Un matrimonio greco La festa di nozze si sarebbe tenuta in una località appena fuori Tripolis, nel luogo di origine della famiglia della sposa: un villaggio di poche case, tutte dipinte di bianco con le imposte di porte e finestre di quel colore indaco che i Greci chiamano , e qualche bandiera nazionale appesa a ciondolare stancamente. Tutti gli abitanti del villaggio erano già in piazza insieme agli invitati, molti dei quali venuti da lontano, anche dall’estero dove, come tanti greci da sempre, si erano trasferiti per lavorare. Nelle feste di nozze dei villaggi, nel grande spiazzo tra gli alberi era stato allestito il pranzo. Ora non si deve pensare al tipico pranzo di nozze con camerieri in giacca bianca che servono le varie portate secondo l’ordine riportato sul menù: antipasto, primo, secondo, contorni, torta e brindisi finale. Qui, come sapevo, ognuno si serviva da solo: c’erano salse allo yogurt, salse alle uova di pesce, alle melanzane, sugli spiedi c’erano a rosolare agnelli interi e maialini, e poi suvlakia di tutti i tipi fumavano sulle braci. C’erano anche enormi ciotole di coccio piene di dolci grondanti di miele con un profumo che già da solo dava lo stordimento. lulaki E infine il vino, non come il nostro vino, o meglio come quello che abitualmente beviamo ai ricevimenti. Niente Chianti, niente Prosecco o Champagne. Nel villaggio ancora qualcuno produceva la retsina artigianale, che è ben diversa da quella che si può bere nei ristoranti e nelle taverne turistiche in Grecia: più profumata, più forte e quindi più pericolosa per chi ne assume un bicchiere di troppo.