Chardonnay: della freschezza

Aurelien Laherte - Sognando la Borgogna

Capito da queste parti per la seconda volta in poco tempo e il borgo di Chavot mi accoglie nuovamente con un silenzio quasi irreale; sembra che gli abitanti abbiano abbandonato il paese un minuto fa, dopo averlo messo perfettamente in ordine. Sensazione comune in questi luoghi.
Aurelien, in sandali e bermuda, mi accoglie sorridente. Sono venuto qui per parlare di Chardonnay, ma non solo. Infatti oltre ai tre vitigni ufficiali, Pinot Noir, Pinot Meunier e Chardonnay, una piccolissima percentuale del territorio è piantata con vecchi vitigni, sconosciuti ai più, che erano usati nel passato e che rappresentano una parte di storia dello champagne.
Di certo, se dico Petit Meslier, Fromenteau o Arbanne, racconto di illustri sconosciuti, un po’ meno se parlo di Pinot Blanc. Tutti questi grappoli sono a comoda dimora in un vigneto del nostro Laherte per produrre uno Champagne che si chiama Les 7 e che raggruppa, guarda un po’, i sette vitigni ammessi in Champagne.

Che c’entra la Borgogna?

In mezzo ai vigneti spendo la prima domanda: “Se tu potessi scegliere ubicazione e vitigno di un ettaro di terra, dove e con che uve lo pianteresti?”
Immediata la risposta: “farei Chardonnay in Borgogna” con la quale si spiegano titolo e sottotitolo del capitolo. È la conferma che stiamo parlando di Chardonnay con un appassionato di questo vitigno, per sua natura quasi mistico e sfuggente alle definizioni.
È un’uva pregiata, dalla quale si estraggono vini di grande espressività, ma anche quella con la quale è più facile fare errori. Intendiamoci, non si fanno Champagne cattivi con lo Chardonnay, ma la banalità che vuole dire perdita di personalità, è sempre in agguato se non si cura con attenzione il dettaglio. E allora massima attenzione per potature, trattamenti, data di vendemmia, fermentazioni, assemblaggio, tempi di fermentazione, tanto per dire le fasi più importanti. Per chiarirci le idee sull’argomento facciamo un giro in cantina, dove una discreta quantità di piccoli fusti in legno ci attende; assaggiamo prima da una botte e poi da un altra, riconoscendo due vini decisamente differenti: uno sinuoso e fruttato, l’altro più teso e giovane.
Sorpresa, ma neanche tanta - oramai ci abbiamo fatto il callo - quando Aurelien ci dice che si tratta di vino proveniente dal medesimo vigneto, fermentato in barili di differente provenienza di cui uno aveva contenuto in passato il più raro e mitico Chardonnay del mondo, il Montrachet di Romanée- Conti, guarda caso, di Borgogna. Non vi dico quale era dei due, ma non farete fatica ad indovinare.
In questi ed altri assaggi mi sono accorto di come lo Chardonnay, anche in questa fase embrionale di vin clair, cioè di vino fermo, destinato ad essere assemblato per diventare Champagne, sia già completo, con tutte le caratteristiche di un vino che potrebbe essere venduto e gustato per quello che è. Immaginate quindi quale peso e quale importanza esso abbia negli assemblaggi. Pur in tutte queste varianti, però, lo Chardonnay è sempre riconoscibile, e conserva le sue caratteristiche di freschezza, acidità, pulizia, i toni chiari e brillanti che danno dinamismo al vino.
Insomma, se il Pinot Meunier è il trasformista dalle mille facce e il Pinot Noir lo speleologo che rivela le profondità del frutto, lo Chardonnay è il primo violino dell’orchestra, sempre essenziale e vivo, veloce e preciso, non può permettersi errori, richiede tecnica sopraffina e da lui dipende in gran parte il successo.
Perché la personalità dello Chardonnay, se ben espressa, può raggiungere vette eccelse, tant’è che alcuni dei più grandi Champagne di ogni tempo devono ad esso la tenute negli anni e la ricchezza quasi inafferrabile degli aromi.