4. Gino Veronelli e il “vino giusto” «Forse la parola gusto, nel senso figurato del termine, deriva dalla sensazione propria del palato, perché il senso del gusto privilegia la soggettività di ciò che è gradevole o repellente e perché, più di ogni altro, riguarda ciò che attiene alla persona essendo i suoi simboli cose realmente introdotte nel corpo, e non che vengono solo toccate dall’esterno o che sono sentite come qualcosa che sta da qualche parte, nelle vicinanze. La lingua e il naso sono i guardiani dell’accesso. [...] Quando parlo di estetica evito la parola gusto, perché il suo uso incoraggia un gioco delle tre carte verbale in cui si spacciano per verità oggettive le proprie preferenze, mentre viene contemporaneamente attenuata l’assolutezza dei propri giudizi, facendoli apparire come personali. L’“uomo di gusto” è chiaramente un individuo in cui per armonia prestabilita il piacere personale coincide con il bene supremo. Non c’è maniera migliore di falsare un problema». Quello che avviene nel campo della valutazione organolettica del vino segue le orme delle trasformazioni del giudizio in campo estetico tra Otto e Novecento. Da una parte si può parlare di decostruzione del concetto di “gusto” a discapito del predominio romantico della verità dell’arte che riserva al genio il potere conoscitivo riservato alla soggettività di fronte ai fenomeni artistici; dall’altra la decostruzione passa attraverso l’evoluzione sociale dei generi artistici e dei loro pubblici, delle specificità ambientali, sociologiche e psicologiche degli atti ricettivi che si muovono tra un’iper-soggettività delle modalità conoscitive e la possibilità opposta di poterle in qualche modo misurare: «Il gusto non può più dunque essere il modello, filosofico, etico e sociale, di un riferimento qualitativo dell’arte, della bellezza, della natura perché al contrario indica la presenza dell’effimero e del contingente, e non quella di un referente “classico” del giudizio, nella metastoricità del bello: il gusto è la moda, la modernità, il “che fa la sua comparsa specialmente nelle epoche di transizione in cui la democrazia non ha ancora tutto il potere, e l’aristocrazia è solo in parte vacillante e svilita”, ed è dunque “l’ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza”. Gusto è il trucco, il belletto, il bisogno, anche caricaturale, di superare la natura». 57 dandysmo 58 R. Arnheim, cit. in E. Franzini, , in L. Russo (a cura di), , Aesthetica, Palermo 2000, p. 194. , p. 193. 57. La decostruzione del gusto Il Gusto. Storia di una idea estetica 58. Ivi