla fine del 1800 le macro-aree della Champagne erano essenzialmente tre: la Marna, che comprendeva Vallée de la Marne, la Montagne de Reims e la Côte des Blancs, l’Aisne, che è un prolungamento a ovest della Vallée de la Marne, e l’Aube, una cinquantina di chilometri più a sud, dove si trova Troyes, capitale storica del dipartimento. Praticamente, tutti i produttori di Champagne avevano sedi e cantine nelle prime due zone e da esse acquistavano la maggior parte delle uve; ma l’Aube era comunque una parte storica della Champagne, le uve erano di qualità comparabile, costavano anche meno, e venivano parimenti utilizzate. Tutto rimase tranquillo fino a che lo Champagne restò una bizzarria enologica e un prodotto di nicchia. Tutti campavano vendendo uve e vino, poiché la produzione di un vino fermo non richiedeva particolari attrezzature o investimenti. Lo Champagne però, era destinato a diventare l’unico business a discapito di tutto il resto. A questo punto non c’erano alternative: bisognava salire sul treno delle bollicine, in qualità di fornitore di uve, contadini, cantinieri o qualsiasi altra mansione, oppure la lotta per la sopravvivenza si sarebbe fatta durissima. Ecco spiegato l’interesse capitale mostrato dai contadini dell’Aube nell’essere inseriti nella zona dello Champagne; d’altronde Troyes era la capitale morale del dipartimento e, storicamente, le tre zone avevano sempre fatto parte di un’unica entità. Di diverso avviso i vignaioli de La Marna che non vedevano di buon occhio la concorrenza, perché la linea di demarcazione tra carestia e sopravvivenza era molto labile e bastava una lieve flessione nel prezzo delle uve (il più delle volte causato dall’abbondanza delle medesime) per costringere le famiglie di contadini a saltare i pasti. Dati sorprendenti se pensiamo che oggi 1 kg di uva, da quelle parti, si vende a circa 5 euro, per una resa di 114 quintali/ettaro nel 2015 e, l’ettaro in questione, ammesso e non concesso che sia in vendita, non passerebbe di mano per meno di un milione e mezzo di euro! Erano comunque altri tempi e le due fazioni non si vedevano di buon occhio: i Remois accusavano i contadini del “sud” di produrre uva indegna per lo Champagne, mentre gli Aubois accusavano di criminale avidità i cugini del “nord”. Piove, governo ladro! Siamo nel periodo della cosiddetta Terza Repubblica francese, che, dopo il tracollo della guerra franco-prussiana, cercava di rimettere in sesto la Francia, facendo però i conti con una pesante instabilità di governo, dovuta alle maggioranze risicate, agli scandali e a scelte poco felici, precarietà che fece cambiare ben 11 governi in 5 anni. Tutto ciò impediva una serena legislazione, soprattutto per l’argomento Champagne. In sostanza occorreva una legge per contrastare i problemi delle frodi, legge che tardava ad arrivare, ma di cui c’era grande bisogno per evitare un fermento popolare che sarebbe stato molto pericoloso. Nel 1905 si firmò una legge anti contraffazione, con punizioni drastiche per i contraffattori ma… con pochissime regole per stabilire cosa fosse contraffatto. Nel 1907 si formò una commissione governativa con il compito di delimitare l’area incriminata. Il 17 dicembre 1908, il consiglio di stato promulgò il decreto legge che definì i confini delle aree di produzione. Di fatto la Champagne è la prima regione viticola francese a essere designata per via amministrativa. In sostanza la legge diceva che la zona dello Champagne era composta dalla regione della Marna e da quella dell’Aisne. Nell’Aube non la presero molto bene. Altrimenti ci arrabbiamo Il malcontento iniziava a montare, favorito anche da vendemmie scadenti. Manifestazioni di piazza, sciopero fiscale, formazione di un sindacato indipendente e la tragica raccolta del 1910. A questo punto la protesta cominciava ad essere preoccupante. Le manifestazioni si susseguivano, arrivando dalle campagne fino a Reims e più di un capopopolo assunse il comando delle operazioni, infiammando gli animi verso una protesta tutt’altro che pacifica. Anche dall’altra parte, quella dei produttori, non si stava a guardare, perché le frodi continuavano, e per frode non si intendeva più solo lo Champagne fatto con il succo di pera, ma anche quello