CULTURA E SOCIETÀ
Un’analisi originale, ma estremamente realistica, della più famosa e cantata aria d’opera inneggiante al vino
Prima di tutto facciamo chiarezza: potete essere affascinati dai concerti in vigna e da produttori che vi garantiranno che il loro Merlot prospera con
Mozart, ma nessun brano musicale vi racconterà davvero l’essenza del vino. Anche se la storia della musica descrittiva è disseminata di suoni di
temporali, ruscelli, cinguettii, il vino per lo più sta in silenzio, con un’unica eccezione giustamente passata alla storia della musica: il rumore di
un tappo che salta.
Ecco, è da qui che dobbiamo partire, e si tratta in effetti di un incipit poco originale perché è il brano da cui cominciano tutti gli articoli dedicati
a musica e vino: Traviata, Verdi, 1853, atto I scena seconda, Alfredo e poi il coro “Libiamo nei lieti calici”. Pensate a quell’intervallo così
slanciato sulle prime due sillabe: Fa-Re, perfettamente inquadrate nella tonalità di SIb maggiore. Quella che state sentendo è a tutti gli effetti
un’onomatopea: il sughero si scalza (Fa) e l’aria si espande rumorosamente per il tempo di un’intera battuta (Re). Il resto lo fa la nostra fantasia che
attribuisce alle note dei precisi significati sedimentatisi nella nostra cultura. L’aria è un valzer, scritto in tempo veloce di tre ottavi, e questo
dice al nostro cervello che siamo a una festa. Ecco che tutto gira e vortica, prendendo slancio dal ritmo che sposta gli accenti insieme ai piedi dei
ballerini, mentre le note staccate dell’accompagnamento creano un felice scoppiettio. Alla parola “calici” se anche il coro avesse in mano delle banane,
noi visualizzeremo lo stesso coppe con le bollicine. Perché è questo il segreto: non sentiamo il vino, ma visualizziamo gli effetti, con l’allegria che
produce, la convivialità del momento e ci immaginiamo un liquido tanallegro come il tempo del metronomo e chiaro come l’armonia semplice in cui l’ha
collocato Verdi.
É logico che avendo la musica questo potere sulla mente, ovvero evocare una bevanda che è stata la più importante energia ricreativa dell’umanità, può
diventare funzionale nell’allestire una scenografia di note in cui muovere dei personaggi. E allora proviamo a girare attorno al salotto di Violetta
Valery e capire come si sono formati quei suoni che ci fanno vedere Champagne dove ci sono solo persone che agitano bicchieri vuoti cantando su un
palco.
Gli esempi non mancano, l’opera italiana è costellata di beoni: prendiamo il conte di Almaviva nel Barbiere di Siviglia di Rossini che si
presenta alla sua Rosina travestito da soldato avvinazzato. Qui da Traviata siamo lontani, il genio del pesarese è tutto nel comporre una marcia
militare cadenzata, con tanto di pifferi, e metterci sopra un canto sguaiato e ripetitivo. Il grottesco in divisa, appunto. Tenetelo a mente mentre
passiamo a un altro brindisi famoso un po’ più avanti nel tempo: Cavalleria Rusticana, Mascagni, 1889. L’orchestrazione e l’armonia sono quelle
cangianti di fine XIX secolo, ma ecco che, improvvisamente, si ritorna a una partitura di sapore verdiano in “Viva il vino scintillante”, intonata da
Turiddu e coro. Il tempo è due quarti, ancora una marcia dunque, ma di certo meno cadenzata. Qui non visualizziamo gonne che ruotano: siamo a Vizzini,
non a Parigi. Il vino è spumeggiante come intona la seconda strofa ed è evocato sempre da note staccate in una tonalità maggiore. Ma spumeggia perché
zampilla dalle botti, non per l’anidride carbonica. E qui Mascagni usa, alla seconda battuta, una figura ritmica sincopata che nel nostro immaginario
musicale associamo al fluire dell’acqua ed ecco che lo vediamo questo piccolo fiume di vino, fare una cascatella e riposare nel bicchiere scintillante.
Gli elementi scenici sono come quelli della Traviata, (il protagonista e gente intorno che vuole solo godersi la vita), persino lo stile musicale in
fondo, ma trasformati in elementi popolari. E c’è un’altra cosa in comune con l’aria verdiana: questa dedizione al vino non è proprio una cosa tanto
positiva. Come Don Giovanni di Mozart che sfida lo spettro Commendatore con coppa in mano, anche in queste opere ci sono tutti gli elementi
perché un bicchiere di troppo ci tolga i punti dalla Grande Patente. Perché l’alcool è lo stigma della leggerezza a cui è condannata una demi-mondaine,
o perché Turiddu ci dice che è “come il riso dell’amante” che in un’opera in cui si accoltellano per questioni di corna suona profetico. Per capire come
convivono tutti gli elementi di questo immaginario collettivo però dobbiamo tuffarci ne L’Orgia. Non scandalizzatevi: il titolo ovviamente
non ha lo stesso significato lascivo che gli attribuiamo oggi; si tratta di un brano per canto e pianoforte di Rossini per il quale (così come
per il suo secolo) ‘orgia’ è al massimo una profusione di voluttà, dove il vino fa da carburante. Viene pubblicata nel 1835 in una raccolta destinata ad
avere molto successo dal titolo Soirées Musicales, ma è probabile che risalga al periodo tra il 1824 e 1829, quando Rossini stava conquistando
Parigi e ne era conquistato. Siamo nel campo di una musica per amateur, scritta con gli amici per gli amici, che nel suo caso erano i migliori cantanti
e pianisti dell’epoca, tanto che questo è un inno al bel canto italiano di Primo Ottocento. Sorprende però che sentendo l’Orgia, dopo il primo atto
della Traviata ci si accorge che in quelle note c’è già tutto il mondo di Violetta. “Amiamo, cantiamo le donne e i liquor/gradita è la vita fra Bacco ed
Amor/ Se Amore ho nel core, ho il vin nella testa, che gioia che festa, che amabile ardor…” e più avanti “Danziamo, cantiamo, alziamo il bicchier,
ridiam, sfidiam i tristi pensier“…e poi alla fine le nostre bollicine esplodono: “Balzante, spumante con vivo bollor/ e il vino divino del mondo
signor”.