VITICOLTURA Federico Paulsen, l’uomo che mise i piedi alla viticoltura ELISABETTA TOSI A Palermo il Centro Regionale della Biodiversità, già Vivaio Federico Paulsen, conserva l’erbario e la memoria dell’attività del padre di molti portinnesti ancora diffusi Quando si entra nel suo studio, si ha come la sensazione che lui ne sia appena uscito, magari per spostarsi in un altro ufficio o andare nella serra. I suoi libri, la maggior parte dei quali in francese, la macchina per scrivere, i fogli, le penne, le bilance racchiuse nelle loro teche per ripararle dalla polvere, è tutto come se a momenti dovesse tornare e rimettersi a leggere, consultare volumi, prendere appunti. Ma siamo nell’autunno 2023 e lui non entra più in questa stanza dal 1937, anno in cui lasciò il suo incarico per tornare a Roma, dove era nato nel 1861. E dove morirà qualche anno dopo. Lui è , l’uomo che rimise in piedi la viticoltura siciliana. E italiana. Ed europea. Laureatosi alla Scuola Agraria di Portici, Paulsen era poi partito per la Francia, per studiare la nuova, rovinosa malattia che stava azzerando la viticoltura transalpina: la , minuscolo afide già noto anche come . Era arrivato in Francia da perfetto clandestino già nel 1850, attaccato ad alcune viti americane che dovevano essere impiantate nei vigneti francesi per scopi migliorativi. Nel giro di pochi anni il micidiale insetto aveva già distrutto il 40% del vigneto francese, provocando un danno - si disse allora - che era costato alla Francia il doppio della cifra consegnata alla Germania come indennizzo dopo la guerra franco-prussiana del 1870-71. Una volta resisi conto del problema, i francesi tentarono di arginarlo, ma tra dibattiti infuocati e soluzioni d’emergenza, non riuscirono a frenare l’infezione, che continuò a diffondersi, arrivando anche in Sicilia: il 2 marzo 1880 la fillossera venne identificata in un vigneto di Riesi, in provincia di Caltanissetta. In aprile era già in provincia di Messina. Cinque anni dopo era ovunque nell’isola, e il vigneto siciliano, che nel 1884 contava quasi 322 mila ettari, era a rischio estinzione. Fu in quel periodo che il Ministero dell’Agricoltura chiese a Federico Paulsen di andare a Palermo, prima come assistente e poi, dal 1896, come direttore del Vivaio Governativo di Viti Americane e subito dopo anche come direttore tecnico della “Associazione per lo sviluppo ricostituzione e miglioramento dei vigneti siciliani”. Bisognava far presto: nel 1894 la fillossera aveva già distrutto oltre centomila ettari di vigneto in tutta Italia, e altri settantacinquemila stavano per fare la stessa fine. Fino a quel momento le regioni più colpite erano Sicilia, Sardegna, Calabria e Isola d’Elba, seguite da Liguria, Lombardia (Lecco e Bergamo) e Piemonte (Pallanza). Chi si occupa di viticoltura sa che la fillossera è un afide dal ciclo vitale complesso, che cambia a seconda della vite con cui entra in contatto. In Nord America attacca principalmente le foglie delle viti, provocando danni limitati, perché non riesce a colpire le grandi radici di tutte le specie americane, mentre altre specie con radici piccole (come la e la ), sono resistenti. Si spiega così l’interesse degli europei per le viti americane: alla fine si capì che, se utilizzate per fare da portinnesto a quelle europee, le avrebbero difese dagli attacchi di fillossera. Una conclusione, quest’ultima, che arrivò però solo dopo anni di discussioni scientifiche e politiche infuocate, fitti scambi epistolari di informazioni tra studiosi italiani e francesi, e numerosi tentativi tanto costosi quanto fallimentari di risolvere il problema con altri mezzi. I due più usati erano la “solforazione” dei terreni, cioè l’iniezione di solfuro di carbonio nel terreno circostante ogni vite (un rimedio che oggi ci farebbe rabbrividire), e il loro allagamento, ma nessuno dei due si rivelò definitivo. Fino a quel momento solo un terzo rimedio era riuscito a rallentare l’infezione: la distruzione dei vigneti infetti. Una soluzione radicale che nessuno si augurava di dover adottare. Contemporaneamente a queste soluzioni, alcuni studiosi avevano continuato a indagare, mettendo a confronto le