È arrivato il momento di affrontare l’aria da concerto per soprano e orchestra “Der Wein” di Alban Berg: 12 minuti di musica dodecafonica densi come un Amarone della Valpolicella di 50 anni, quindi, se vi tuffate sul brano “a stomaco vuoto”, il rischio è che chiudiate l’ascolto dopo i primi 30 secondi e subito dopo anche l’abbonamento a Millevigne. Ma se siete lettori di questa testata, sapete anche che il prodotto di vitigni “difficili” richiede pazienza e che le spiegazioni sulla fatica del viticoltore per ottenerlo fanno parte dell’esperienza di degustazione. L’arte contemporanea funziona allo stesso modo: la bellezza si svela nel ragionamento. O almeno ci prova, se anche dopo questo articolo la musica moderna vi sembrerà insopportabile (tante volte è proprio l’effetto a cui mira), almeno avrete una storia con cui fare colpo al pranzo di Natale.
I PRIMI DEL NOVECENTO E LA MUSICA DODECAFONICA
A meno di essere masochisti, o fingersi raffinati intellettuali, la musica che ascoltiamo ogni giorno è musica tonale, dove le note si susseguono
rimanendo in determinati rapporti (intervalli) che ce li rendono graditi alla fisica del nostro orecchio e coerenti con la cultura che ha formato la
nostra estetica musicale. A cominciare da Wagner, però, questo tipo di musica sembrava arrivata al limite delle sue capacità espressive. All’inizio del
Novecento, mentre la pittura cominciava a scomporre le figure in forme astratte, i compositori cercavano metodi con cui scrivere musica senza la
tonalità. Uno di questi fu messo a punto dal compositore viennese Arnold Schoenberg che intorno al 1921 cominciò a comporre utilizzando una serie di 12
note, ciascuna priva di rapporto con la precedente. Una volta definita una o più serie, queste vengono usate per tutto il brano, magari scomposte,
ribaltate, eseguite a rovescio. L’importante è che l’orecchio, di fronte a intervalli che non riconosce, rimanga perplesso.