elaborato con uve dell’Aube, oramai territorio nemico. Ci si mise anche il “Libro nero degli assassini dello Champagne”, un libello scritto da un non precisato comitato, che faceva nomi e cognomi dei commercianti e produttori fraudolenti, senza risparmiare nessuno e, come accade in questi casi, senza essere sufficientemente documentato. Speciale livore era destinato ai maggiori produttori come Moët. Non mancava l’onnipresente complotto giudaico per distruggere l’economia francese, un classico dell’epoca (e non solo, purtroppo). Ovvio che la lettura, o anche solo il venire a conoscenza di questo testo, non avrebbe fatto altro che caricare ancora di più la polveriera che si andava formando. L’Aube era ormai in uno stato d’insurrezione, nella Marna correva voce che si stessero preparando attentati dinamitardi alle maggiori Maison. Il governo, tra un rimpasto e l’altro, doveva assolutamente fare qualcosa. Cronaca di guerra Alle 5 del mattino del 10 aprile arrivò a Reims un telegramma dove si diceva che il senato avrebbe rivisto, o forse eliminato, le delimitazioni viticole della Champagne. La miccia era accesa. Tra la notte del 10 aprile e la mattina dell’11 molte truppe, inviate dal governo, vennero schierate nelle zone calde e, come previsto, la guerra ebbe inizio. Aÿ divenne il paese fulcro della rivolta: folle di contadini inferociti si diressero verso i produttori considerati fraudolenti, rei di acquistare uve dall’Aube: non fecero fatica a trovarli, visto che sul “Libro nero” c’erano nomi e cognomi in abbondanza. Le botti furono aperte, il vino rovesciato a terra, molte cantine date alle fiamme. La protesta si espanse anche ai paesi più piccoli, pure donne e bambini collaborarono alla devastazione. Le cronache dei giornali dell’epoca riportano scene da tragedia, un commentatore scrisse: “non sono contadini, sono selvaggi!” Centinaia di ettari di vigneto distrutti, più di 6 milioni di bottiglie frantumate, migliaia di ettolitri di vino rovesciati nella Marna. Poi, nel pomeriggio del 12 aprile la situazione tornò alla calma, grazie all’operato dell’esercito, che pare sia stato molto efficiente, evitando l’inutile uso della forza. Non ci furono vittime, fu quasi un miracolo, ma altre conseguenze si fecero sentire, perché l’opinione pubblica francese fu molto critica su quei fatti. Caddero ben due governi, incapaci di risolvere una guerra fra contadini pressoché disarmati e la zona venne messa sotto occupazione militare. Circa 40.000 soldati si stanziarono dalle parti della Marna per garantire la pace, e molti rimasero lì, sposando donne del posto e diventando contadini a loro volta. La soluzione parziale si trovò considerando l’Aube una “seconda zona” dello Champagne, soluzione che, scontentando chiunque perlomeno evitò il riacutizzarsi degli stimoli insurrezionali, visto che rimasero tutti, in un modo o nell’altro, parte lesa. Era un modo, furbo, del governo per guadagnare tempo, nell’attesa di una legge definitiva. In quegli anni una serie di piccoli passi, uniti a vendemmie abbondanti che contribuivano ad alleggerire gli animi, sembrarono condurre al tanto agognato accordo. Ancora nel 1913 un nuovo tentativo di rivolta nell’Aube, al grido di: “Siamo nella seconda zona? Pagheremo tasse da seconda zona!”, spinse una commissione governativa a scrivere finalmente la legge che, nell’estate del 1914 arrivò al voto dell’Assemblea Nazionale Francese. Ma il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, erede al trono di Austria-Ungheria è assassinato a Sarajevo da un nazionalista serbo. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia e, per il gioco di alleanze in atto, la Russia si schiera con la Serbia. La Germania del kaiser Guglielmo, guerrafondaia come sempre e con il vizietto mai sopito di conquistare l’Europa, il primo agosto dichiara guerra alla Russia e il 3 agosto alla Francia, entrando nel conflitto. E’ iniziata la Prima Guerra Mondiale. Le truppe contro le rivolte del 11 aprile del 1911. Louise Pommery PRIMA DI TUTTO LA QUALITÀ Non solo understatement Andando a spasso per Reims, ma in generale per quella parte di centro-nord Europa figlia della riforma protestante, ci si accorge che gli edifici più antichi, le dimore nobiliari, le