Introduzione

Nel vasto e caotico universo dell'information technology, dove le competenze si misurano spesso in buzzword per minuto, e le decisioni strategiche vengono prese durante pause caffè troppo lunghe, ho avuto il privilegio, se così si può dire, di vestire praticamente ogni possibile ruolo tecnico e non tecnico. Sono stato un programmatore che deve far funzionare codice scritto prima della sua nascita, poi consulente di tuttologia che deve salvare progetti già tecnicamente morti, passando per l'analista funzionale che deve tradurre in requisiti tecnici i sogni febbricitanti del marketing. Non ultimo, l'esperto di formazione con il compito di spiegare a utenti completamente ignari perché il software che hanno voluto non può funzionare in base alle specifiche che loro stessi hanno definito. Non dimentichiamo ovviamente il ruolo del project manager, cioè colui che deve rendere conto a tutti senza avere il potere di decidere nulla.

Questa versatilità forzata non è stata tanto il frutto di una pianificazione di carriera ponderata, quanto piuttosto il risultato di quella che chiamo gestione delle risorse umane all'italiana: un approccio che si potrebbe riassumere nella filosofia aziendale del "chi c'è, c'è" o, nella sua variante più raffinata, "tanto in qualche modo lo farà". Un metodo che ha portato persone laureate in filosofia teoretica a gestire progetti di machine learning e ragionieri a progettare architetture cloud native. Non che ci sia nulla di male in questo, sia chiaro - alcuni dei migliori professionisti che ho conosciuto hanno background totalmente incongrui con il loro ruolo attuale. Il problema è quando questa improvvisazione diventa sistema.

Quando si studia informatica, o comunque una disciplina tecnologica (ammesso che chi lavora nell'IT abbia studiato informatica, ma parleremo in futuro anche di questo), si parte dal presupposto che ci siano delle regole, dei principi cardine. Si crede ingenuamente che nel mondo del lavoro queste regole saranno rispettate, che il codice sarà sempre elegante, che i progetti saranno gestiti con metodo, e che le decisioni seguiranno una logica razionale. Poi si entra nel mondo reale, e dopo il primo giorno si scopre che metà di quelle regole sono già state violate. Dopo una settimana si scopre che chi prende le decisioni spesso non ha idea di quello di cui sta parlando. Dopo un mese si entra in una fase di elaborazione del lutto professionale. Dopo un anno, si smette di fare domande.