EDITORIALE

eterna malattiaAlessandra Biondi Bartolini

Nel 1878 la peronospora fece la sua comparsa in Europa e soltanto un anno dopo arrivò in Italia: fu solo l’ultima delle temibili avversità che la viticoltura aveva conosciuto in pochissimi anni, dopo l’oidio e la fillossera, e che i produttori e un neonato mondo della scienza viticola si trovarono a dover affrontare per non scomparire. La peronospora col passare degli anni è diventata, come nel titolo di una dimenticabilissima canzone del Sanremo 1983, l’Eterna malattia della viticoltura europea. Una malattia che, a distanza di più di 150 anni, ha perso il carattere di eccezionalità e imprevedibilità e che non possiamo più considerare emergenza.
Con la peronospora abbiamo imparato a convivere e contro di essa ci siamo attrezzati in modo diverso: sviluppando prodotti per la difesa, macchine per l’irrorazione, metodi di monitoraggio, modelli di previsione, varietà tolleranti. Metodi che tuttavia, per quanto utilizzati correttamente e nella giusta combinazione, non riusciranno mai a portare a zero il rischio di infezione, che da allora continua a presentarsi ogni anno, quando più e quando meno, nei vigneti italiani.
Il 2023 è l’anno più: più piovoso nel periodo primaverile, più imprevedibile nel meteo, con più presenza di infezione primaria e secondaria, con la maggiore pressione della malattia, con più difficoltà di intervento. Nonostante questo sia sotto gli occhi di tutti, quando questa rivista uscirà, i primi giorni di settembre, avremo già cominciato a leggere le solite ottimistiche dichiarazioni per quella che qualcuno definirà anche quest’anno “un’annata scarsa ma di ottima qualità”.
Ma vogliamo essere seri oltre che realistici? Diciamolo quindi: questa non sarà purtroppo un’ottima annata (del resto le ottime annate esistono proprio perché ci sono anche delle pessime annate), sarà molto scarsa in quantità e probabilmente mediocre e molto difficile nella gestione della qualità, perché l’uva delle piante malate non è mai un’uva di qualità e porta con sé instabilità e difetti. Non vogliamo dire che ci siamo fatti trovare impreparati, perché non sarebbe giusto per il lavoro dei viticoltori che probabilmente hanno messo in campo tutti gli strumenti a loro disposizione, in quella che si è rivelata tuttavia spesso una battaglia combattuta con delle armi spuntate. Non mi piace nemmeno pensare che con queste due ultime annate, estreme per motivi diversi, la natura ci abbia voluto dare un segnale, perché non credo che la natura abbia minimamente a cuore quello che facciamo e che tantomeno si occupi di viticoltura.
Quello che possiamo dire è che, alla luce di quanto abbiamo osservato, occorre sicuramente ripensare a come introdurre tra i viticoltori una giusta e nuova cultura del rischio e della prevenzione, approfondire e vigilare di più su aspetti poco noti, come l’insorgenza delle resistenze ai prodotti per la difesa che meriterebbero un osservatorio dedicato, diffondere l’uso degli strumenti di monitoraggio e dei DSS anche nelle regioni dove la pressione delle malattie è generalmente bassa (ma generalmente non significa mai).
Tutti quindi - tecnici, istituzioni e aziende - dobbiamo prendere atto di alcune cose e su annate come queste, che vorremmo solo dimenticare, dobbiamo invece “ritarare” il rapporto con il vigneto, l’ambiente e il mercato.
Perché è chiarissimo ormai che la viticoltura europea sta cambiando e che abbia bisogno di una ristrutturazione radicale. Perché accanto agli effetti della crisi climatica, della quale l’estrema siccità del 2022 e le piogge e le grandinate del 2023 non sono che le due facce della stessa medaglia, stiamo assistendo anche al calo dei consumi, al crollo delle vendite dei vini rossi e dei prezzi e a una giacenza di vino nelle cantine che sfiora i 50 milioni di ettolitri (l’equivalente di una vendemmia italiana media). Una situazione che non è solo italiana (se Roma piange Parigi non ride), dal momento che anche oltralpe queste riflessioni stanno portando a provvedimenti drastici, come l’espianto di 10.000 ettari di vigneto a Bordeaux.
Una ristrutturazione però richiede un approccio complesso, soprattutto quando riguarda un settore importante per l’agricoltura, l’economia, la cultura e la società di alcuni paesi come quelli del Mediterraneo. Se, come è probabile, le superfici si andranno a contrarre, se l’espansione delle superfici vitate degli ultimi decenni soprattutto in alcune aree non risulta oggi più sostenibile alla luce di una situazione globale completamente mutata, occorrerà pensare ad agricoltori, lavoratori e famiglie, progettare la nuova destinazione delle superfici, tutelare il paesaggio, le tradizioni, la cultura, prevenire l’abbandono delle zone rurali. Il rischio di parlare sempre e solo di agronomia e alimentazione porta a dimenticare che i cambiamenti devono coinvolgere anche discipline come l’economia, la sociologia, l’ecologia e l’urbanistica.
Non basta pensare, come è stato fatto nell’approfondimento richiesto dalla Commissione Europea sull’impatto delle misure previste dal nuovo regolamento SUR per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, che di fronte a una prevedibile riduzione delle rese di alcune colture tra le quali la vite, appaia semplice e risolutivo sostituire la vite con altre coltivazioni. Possiamo ritenere che la complessità che lega la presenza di una coltura millenaria a un territorio e alle persone si possa liquidare in quattro righe di un rapporto che prende in esame solo un aspetto (la riduzione dell’uso dei fitofarmaci sulle rese e la sicurezza alimentare) dell’impatto di un settore che da anni sta rivolgendo quasi tutti i suoi sforzi per divenire più sostenibile per l’ambiente, l’economia, la società? E può uno studio di impatto riguardare solo la capacità dell’agricoltura di produrre alimenti? Per quanto gli obiettivi di crescente sostenibilità ambientale non possano che essere condivisibili oltre che prioritari, pensare di trasformare dei viticoltori italiani, francesi o spagnoli in cerealicoltori o in orticoltori non è semplice, non è scontato e non crediamo nemmeno sia auspicabile ma soprattutto, aggiungerei, non è quanto ci aspettiamo da quello che si definisce un approfondimento.