viti americane con quelle europee: perché la fillossera ignorava le radici delle prime e distruggeva invece quelle delle seconde? Perché il legno delle radici di vite americana è molto più grosso e duro di quello della vite europea. Per salvare la viticoltura europea avrebbero dovuto allora sostituire tutte le loro viti con quelle americane? Federico Paulsen Philloxera vastatrix Daktulosphaira vitifoliae Vitis riparia Vitis rotundifolia © Alessandra Biondi Bartolini Soluzione inaccettabile. E se invece si fossero limitati a innestare solo la parte aerea delle viti europee su quella radicale delle americane? Si formarono così in tutta Europa due fazioni: i “sulfuristi”, che preferivano la guerra chimica, e gli “americanisti”. Insieme ad altri colleghi, Federico Paulsen faceva parte di quest’ultimo gruppo: era cioè convinto che solo innestando le viti europee su piede americano si potesse salvarle. Perciò dal 1888 in poi, insieme al collega , Direttore dei Regi Vigneti Sperimentali di Spatafora (Messina), lo studioso iniziò un enorme lavoro di delle viti americane, nell’intento di trovare dei buoni portinnesti per i terreni calcarei. Ne creò migliaia, fino a realizzare quelli che gli servivano. E con quelli rimise in piedi la viticoltura siciliana, e non solo. “Paulsen ha rivoluzionato il modo di coltivare la vite, assicurando la continuità della sua produzione in tutto il mondo. I portinnesti che usiamo anche oggi sono ancora quelli che Paulsen studiò d’accordo con tutto il mondo scientifico del tempo. Credo che sia questa la sua eredità più importante. E da allora noi qui continuiamo le attività di ricerca sulla Vitis europea”. è l’attuale dirigente del (l’intitolazione allo studioso è del 2005); molti chiamano ancora così questo istituto, ma oggi il suo nome ufficiale è . Oltre alle ricerche in viticoltura, infatti, l’istituto si occupa di studi in campo frutticolo e olivicolo, “e forti proprio dell’esperienza vissuta da Paulsen con la fillossera nel campo della vite, stiamo cercando di trasferire lo stesso modello di nei diversi comparti dell’olivo e della frutta” continua Pernice. Antonino Ruggeri ibridazione Vincenzo Pernice (foto) Vivaio Federico Paulsen Centro Regionale della Biodiversità valorizzazione della biodiversità Vincenzo Pernice - Direttore Vivaio F. Paulsen Regione Sicilia Federico Paulsen fece un incredibile lavoro di ricerca sui portinnesti, sotto la spinta del problema fillossera. Questo genere di ricerca continua anche oggi? “Sì, la ricerca continua, anche se noi ormai abbiamo un gran numero di cloni di portinnesti. I più comuni sono appunto quelli del gruppo Paulsen, come il 1103 P, o il 140 Ru (da Ruggeri, n.d.a.), ma abbiamo in collezione anche una serie di piante che manifestano la loro efficacia a seconda dei territori, dell’ambiente e dei terreni. Uno degli aspetti che ha caratterizzato gli studi sul portinnesto è stata l’individuazione di piante che si adattano a diversi tipi di terreno. Ecco perché sono ancora così diffusi. Oggi c’è grande attenzione verso il problema dell’aridità in relazione al cambiamento climatico, e bisogna studiare portinnesti che siano resistenti anche alla salinità”. Al Nord si discute sempre più spesso di vitigni resistenti, anche in relazione al cambiamento climatico che sta costringendo tutti a ripensare la viticoltura. Qual è la posizione del Vivaio Paulsen su questo argomento? “Lo seguiamo, perché è giusto interessarsi alle tendenze della ricerca. Ma nel nostro caso rileviamo una così estesa biodiversità che, devo dire, al momento non sentiamo il bisogno di lavorare con vitigni resistenti. Li teniamo in considerazione, ovviamente, ma al momento tendiamo più a valorizzare ciò che Madre Natura ci fornisce da sola”. In conclusione, se oggi un personaggio come Federico Paulsen fosse ancora tra noi, farebbe quello che ha fatto per tutta la sua vita: ricerca, confrontandosi con colleghi italiani ed esteri. Magari usando il computer, invece che la macchina da scrivere con cui preparava lettere e rapporti che spediva a mezzo mondo. Ma di sicuro sempre in prima persona, e soprattutto sporcandosi le mani di terra. © Alessandra Biondi Bartolini