grandi ville, non lasciano trapelare informazioni sulla ricchezza e sui costumi del proprietario. Facciate austere, colori mimetici, alti muri di cinta che rendono invisibili i giardini e le attività all’interno. D’altronde una situazione del genere è inevitabile in una cultura che riteneva la ricchezza qualcosa di giusto, e per i calvinisti, addirittura un premio divino per la propria integrità morale, ma metteva in primo piano anche il lavoro, la sobrietà e Il risparmio. Ben lontani dallo sfoggio del benessere tipico di altri paesi e culture, non solo dell’epoca. Ma torniamo a Reims e percorriamo, in leggera salita, il Boulevard Henry Vasnier, piacevole viale alberato. A un certo punto ecco apparire le guglie di quello che sembra un castello, per poi arrivare a un grande incrocio dove, sulla sinistra, c’è davvero un castello! Dobbiamo dire che in mezzo all’austerità dei dintorni l’edificio lascia abbastanza perplessi. Per capire come abbia fatto una costruzione del genere a nascere qui bisogna andare indietro nella storia e conoscere una delle donne più influenti nella storia dello Champagne. Il registro della vendemmia di Pommery del 1900. Intraprendenza femminile Nel 1858, a 39 anni, dopo la morte del marito, Louise Pommery prese in mano le redini dell’azienda di famiglia, azienda che in quegli anni non doveva essere di particolare rilievo, visto che Tomes, nel suo mirabile reportage, non menziona nemmeno marginalmente la Maison Pommery, mentre fornisce esaurienti informazioni su tutte le altre grandi case dell’epoca, attorno al 1864-1865. A onor del vero è gusto sottolineare che in quegli anni l’azienda, e non era un caso isolato, si occupava di commercio di tessuti, oltre che produrre e vendere vini. Madame Louise aveva uno slogan e un obiettivo. Lo slogan era: “Prima di tutto la qualità”. Un concetto che oggi è usato in modo fin troppo esteso ma 150 fa, quando qualità e affari non andavano sempre a braccetto, era un messaggio forte, soprattutto visto che l’obiettivo, assai ambizioso, era di invadere l’Inghilterra con il proprio Champagne, sapendo che gli inglesi erano bevitori piuttosto esigenti. La cattedrale di Reims vista dalla Maison Pommery in una foto d’epoca. Chi non risica… Louise, per prima cosa, eliminò il ramo d’azienda di commercio di tessuti e la produzione di vini fermi, puntando tutto sulle bollicine. Sapeva anche che per piacere agli inglesi, non per nulla i primi consumatori seriali di Champagne, non contava solo il contenuto della bottiglia, ma bisognava collegare a essa un immaginario, cioè fare in modo che il nome della Maison, al tempo schiacciato tra i vari Möet, Roederer, Clicquot e altri, potesse essere riconosciuto e ricordato. Quindi, unendo pragmaticità e immaginazione, iniziò a costruire quella cosa strana, croce e delizia di chiunque voglia vendere un prodotto, che all’epoca non aveva nome ma in futuro si chiamerà “Marketing”! Ecco l’idea di acquistare l’ex discarica di Reims (probabilmente a buon prezzo) posta su una collinetta e, guarda caso, appoggiata sulle crayeres gallo-romane, la serie di profondi pozzi scavati nel gesso dove gli antichi ricavavano materiale da costruzione, e che si riveleranno fantastici per conservare il vino: merito delle qualità igroscopiche e isolanti del gesso, capaci di mantenere temperatura e umidità costanti. Bisognava costruirci qualcosa sopra, e Louise, innamorata dello stile inglese, si fece spedire da alcuni amici britannici i progetti delle loro dimore; ne colse i punti essenziali, si fece aiutare da un valente architetto e costruì un edificio tale che, nel 1878, all’inaugurazione, gli abitanti di Reims sgranarono gli occhi di fronte a tanta magnificenza. Lo scopo non fu quello di stupire solo i compaesani ma principalmente i clienti che, visitando i chilometri di crayeres millenarie perfettamente restaurate e osservando la razionalità del processo produttivo, difficilmente avrebbero dimenticato il nome di Pommery. 