DALLA RICERCA Due passi nella scienza A cura di ALESSANDRA BIONDI BARTOLINI Un vino di 2000 anni fa: è il più antico mai ritrovato allo stato liquido Le informazioni che abbiamo sulle caratteristiche e la composizione dei vini degli antichi Romani derivano dall’analisi dei residui solidi presenti sul fondo o assorbiti nella terracotta delle anfore, così come dai testi degli autori latini. Il vino più antico arrivato fino a noi allo stato liquido (ma mai analizzato) era fino ad oggi quello di una bottiglia rinvenuta nella città tedesca di Speyer e datata intoro al 300 d.C. Nel 2019 nella città spagnola di Carmona viene rinvenuta una tomba del primo secolo dopo Cristo: al suo interno un’urna funeraria in vetro del genere delle olle ossuarie contenente circa cinque litri di un liquido rosso insieme ai resti della cremazione del defunto. L’ipotesi che si trattasse di vino, che era del resto molto utilizzato nei riti funebri per accompagnare i defunti nel loro viaggio nell’aldilà, è stata indagata con le più moderne tecniche di indagine archeo-chimica dal Dipartimento di Chimica Organica dell’Università di Cordoba. Sebbene in gran parte degradato e modificatosi nella sua composizione per la mineralizzazione della sostanza organica, la cessione di elementi estranei da parte del vetro del contenitore e lo spostamento del pH intorno a 7, l’applicazione delle tecniche di ICP-MS e HPLC -MS ha permesso di rilevare che la composizione in elementi e sali inorganici si avvicina a quella dei vini attuali del Sud della Spagna e la presenza di composti polifenolici tipici tra i quali la quercetina, la quercetina glucoside, la rutina, e gli acidi benzoici, portano a confermare che si tratta del vino in forma liquida più antico mai ritrovato fino a oggi. Un vino bianco, o quantomeno prodotto come descritto da Columella senza contatto con le bucce dopo la pigiatura, in quanto non sarebbero presenti derivati delle antocianine. : Daniel Cosano, Juan Manuel Román, Dolores Esquivel, Fernando Lafont, José Rafael Ruiz Arrebola, New archaeochemical insights into Roman wine from Baetica, Journal of Archaeological Science: Reports, Volume 57, 2024, 104636, ISSN 2352-409X . Articolo originale https://doi.org/10.1016/j.jasrep.2024.104636 All’oidio non piacciono i raggi UV La radiazione ultravioletta UV C, con lunghezza d’onda compresa tra 200 e 280 nm, è da tempo utilizzata in campo medico, alimentare e analitico per la sua attività germicida. I raggi UV C sono in grado infatti di disorganizzare il DNA microbico, portando rapidamente alla morte delle popolazioni presenti sulle superfici irradiate. In agricoltura sono state proposte negli ultimi anni alcune soluzioni di utilizzo dell’UV C per la difesa e il trattamento delle malattie delle piante. In uno studio recentemente pubblicato sull’American Journal of Enology and Viticulture i ricercatori della Washington State University hanno valutato la capacità dei raggi UV di sostituire o integrare la difesa nei confronti dell’oidio della vite. L’efficacia della radiazione UV C nella riduzione della vitalità delle colonie di in diversi stadi di sviluppo è stata dapprima testata su scala di laboratorio e successivamente in vigneto con protocolli diversi per frequenza e intensità. I risultati hanno evidenziato che i raggi UV C esercitano sulle giovani colonie un’azione eradicante e curativa efficace ma non presentano attività residua né preventiva. Una strategia che preveda l’uso dei raggi UV C dovrà quindi tenere conto non solo della biologia dei patogeni e dei periodi di maggiore o minore suscettibilità dell’ospite, ma anche dell’efficacia della radiazione nel raggiungere il target e quindi delle condizioni ambientali, l’architettura delle viti e la frequenza di trattamento. : Alexa L. McDaniel, Maria Mireles, David Gadoury, Thomas Collins, Michelle M. Moyer, 2024, Effects of Ultraviolet-C Light on Grapevine Powdery Mildew and Fruit Quality in Vitis vinifera Chardonnay Am J Enol Vitic. 2024. . Erisiphe necator Articolo originale https://www.ajevonline.org/content/75/1/0750014 L’immagine mentale dei vini dipende dalla cultura di appartenenza L’immagine mentale o la concettualizzazione che ognuno si fa del vino dipende da molti fattori soprattutto culturali, dalle esperienze sensoriali ed emozionali, oltre che da fattori estrinseci quale ad esempio il prezzo. Il vino tra i prodotti alimentari vanta una forte continuità nelle rappresentazioni culturali, storiche, artistiche o letterarie oltre a un vocabolario descrittivo molto ampio. I consumatori costruiscono il loro concetto di vino essendo influenzati dai valori e i contesti sociali nei quali si trovano. Ma quanto influisce l’appartenenza a una cultura piuttosto che a un’altra sull’immagine mentale che i consumatori hanno del vino in generale o più specificamente quando si va a descrivere il concetto di un vino rosso o di un vino bianco? È quanto ha indagato un team di ricercatori internazionali attraverso un’indagine online su un campione di consumatori non esperti provenienti da Francia, Portogallo e Sud Africa. Per delineare e dare forma al concetto di aroma del vino in generale e poi di vino bianco e di vino rosso, ai partecipanti è stato chiesto di scegliere i descrittori che avrebbero usato per spiegare a un alieno l’aroma del vino. Tra i risultati ottenuti dall’analisi testuale delle risposte emerge che mentre l’immagine dell’aroma del vino e del vino bianco sono abbastanza condivise tra le tre culture, le maggiori differenze si hanno per quanto riguarda il vino rosso, più influenzato dal contesto culturale e per il quale le maggiori divergenze si riscontrano nell’idea che ne hanno i consumatori francesi e quelli sudafricani. : Fairbairn, S., Brand, J., Ferreira, A.S. et al. Cultural differences in wine conceptualization among consumers in France, Portugal and South Africa. Sci Rep 14, 15977 (2024). . Articolo originale https://doi.org/10.1038/s41598-024-66636-3