– I miei colleghi di Dogliani mi dicono che ho fortuna perché sono un produttore di Nebbiolo. Io faccio un Dolcetto a 12,50 e 13 gradi. Il Dolcetto è un vino che per me è un vino quotidiano. Un vino da 14 gradi è un po' una forzatura. Se fossi là forse lo farei anch'io. Diventa una forzatura chi in periodi non particolarmente caldi utilizza un concentratore e qui è pieno di gente che usa i concentratori. – Dove esporta i suoi vini? – Noi esportiamo il 95%. soprattutto nel Nord Europa. Quindici anni fa era impensabile. Tutto il vecchio blocco tedesco si è disintegrato. Chi faceva l'esportazione era la cucina italiana in ristoranti italiani. Ormai non ci sono più ristoranti italiani tipici, ma hanno mantenuto soltanto il nome. Solo qualche enoteca e qualche ristorante tedesco tiene ancora i miei vini. Le esportazioni sono nei paesi scandinavi e in Danimarca, che sono anche i paesi più ricchi. Vendo di più in Francia a privati che in Inghilterra: di qui passeranno una cinquantina di famiglie francesi ogni anno. Ho solo un'enoteca a Parigi. I francesi rispettano molto le nostre esportazioni.» 64 Intervista a Claudio Fenocchio, dell'azienda Giacomo Fenocchio ( ), presso la sua cantina a Monforte D'Alba (Cn), 26 agosto 2010. 64 https://www.giacomofenocchio.com/ 5. Nel mezzo del terroir, un problema non solo semantico: il vitigno autoctono Se c'è un altro termine che ha un uso tanto ricorrente quanto problematico nel panorama linguistico italiano, soprattutto per quanto riguarda il vino, è la parola "autoctono": di derivazione greca, «se vogliamo attenerci all'etimologia, non dovrebbe essere autoctono altri che il primo antenato nato sul suolo, la cui apparizione fonda la vita nella città e legittima il rapporto del popolo con la propria terra. Un ulteriore passo in avanti, compiuto dai singoli popoli, fa sì che l'autoctonia dell'antenato, trasmessa attraverso la filiazione, si estenda a tutti i suoi discendenti. Di questa estensione gli storici prendono atto, subordinando tuttavia l'uso della parola a due condizioni. La prima è esplicitamente formulata da Erodoto: trattandosi di un popolo, l'autoctonia caratterizza lo stretto rapporto che, fin dalle origini e senza discontinuità, lo collega alla propria terra: così gli Arcadi e i Cinuri sono detti autoctoni perché, fedeli al loro antenato, sono "rimasti sul posto". Ma non è tutto: sullo sfondo dell'esposizione di Erodoto si profila un secondo criterio, implicito ma imperativo, che re-duplica la trasmissione del suolo nella trasmissione della memoria; è bene occupare la terra, ma è meglio ancora conservare la tradizione autoctona, per rinsaldare ad ogni generazione il legame che unisce il presente all'origine: quando, un po' oltre, Erodoto segnala che i Cinuri si sono letteralmente trasformati in "Dori", si tratta di un modo discreto per ricusare l'autoctonia cinuriana, il cui valore è perlomeno relativizzato dall'assimilazione all'invasore dorico. [...] Gli Arcadi e gli Ateniesi: due pretendenti al popolo più antico di Grecia, il che fa un autoctono di troppo; ed è naturale che nel libro IX delle Storie un motivo di rivalità contrapporrà gli Ateniesi e gli Arcadi prima della battaglia di Platea, in nome del posto d'onore in seconda linea. Mettiamo ora da parte i conflitti dei tempi storici e ritorniamo ai racconti di fondazione; non è stato vano tuttavia, rammentare che, per una collettività greca, niente vi è più attuale dell'origine, poiché nulla serve meglio gli interessi del presente». 65 N. Noraux, , Meltemi, Roma 1998, pp. 43-44. 65 Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene