Per chi si occupa di vino parlare di denominazioni di origine è come per uno psicologo parlare del ruolo del padre e della madre. Insomma se andassimo ad analizzare le discussioni che facciamo noi addetti ai lavori sui diversi temi del vino probabilmente quello delle denominazioni occuperebbe più del 50%. Normalmente parliamo male delle nostre denominazioni, non perché non le amiamo ma perché non le consideriamo mai ben tutelate, valorizzate e sfruttate e questo a prescindere che a parlare sia un artigiano, un industriale, un imbottigliatore, un cooperatore. Affrontare quindi il tema del marchio collettivo territoriale (perché questo è una denominazione) è sempre difficile e per certi aspetti pericoloso. Quello che nei miei editoriali ho voluto evidenziare è che comunque, ci piaccia o no, siamo oggi obbligati a mettere in discussione le nostre denominazioni ma questa volta con un’impostazione “creativa” e non più “distruttiva”.
E quando parliamo di denominazioni siamo obbligati ad affrontare nuovamente un tema che sembrava fino a poco tempo fa richiuso per sempre in soffitta, quello della tipicità.
Parlare di denominazioni significa parlare anche di Consorzi di tutela e se la prima tematica è spinosa la seconda è incandescente.