CULTURA E SOCIETÀ Piccole, non minori: le DOC che non ti aspetti EMILIANO GUCCI Da Nord a Sud, viaggio tra le Denominazioni più appartate e significative, promotrici di qualità e varietà dell’Italia vitivinicola La prima persona che verrebbe voglia di intervistare è Cosimo III de’ Medici, sesto Granduca di Toscana, che nel settembre del 1716 emise un bando per dettare le norme di produzione e commercializzazione del vino nei territori che amministrava, già definendo i confini di zone quali Chianti, Pomino, Carmignano e Valdarno superiore; aveva idea di come si sarebbero sviluppate in futuro le sue intuizioni? Fu il primo provvedimento che andava ad anticipare le moderne Denominazioni di Origine Controllata, poi Garantita, mentre la Nuova Congregazione sopra il Commercio del Vino faceva le veci dei nostri Consorzi di Tutela. Gli intenti non erano dissimili da quelli attuali: proteggere i vini locali al cospetto dei prodotti spagnoli, tedeschi e francesi che dopo la Guerra di Successione Spagnola invasero i mercati, al contempo contrastare i tentativi di contraffazione che minavano il successo delle eccellenze toscane. Sarebbero passati quasi 250 anni, e chissà quante battaglie e quante bottiglie, prima che il marchio DOC fosse , e trascorsi altri tre anni ancora per vedere quattro vini storici (Vernaccia di San Gimignano, Est! Est! Est! di Montefiascone, Ischia e Frascati) fregiati per primi dell’agognato sigillo. Oggi le Denominazioni sono il primo strumento di tutela e garanzia per il produttore come per il consumatore, spesso seguite, rispettate, esaltate, talvolta criticate e osteggiate, più o meno fedeli e solerti nell’assecondare le espressività del territorio ma comunque indispensabili per una lettura che vada oltre le mode del momento. E anche per questo è interessante osservare come accanto a Denominazioni dai nomi altisonanti e numeri cospicui, pronti alla conquista dei mercati globali, ve ne siano di piccole e significative, testimonianza di storia e di qualità, della pluralità e complessità espressa dal nostro Paese in campo vitivinicolo. ufficialmente riconosciuto nel luglio del 1963 con il D.P.R 930 NELLA TERRA DEL SENATORE DESANA, LA GEMMA DEL RUBINO DI CANTAVENNA Partiamo dal Piemonte, ovvero dalla terra di uno storico protagonista in tema, che fu promotore e primo firmatario della legge 930/63, quella che creò le DOC. Desana aveva studiato il modello francese ma tutto partiva dalla sua Casale Monferrato (capofila di un progetto partito quest’anno per raccogliere il materiale relativo a tutti i vini DOC italiani e inserirlo in un archivio digitale) ed è proprio in zona che scopriamo il Rubino di Cantavenna, dalla selezione delle varietà autoctone di uve Barbera, Grignolino e Freisa. «Si produce sull’ultima serie di colline del Monferrato della provincia di Alessandria, che scendono verso il Po», come racconta , riferendosi ai comuni di Gabiano, Moncestino, Villamiroglio e all’ex comune di Castel S. Pietro (ora frazione del comune di Camino Monferrato). A rendere rappresentativo il Rubino è il terroir, a partire dalle caratteristiche dei suoli, dalle peculiarità dei venti, e la sua storia è ben diversa rispetto a quella della grandi Denominazioni di zona: «È un vino di nicchia che presto potrà contare sul valore aggiunto di menzione Superiore e Riserva, altresì su un disciplinare più restrittivo». La sua esigua tiratura, appannaggio di soli cinque produttori, «consente tutti quei minimi accorgimenti che fanno la differenza» e al contempo «trasferisce un percepito di esclusività, di attenzione, che è sempre più ricercato dal mondo enoico di eccellenza ». Nel Rubino di Cantavenna «si fondono le tre anime della nostra viticoltura», ricorda , «la Barbera con la sua acidità, il suo corpo, la capacità di appagare i palati più fini, la Freisa che dona equilibrio, il Grignolino con il suo tannino che sa esaltare questo connubio». Il colore è ovviamente rubino intenso, nell’invecchiamento si avvicina al granato, il profumo di ciliegia marasca vira sulle speziature, il sorso è armonico ma capace «di pulire il palato anche se accostato a cibi molto ricchi». Paolo Desana, senatore della Repubblica Claudio Coppo, presidente del Consorzio delle colline del Monferrato Casalese Tina Sbarato, produttrice Il Castello di Gabiano. Foto di Monica Massa LO SCIACCHETRÀ DALLE TERRAZZE DELLE CINQUE TERRE Nella vicina Liguria incontriamo un passito che sa di leggenda, lo , frutto degli impervi declivi delle Cinque Terre, tanto romantiche per i visitatori quanto severe quando si tratta di curare filari di Bosco, Albarola, Vermentino. Frammenti di terra strappati alla roccia e riconsegnati alla vite con l’arte dei muretti a secco, anzi dei cian (piani, gradoni), pratiche di agricoltura che sono anche tutela di un territorio aspro, dove le vette superano gli ottocento metri e si specchiano nel mare. «Abbiamo un passito che è molto più di un vino», racconta titolare dell’azienda agricola Possa e , «racchiude 1000 anni di storia ed è un simbolo dell’enologia italiana, introvabile e prezioso. Una volta lo Sciacchetrà non lo bevevamo per poterlo vendere, quindi è divenuto il vino per i giorni più importanti, oggi è comunque essenziale trasmetterne il significato». Braccia, gambe, cuore, vendemmie verticali con l’ausilio di monorotaie, teleferiche, imbarcazioni, le uve vengono lasciate ad appassire per oltre 70 giorni, quindi si diraspano i grappoli (talvolta manualmente) e gli acini sono pigiati e vinificati a contatto con le bucce. L’affinamento avviene in piccole botti (o in anfora o in acciaio) e la commercializzazione in affusolate bottiglie da 375 cc, per una resa attorno al 25%. Gli ettari dedicati rientrano in quelli della DOC Cinque Terre, «un centinaio contro i 1.200 del 1960, con trenta produttori atti a produrre Sciacchetrà, anche se non tutti lo fanno. Eppure vediamo nascere nuove cantine e questo fa ben sperare ». Quel fiero Sciacchetrà che si pigia nelle cinque pampinose terre, come scriveva D’Annunzio, ha colore d’ambra con riflessi dorati, naso di miele, albicocca, agrumi, così com’è delizioso il contrasto tra dolcezza e sapidità del sorso, fino ai rimandi di mandorla e fichi secchi. «Le difficoltà di promozione di una DOC così piccola sono compensate dal legame col patrimonio delle Cinque Terre: se da un lato sono state rovinate dalla globalizzazione, dall’altro la tecnologia ci permette di far conoscere il nostro territorio a costo zero. E così il nostro vino». Sciacchetrà DOC Samuele Heidy Bonanini, presidente del Consorzio di Tutela dello Sciacchetrà Sciacchetra - Vigneti L’ASPRINIO E LE ALBERATE, PATRIMONIO CULTURALE DELL’AGRO AVERSANO Scendiamo nell’Agro Aversano, in Campania, per lasciarci ammaliare dalle viti ad alberata nella DOC Asprinio: piante secolari, a piede franco, con la corteccia segnata, i lunghissimi tralci che imparentandosi coi fusti e coi rami degli olmi o dei pioppi, erigono pareti di foglie alte fino ai quindici metri. E lassù i grappoli da cogliere sembrano gemme luminose, inarrivabili. «Un museo a cielo aperto ma anche l’esempio di come virtuosamente si gestiva il territorio», ricorda , «e noi dobbiamo apprendere la storia per rinverdirla, affinché sia uno stimolo per i giovani. Il progresso ha messo a repentaglio le alberate, oggi miriamo a preservare quelle che abbiamo e a fornire gli strumenti per chi intende crearne di nuove». Da quest’uva a bacca bianca per taluni insapore, insignificante, nasce il vino Asprinio «che profuma appena », come scriveva Mario Soldati, «e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non lo si può immaginare se non lo si gusta». La superficie vitata iscritta a DOC si aggira sui 32 ettari e le uve sono perlopiù destinate alla spumantizzazione, da qui la valenza produttiva dell’alberata, «sistema di allevamento ideale visti l’elevata acidità e il basso grado alcolico che conferisce alle uve», spiega , autore dello spumante Trentapioli (per l’appunto quelli dello scalillo utilizzato per la vendemmia). «Io mi sforzo di raccontare l’Asprinio soprattutto attraverso il vino, organizzando degustazioni e visite in cantina, relazionandomi con chiunque mostri curiosità. Eppure resto convinto che tutto ciò che ci meraviglia non è perduto. Oggi c’è molta più attenzione verso questi vini ricchi di storia, con una grande personalità che da un lato li destina a una nicchia ma dall’altro li imprime nella mente di chi beve». Cesare Avenia, presidente di VITICA (Consorzio Tutela Vini Caserta) il produttore Salvatore Martusciello La difficoltà è uscire dall’isolamento in un mercato che non ascolta voci flebili, e il sentimento prevalente è quello del guardiano del faro. Asprinio, vigne ad alberata di Salvatore Martusciello A BOSA LA MALVASIA È UNO STATO D’ANIMO Approdiamo infine in un’altra terra d’elezione, tipicamente costiera, con altitudini che raggiungono i trecento metri sul mare e suoli calcarei, fossili di origine marina che donano alle uve un inconfondibile carattere salino. E incontriamo la Malvasia di Bosa, che «non è un vino ma uno stato d’animo». Siamo in Sardegna, tra il Comune di Bosa e Punta di Foghe, alle foci del Rio Mannu in provincia di Oristano. , racconta un vino conosciuto soprattutto per la sua tipologia Riserva, che vede una maturazione in botti scolme a favorire la formazione dei lieviti da fiore, uno stile ossidativo che lo accomuna ad alcune tipologie di Sherry e lo rende monumentale nella longevità. «Eppure la nostra Malvasia è molto espressiva anche nella versione più fresca, o in quella spumantizzata, dove conserva i profumi primari che sono così inebrianti». L’origine di questa varietà è ricondotta a una città della costa meridionale del Peloponneso, chiamata Monembasia o Monenvasia, poi conquistata dai veneziani che avrebbero diffuso l’uva nel Mediterraneo. A Bosa esprime tutta la sua tipicità appannaggio di una DOC piccolissima, 16 ettari totali, con una resa molto bassa: «Non abbiamo un vero mercato, abbiamo estimatori appassionati e consapevoli. Questa è la cosa più difficile: trovare persone con l’animo giusto per apprezzarla». Giovanni Porcu non si spinge neppure a descriverla in qualità di vino, «non si racconta, sa di quello che vuoi, basta chiudere gli occhi e portare il bicchiere alle labbra». Eppure non è un sogno, anzi. . Fare vino è anche questo, specie in certi angoli incantati dove le piccole DOC fondono i concetti di salvaguardia e futuro, a tutela dei territori e degli uomini che le rappresentano. Giovanni Porcu, produttore e presidente del Consorzio «La Malvasia di Bosa sono i giovani, i ragazzi che si avvicinano a coltivare: il consorzio deve lavorare per loro, incentivare l’impianto di nuove vigne affinché possano rimanere sul territorio con la prospettiva di un reddito» Non finisce qui. Le piccole DOC in Italia sono molte, per conoscerne ancora vai sul nostro sito o iscriviti alla newsletter http://bit.ly/3KEDISl Consorzio Malvasia di Bosa, foto di Adalgisa Garau