ENOLOGIA
Il rame e il vino, il rame nel vino
Nel bene e nel male, esiste un rapporto stretto tra il rame, la tecnica viticola e le pratiche enologiche
di ALESSANDRA BIONDI BARTOLINI
di ALESSANDRA BIONDI BARTOLINI
Utilizzati in vigneto per proteggere le viti dalla peronospora fino dagli ultimi decenni del 1800, i sali di rame hanno realisticamente salvato e continuano a salvare vigneti e raccolti. E tuttavia già dai primissimi anni ci si interrogava sui rischi e i problemi che gli eccessi e i residui di rame avrebbero potuto causare nei mosti e nei vini, come testimonia la memoria “Sopra l’azione dei sali di rame nel mosto di uva sul Saccharomyces ellipsoideus”, pubblicata nel 1891 da Pico Pichi, uno dei primi studiosi italiani di microbiologia enologica.
Le contaminazioni in passato non provenivano tuttavia soltanto dal vigneto, in quanto in cantina erano molti gli strumenti, raccordi, pompe, rubinetti ecc. in bronzo o in ottone, leghe che potevano cedere rame e altri metalli ai mosti o ai vini. E come nel caso del ferro i rischi legati alle cosiddette casse metalliche, e con essi la necessità di ricorrere agli interventi di demetallizzazione, si sono effettivamente ridotti di molto con l’introduzione dell’acciaio inossidabile.
Se tuttavia da una parte i residui e le contaminazioni destano da tempo preoccupazione e sono per questo considerati un rischio, è pur vero che dall’altra la tecnica enologica sfrutta la capacità dei sali di rame di legare i composti solforati maleodoranti e responsabili dei difetti di riduzione e le aggiunte di solfato e citrato di rame rappresentano una delle pratiche più familiari alla maggior parte degli enologi e dei tecnici di cantina. Sembra contraddittorio e in effetti un po’ lo è.