1 Inoltre fu uno dei primi casi in cui l’azienda non puntò solo sul profitto come unico valore, infatti: infatti, oltre a costruire il castello, madame Louise si preoccupò anche di creare un grande giardino pubblico, il Parc Pommery a disposizione della popolazione. Madame Louise con intuito e intelligenza portò una ventata di cambiamento, fondamentale anche per gli anni a venire. Ancora oggi, passando da quelle parti non si può restare indifferenti, la Reims del 1878 è diventata una città moderna, ma il castello ci fa capire che c’è qualcosa di speciale. Louise aveva colto nel segno. Non è finita. Un’altra grande innovazione arrivò nel 1874, quando, nonostante fosse imperante lo Champagne dolce dal gusto zuccheroso, Louise decise di produrre il primo Brut. Capì che solo in questo modo si poteva fare il salto di qualità e aprire nuovi mercati a un prodotto che rischiava, diciamolo, una certa monotonia dovuta allo zucchero che appiattivano i gusti. Le premesse non erano buone, la guerra franco-prussiana aveva rallentato notevolmente i lavori, inoltre il suo direttore finanziario la sconsigliò esprimendo il concetto che: “Produrre uno Champagne Brut non è come fare un omelette, costa un sacco di soldi e il rischio è altissimo”. I primi esperimenti furono fallimentari ma Louise, determinata, tenne duro fino al 1874. Quell’annata fu davvero strepitosa, con uve abbondanti e perfettamente mature. Si produsse uno Champagne straordinario, che oggi potremmo definire “nature” visto che non ricevette alcuna aggiunta di zucchero in sede di dosaggio. Pommery Brut 1874 ebbe un grande successo in Inghilterra nonostante il prezzo decisamente alto: questo sancì il passaggio della Maison Pommery nel novero dei grandi produttori. Ma, forse, la vera innovazione non fu produrre uno Champagne Brut… 1 Il gesso è in grado di assorbire molta acqua in ambienti umidi e di rilasciarla in ambienti secchi; questo è utilissimo tanto in cantina - dove l’umidità rimane costante e fondamentale - che in vigna, poiché il sottosuolo gessoso non fa mai mancare acqua alle radici delle piante. La vera innovazione Parlando con Thierry Gasco, Chef de Cave di Pommery dal 1992, e andando sul discorso tecnico della creazione del primo Brut del 1874, capisco che ciò che ha cambiato le carte in tavola è stata la creazione di uno stile: i primi estimatori di Pommery Brut 1874 avevano trovato qualcosa più di un gusto: in quel sorso c’era anche l’innovazione, il castello, le crayeres, madame Louise. Bevendo quello Champagne si diventava, anche solo per un momento, parte di quel mondo. Produrre uno Champagne buono non è poi così difficile! Creare uno stile, invece, è una vera impresa. Ma da lì in poi molti altri dovettero cimentarsi in quell’opera. 2 Per dare continuità alla produzione di Champagne Brut, non potendo ricorrere a quantità industriali di zucchero, era d’obbligo disporre di ottime basi. Per questo madame Louise iniziò a conservare grandi quantità di vini di buone annate precedenti. Grazie a essi avrebbe potuto correggere le “carenze” che avevano in vini in certe annate a garantire sempre la stessa qualità. Era molto costoso conservare vini per anni e, all’epoca, erano pochissimi coloro che potevano farlo, mentre oggi è praticamente d’obbligo per qualsiasi produttore. Nel corso dei decenni il gusto inevitabilmente è cambiato, perché è mutato il clima, la tecnologia e, soprattutto, la clientela. Per questo non possiamo pensare che il Pommery Brut di oggi sia lo stesso degustato e bevuto alla fine del 1800. Lo stile, però, non è mutato. L’assaggio di Pommery Brut Royale ci dice che l’eleganza la fa ancora da padrona. Non è un vino roboante, nemmeno particolarmente complesso, ma scorre piacevolmente senza lasciare indifferenti. In questo caso la Maison ha mantenuto volutamente lo stile storico. Thierry racconta che la prima cosa fatta arrivando da Pommery, sia stata quella di stappare bottiglie molto vecchie, proprio per capire lo stile. Quando ho chiesto “quanto vecchie”, mi ha sciorinato una serie di annate che nessun comune mortale potrà mai bere, sottolineando che lo “stile Pommery” l’ha trovato espresso al meglio nel Brut del 1921. E questo ha un profondo significato, perché nel nostro bicchiere c’è davvero un pezzo di storia, in quel liquido vive ancora ciò che è stato creato, oltre un secolo fa, da madame Louise. 2 Capo cantiniere, ma in realtà molto di più, colui che ha la responsabilità dell’intero processo produttivo per arrivare al gusto.