Non siamo un Paese per bianchi?

Il senso di un titolo come questo, e il senso del libro che ha scritto Andrea Gori, sta nel fatto che andando in giro per il mondo e partecipando ad alcune commissioni di assaggio nell’ambito d’importanti concorsi enologici internazionali, spesso colgo una sorta di sufficienza quando si valutano i bianchi italiani da parte di esperti di altri Paesi. Se per alcuni grandi rossi, Barolo, Brunello, Amarone, c’è ormai una considerazione diffusa, quando si affrontano i vini bianchi, soprattutto se derivanti da vitigni tradizionali, lo scetticismo è abbastanza imperante. Alcuni ottimi Soave, Verdicchio, Fiano, a mio avviso, per una scarsa conoscenza e una difficile collocabilità in ambiti precisi, sono talvolta sottovalutati in modo davvero eccessivo.
Qualche anno fa un’importante testata americana pubblicò un articolo dove, nei fatti, si sosteneva che in Italia forse era meglio dedicarsi, quasi esclusivamente, ai vini rossi, perché di bianchi di alto livello non ce n’erano o quasi. E quelli che talvolta vengono presi in considerazione sono spesso provenienti da vitigni internazionali. Chardonnay che somigliano a quelli californiani, più che borgognoni, qualche Sauvignon particolarmente varietale, quindi simil-neozelandese, persino alcuni Riesling che somiglia-no vagamente a quelli della Wachau.
Dove, insomma, gli aspetti che derivano dalle caratteristiche più note, e in parte scolastiche, dominano sugli aspetti territoriali, che sono invece molto meglio espressi da varietà forse più neutre, ma decisamente più rispettose di origini e denominazioni. È un problema abbastanza diffuso ed è dovuto, a mio sommesso parere, a una sorta di pigrizia degustativa che, spesso, prende chi assaggia solo e sempre quelle sei o sette varietà “internazionali” e le riconosce con molta facilità.